Il 15 settembre 2008, quando la Lehman Brothers dichiarò bancarotta, il più disastroso fallimento della storia americana, la famiglia Lehman non perse neanche un dollaro. La banca fondata a metà dell’Ottocento da tre fratelli ebrei tedeschi, figli di un mercante di bestiame della Baviera, era uscita dall’orbita familiare nel 1969, quando mori Robert Lehman, l’ultimo della dinastia a guidare questa centrale finanziaria. Negli anni successivi l’istituto venne prima fuso con la Kuhn Loeb & Co.. Poi, nel 1984, fu venduto all’American Express che lo fuse con la Shearson. Poi un altro divorzio e la banca che torna attore indipendente. Più tardi, sotto la guida di Dick Fuld, vivrà una tumultuosa crescita: più clienti, più profitti, ma anche rischi sempre più grossi. E gli enormi debiti che la uccideranno.
Nessun danno economico per gli oltre trecento eredi dell’impero Lehman, ma prestigio della famiglia in pezzi. Una storia, quella dei Lehman, che incarna l’evoluzione — o, meglio, l’involuzione — del capitalismo americano nell’arco di due secoli. Vicenda tanto suggestiva e piena di simbolismi da spingere un drammaturgo italiano, Stefano Massini, a dedicarle un libro e un’opera teatrale rappresentata con successo in molti Paesi europei e negli Usa. Una storia imprenditoriale che inizia col commercio — un negozio di tessuti in Alabama — passa all’industria (cotone), e trova l’approdo definitivo nei servizi finanziari: decenni di operazioni prestigiose, che portano sul mercato, tra gli altri, i grandi magazzini Woolworth e Macy’s, i pneumatici Goodrich e le auto Studebaker. Poi gli eccessi della finanza di Wall Street, la scommessa sciagurata dei mutui subprime e il crollo.
Ma dietro quella economica c’è, assai meno notata, la storia di immigrati europei dinamici e pieni di talento. Non solo Henry, Emanuel e Mayer, i tre fratelli che arrivarono uno dopo l’altro in America, ma anche Pete Peterson: il banchiere immigrato dalla Grecia (vero nome Petropoulos) che prese la guida della banca dopo la morte dell’ultimo Lehman e la salvò da una prima crisi. E anche Lewis Glucksman, l’ungherese che affiancò per alcuni anni Peterson, fino a quando non lo attaccò costringendolo a lasciare l’istituto. Questa epopea di migranti — cosa strana in un’epoca in cui si parla solo di immigrati musulmani in Europa e ispanici negli Usa — è anche storia di divisioni nel mondo ebraico e di discriminazioni. Perfino nell’America che accoglieva a braccia aperte le vittime delle persecuzioni razziali del nazismo e del fascismo. Il padre dei tre fratelli aveva già cambiato il nome yiddish di Loeb in Lehmann. Il primo fratello, quando arriva in America, toglie una n e cambia il suo nome da Heyun in Henry. Quando, tre anni dopo, lo raggiungerà Mendel, verrà ribattezzato Emanuel.
I Lehman vendono tessuti a Montgomery, poi sfondano nel cotone. Diventano protagonisti nella contrattazione delle materie prime, entrano nel mercato del caffè, seguono lo spostamento delle contrattazioni trasferendo la sede a New York, entrano in finanza con le obbligazioni ferroviarie.
Pian piano si integrano con le famiglie wasp. Diventano protagonisti in politica con Herbert Lehman, governatore di New York, e col procuratore di Manhattan, Robert Morgenthau (ramo cadetto della famiglia). Ricchi, impegnati in politica, ma senza più peso in finanza e senza identità. L’ultimo raduno di famiglia a New York, una ventina d’anni fa: erano più di 150, ci vollero i saloni del Metropolitan Museum. Oggi i coriandoli di Lehman sono sparsi ovunque: fotografi, filantropi, designer, ex ambasciatori. Dopo il declino, la diaspora.
La lettura – Il Corriere della Sera, 29 ottobre 2017
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