Giuseppe Setola |
La Terra di Lavoro non è
più quella che raccontava Pier Paolo Pasolini in Le ceneri di
Gramsci: «Qualche branco di bufale, qualche mucchio di case tra
piante di pomidori, edere e povere palanche». Oggi di quella
sterminata campagna che costituiva il serbatoio alimentare della
Campania felix non rimane molto, ma ciò che è scampato alla
cementificazione basta a far sopravvivere un caporalato sempre meno
autoctono e più esogeno. Il resto è quasi un'unica banlieue
che si estende fino al basso Lazio, generata dall'esplosione
demografica del capoluogo Napoli, che storicamente ha attirato come
una calamita i cafoni dalle campagne - l’indomabile e reazionaria
«plebe» che ha attirato l'attenzione di giornalisti e scrittori, da
Matilde Serao a Anna Maria Ortese - e poi, con pari virulenza, ha
preso a espellerlie a disseminarli, antropologicamente trasformati,
ai margini del suo territorio. Roberto Saviano ha dipinto - cogliendo
nel segno - gli aspetti più inquietanti della commistione tra
localismo e globalizzazione, individualismo proprietario e
capitalismo liberista, mentalità paesana e cosmopolitismo
affaristico-mafioso. Da Gomorra in poi, la Terra di Lavoro è
diventata la nostra Striscia di Gaza: il territorio più battuto da
inchieste giudiziarie e servizi giornalistici, libri e documentari,
serbatoio inesauribile di storie e luogo paradigmatico delle
contraddizioni del nostro paese e dell’Europa intera. Il più
inquieto e tormentato, osti-co e violento, basso balcanico e al
contempo africano, il ventre molle della penisola. A un tiro di
schioppo dalla capitale.
Lungi dall’esaurirsi,
il filone inaugurato da Gomorra si arricchisce di altri tre libri che
attraversano il casertano raccontandone aspetti diversi, e correlati,
del suo underground. Nato a Casal di Principe - Una storia in
sospeso (Minimum fax, pp.162, € 12) di Amedeo Letizia e Paola
Zanuttini è quello con maggiori ambizioni letterarie. Lei è una
giornalista del Venerdì di Repubblica, lui un produttore
cinematografico nato a Casal di Principe - tra i suoi titoli: Il
resto di niente, dal romanzo di Enzo Striano su Eleonora Fonseca
Pimentel e la rivoluzione partenopea del 1799 - che ha respirato aria
di camorra e ne è stato allo stesso tempo compartecipe e succube. Un
fratello vittima di lupara bianca e mai più ritrovato, un altro
schiantatosi con la sua Porsche, lui stesso borderline finché non
decide di andarsene a Roma dove trova sfogo nel mondo dello
spettacolo - diventando un protagonista della serie tv I ragazzi
del muretto - ma senza abbandonare mai del tutto la sua
«casalesitudine», che è più di uno stile di vita: una
sottocultura provinciale che si alimenta del microclima del paese -
una cittadina di ventimila abitanti - e ha propri codici di
comportamento e linguaggi che solo chi ci è nato e vissuto riesce a
comprendere fino in fondo.
Castel Volturno -
Reportage sulla mafia africana (Einaudi, pp. 200, € 17) di
Sergio Nazzaro si sposta di qualche chilometro appena, ma solo
apparentemente perché i nomi che ricorrono sono sempre gli stessi e
ormai noti come lo furono un tempo i corleonesi rispetto a Cosa
Nostra siciliana: Francesco Schiavone «Sandokan», Antonio Iovine
«‘o ninno», superlatitante come Michele Zagaria, alla cui cattura
è dedicato L'ultimo bunker (Garzanti, pp. 172, € 14) di
Catello Maresca con Francesco Neri.
Si tratta, in fin dei
conti, dellastessa storia raccontata da tre angolature diverse: dal
punto di vista interno di un casalese sopravvissuto a un destino che
rischiava di essere segnato; da quello dentro-fuori degli africani
che abitano lo stesso territorio e ne risultano allo stesso tempo
estranei ma inte-grati nelle sue logiche più perverse; e infine
attraverso lo sguardo esterno del magistrato che cerca di penetrare
nella psicologia dei fuggitivi, nei messaggi cifrati della ragnatela
di fiancheggiatori - uno schema a «cerchi concentrici» - e di
comprendere il funzionamento del«sistema»
imprenditorial-camorristico casalese al fine di entrare nel
meccanismo e smontarlo pazientemente pezzo per pezzo.
Sembra di stare in
Afghanistan quando si legge del drone - un aereo senza pilota usato
dagli americani per scovare i guerriglieri qaedisti - scomparso
misteriosamente nelle campagne del casertano, «perso tra i fuochi
d’artificio della festa patronale di San Cipriano d’Aversa». O
quando si legge dei jammer che permettono agli affiliati alle
cosche di scoprire le microspie e rispedirle al mittente, o ancora
dei disturbatori che schermano le comunicazioni in entrata e in
uscita dalle abitazioni e dei trojan, virus utilizzati per
penetrare nei computer e trasformarli in spie.
L’unica differenza è
che di fronte non c’è Osama bin Laden ma Michele Zagaria, e infine
il sanguinario Giuseppe Setola, ideatore della strategia stragista
che culminerà con la strage della sera di San Gennaro del 2008 nella
sartoria Ob.Ob. Fashion a Castel Volturno, in cui furono uccisi otto
africani. È qui che il racconto del magistrato Maresca trova un
trait d'union con il reportage di Nazzaro. A sua volta,
L'ultimo bunker comincia laddove si conclude il racconto di
Letizia: dalla cattura di Michele Zagaria, l’ultimo grande boss dei
casalesi, dopo quindici anni di latitanza. «L’idea di vivere
quindici anni in un covo sotto terra, con quattro metri di cemento
sopra la testa, mi dà ansia», dice Letizia. E Zagaria, quando sente
il rumore delle trivelle e capisce che è finita, non tenta di
scappare come farà Setola ma si arrende subito: «È finita, dottore
Maresca, è finita! Ha vinto lo Stato, avete vinto voi! Oggi avete
vinto voi!».
La lettura incrociata di
questi tre libri aiuta a comprendere le dinamiche malavitose e fa
conoscere più da vicino quella little Africa - una società che vive
parallelamente a quella locale, con pochi punti di intersezione -che
per troppi anni è rimasta invisibile all’opinione pubblica
italiana, quasi non le appartenesse. Apprendiamo molto del modello
socio-economico mafioso - la nuova camorra spa in cui vanno a
braccetto il suo volto presentabile, imprenditoriale, e il braccio
armato - degli strumenti di cattura del consenso, quasi si tratti di
partiti politici piuttosto che di clan criminali; ma quelle che
rimangono ancora da svelare sono le cause intime di tanta
degenerazione sociale.
Com’è potuto accadere
tutto ciò? In quali radici culturali affonda la cultura dei
Casalesi, profondamente diversa da quella della criminalità
organizzata urbana? A quali responsabilità storiche e politiche
appellarsi per risalire alle origini di tanto disastro? Paola
Zanuttini prova a abbozzare una risposta pre-politica, che va
ricercata in un identitarismo distorto, una cultura «texana»
dell’autodifesa, «figlia della secolare insicurezza del contadino
sottomesso ai capricci della natura», ma anche della «sconfinata
fierezza dello stesso contadino che la natura è riuscito a domarla».
La ferita non curata mi pare sia la stessa che incancrenisce l’intero
Mezzogiorno: l’eradicazione violenta della cultura contadina e la
precipitazione forzata -un po’ come accaduto per i paesi dell’Est
Europa dopo l’89, non a caso anch’essi finiti in balia delle
mafie - nella modernità capitalistica. Quella che quarant’anni fa
Francesco Rosi denunciava in Le mani sulla città e che oggi
ispira Gomorra e i suoi discendenti.
“il manifesto”, alias
domenica, 21 aprile 2013
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