Una mostra allo Spazio
Olivetti a Venezia celebra la grande Maria: lettere inedite, foto,
cimeli. e la storia di una impossibile passione. Quando ebbe in dono
dal suo regista un prezioso anello, credette fosse un pegno
matrimoniale. Non era così e il poeta, nei suoi versi, svelò alla
cantante il suo segreto: da quella ferita nacque un’amicizia, unico
conforto della Divina.
“Quest’ombra caduta
su di te, che io sento – parlandoti ingiustamente…” Sono parole
dolenti quelle che Pier Paolo Pasolini rivolge a Maria Callas per
incominciare Verba, una delle dieci poesie dedicate dallo
scrittore alla divina. È già l’immagine messa a fuoco di un amore
impossibile; ma anche il segno di un’amicizia intensa. Siamo a
Trigonissi, un’isola dell’Egeo, nell’agosto del ’70. La
Callas e Pasolini trascorrono insieme un intero mese di vacanza.
Lunghe passeggiate in riva al mare, grandi confessioni. Maria
racconta tutta la sua vita all’uomo che l’aveva fatta innamorare
un anno prima durante le riprese di Medea, ma del quale aveva
dovuto accettare ben presto l’omosessualità. E al tramonto Pier
Paolo componeva.
Le poesie sono oggi
custodite dal cugino dello scrittore, Nico Naldini. Furono pubblicate
nella raccolta Trasumanar e organizzar, ma ben pochi
percepirono a chi fossero indirizzate (la Callas non viene mai
nominata), quale trepida storia ci fosse dietro. Ora due di queste
vengono esposte nella grande mostra di foto, cimeli, lettere della
Callas presentata fino al 31 luglio allo spazio Olivetti in piazza
San Marco a Venezia, prima di girare il mondo in questo ’93 in cui
la divina avrebbe compiuto 70 anni. Una notevole quantità di
“inediti” che serviranno soprattutto a far conoscere meglio la
Callas fragile, lontana dai riflettori del palcoscenico. Un altro
squarcio di luce sul rapporto tra due delle personalità più
controverse e affascinanti della nostra cultura.
Oltre a Verba, nella
quale Pasolini definiva la Callas «ancora orgogliosa di essere una
ragazza di città, e piena della morale antica…», c’è L’anello
che allude agli equivoci e al “momento di verità” dell’unione
tra i due. L’anello era quello che, dopo le scene finali di Medea
nella laguna di Grado, Pier Paolo regalò a Maria: un’antica
corniola di Aquileia incastonata in una struttura argentata di foggia
romanica. La Callas lo scambiò per una vera dichiarazione, il
preludio alla richiesta di matrimonio. Ma tra i versi Pasolini chiama
il pegno “la gemma che disposa”!
In riva all’Egeo,
Pasolini ritrasse la Callas anche in una serie di disegni su
cartoncino. Il tratto è marcato e poi “graffiato”, le macchie di
colore sono create con la terra, con i fiori e la frutta macerata. Fu
Franco Rossellini a stabilire nel ’69 un primo contatto tra
Pasolini e la Callas. Pier Paolo pensava a una Medea barbara,
un’eroina che avrebbe destinato al rogo pronunciando le parole
«Nulla è più possibile ormai». E immaginava nel soprano l’essenza
di questa tragicità. Prima dell’incontro Maria volle vedere due
film del regista: Il Vangelo e Teorema. Il primo le
piacque, ma il secondo la scandalizzò. Pensava, Maria, di trovare un
intellettuale comunista barricadero. Fu invece disarmata e colpita
dalla personalità dolcissima, piena di sensibilità malinconica, di
Pasolini: capì subito che aveva di fronte un uomo indifeso come lei.
Accettò il progetto, scartando proposte cinematografiche, un Macbeth
di Visconti, una Tosca di Zeffirelli, un film di Losey sulla
sua vita. Medea doveva anche essere un segnale di Maria a
Onassis: «come dire la fine della nostra storia non mi ha distrutta,
sono ancora viva», racconta il giornalista Bruno Tosi, da sempre
cultore dei grandi miti della lirica, che ha curato la mostra di
Venezia e si appresta a far uscire un libro sulla cantante (Casta
diva, editore Pantheon, a fine giugno), con 280 immagini, di cui
220 inedite, scritto in collaborazione con Enrico Castiglioni.
Il film non ebbe poi il
successo sperato ma Pier Paolo e Maria costellarono il loro sodalizio
di molti viaggi, tra cui quello in Africa nel Natale del ’70 in
compagnia di Alberto Moravia e Dacia Maraini. Ricorda la Maraini
nella prefazione al libro di Tosi: «Quando Maria diceva qualcosa di
goffo, Pier Paolo la guardava sorridendo e se ne usciva con una
“Mariaaa” dalla “a” finale molto allungata. E lei taceva
mortificata ma anche contenta di essere stata redarguita
affettuosamente… era così indifesa e arresa di fronte all’amore
che veniva voglia di proteggerla. Forse sentiva l’esilio (voluto da
lei) dai palcoscenici come qualcosa di imperdonabile e doloroso e si
dedicava all’amore con animo fermo e trepido». Due anni dopo, in
una lettera del luglio ’72 era la Callas a consolare Pasolini,
abbandonato da Ninetto Davoli.
La mostra veneziana,
curata da Marco Rietti, si avvale del materiale proveniente da alcuni
collezionisti, Ilario Tamassia, Michele Nocera e il regista teatrale
Flavio Trevisan, oltre che delle immagini dell’archivio de «Il
Gazzettino» e di quello personale di Bruno Tosi. Tra gli oggetti ci
sono due “amuleti” che la Callas portava sempre con sé. Un
quadretto del Cignaroli (una “Sacra famiglia”), regalatole dal
marito Giambattista Meneghini, suo ardente Pigmalione, dopo il
debutto italiano del 47 in Gioconda all’Arena di Verona; e
una cintura portata nella sua prima Aida, che poi volle
indossare sempre in scena, nascosta sotto gli altri abiti. Lettere,
telegrammi, bigliettini danno una luce diversa al personaggio
grintoso e spavaldo della divina, ne rivelano soprattutto le ansie.
Le parole più intense sono quelle degli ultimi anni. A Wally
Toscanini nel ’66: «… Il mio fondo è una naturale timidezza e
quasi gelosia e paura che mi vedano dentro l’anima che è così
sensibile e vulnerabile…». Al grande critico Eugenio Gara, nello
stesso anno: «… Non sai che tristezza può essere l’arte lirica
oggi… Non dico che facevamo la perfezione ma almeno c’era tanta
umiltà, devozione. Oggi c’è tanta vanità, presunzione e lasciamo
stare il resto». Certo, viene fuori anche la Callas ruggente degli
anni d’oro. Elvira De Hidalgo, la maestra che ebbe nel suo periodo
greco, prima di giungere in Italia, in una lettera del 48 si
congratula dei suoi successi: «Come vedi avevo ben ragione se ti
dicevo di non ascoltare nessuno perché con il mio metodo avresti un
giorno potuto cantare qualsiasi opera, mentre gli altri ti dicevano
che eri un soprano drammatico a 16 anni…». In quello stesso
periodo il direttore del Festival di musica contemporanea di Venezia,
Ferdinando Ballo, le propone il Cardillac di Hindemith, l’
impresario Ansaloni le comunica in un telegramma che il Bellini di
Catania la vorrebbe per due recite di Norma, «ma la richiesta di 120
mila lire a recita è trovata esagerata» (Maria agli inizi ne
prendeva 80 mila a spettacolo, negli Anni ’60 arrivava a 10
milioni).
Luchino Visconti le fa
gli auguri il 2 gennaio del ’58 a poche ore dalla Norma
all’Opera di Roma, manifestandole nostalgia (per i fasti della
Traviata scaligera), ammirazione e devozione grandissima:
«Sarò nel palco di seconda fila a destra». Ma quella sera, davanti
al presidente della Repubblica Gronchi, sarebbe avvenuto
l’incredibile: Maria, che non era in forma per una raucedine,
avrebbe interrotto l’opera dopo il primo atto, infastidita da
battute d’ostilità del pubblico. «Andemo Tita che l’opera s’è
finia», disse in veneto all’esterrefatto tenore Franco Corelli che
racconta nel libro di Tosi le turbolenze della Callas dietro le
quinte.
La reazione del pubblico
al forfait fu rovente. E lo scandalo, enorme; persino il
ministro dello Spettacolo Ariosto chiese ai teatri (e soprattutto
alla Scala) di non chiamare più la Callas, perché aveva offeso il
presidente: pressione comunque ignorata. Tosi pensa a una
“riconciliazione” della Callas con Roma, il 2 dicembre, data
della nascita della cantante, con un gran galà.
La mostra, dopo essere
passata per Parigi, Atene e Toronto, approderà da novembre nella
capitale a Palazzo Ruspoli, arricchita tra l’altro di una trentina
di costumi scaligeri. Il dramma degli ultimi giorni della cantante,
sempre più depressa e imbottita di medicinali, è racchiuso in un
biglietto dell’estate «In questi fieri momenti tu sol mi resti. E
al cor mi tenti l’ultima voce del mio destino, ultima croce del mio
cammino». Sono le parole della Gioconda, manca solo la prima:
«Suicidio…». Ma a una settimana dalla morte, avvenuta il 16
settembre ’77, dava appuntamento a Maurice Béjart per parlare di
un progetto cinematografico. La scrittura è tuttavia quasi
illeggibile, un preludio della fine. Come l’immagine che la ritrae
a passeggio con i suoi due barboncini ciechi, lo sguardo spento e
sgomento, dopo i flash dei trionfi artistici e mondani: dagli esordi
greci nel 38 in Boccaccio di Suppé alla gloria della Fenice
che fu la culla nei primi Anni ’50 del suo periodo più fulgido,
alle indimenticabili feste veneziane di Elsa Maxwell.
La mostra è il primo
frutto dell’Associazione Maria Callas, presieduta da Tosi, che
riunisce nel comitato direttivo 18 primedonne della lirica, da Fedora
Barbieri a Magda Olivero, da Joan Sutherland a Renata Tebaldi, da
Giulietta Simionato a Elisabeth Schwarzkopf. E poi Marilyn Horne,
Renata Scotto, Regina Resnik, Birgit Nilsson, Leyla Gencer, Mirella
Freni, Virginia Zeani, Raina Kabaivanska, Antonietta Stella, Elena
Nicolai, Anita Cerquetti, Rosanna Carteri. Si è anche formato un
comitato interdisciplinare con 30 personalità della cultura e
dell’arte (da Strehler a Eco, da Mario Luzi a Zanzotto, da Pomodoro
a Petrassi e Berio). Tosi promette un grande cenacolo annuale per far
scaturire idee che rilancino il nome della Callas. Il pittore Enzo
Cucchi sta preparando un manifesto della divina («sarà una carta
d’identità», dice) che girerà in tutto il mondo.
Ma gli sforzi saranno
diretti soprattutto verso i giovani: un concorso, borse di studio e
infine un Museo Callas. «Parigi non è riuscito a farlo – dice
Tosi – potrebbe essere la grande occasione per riappropriarci di un
mito che ci appartiene a pieno titolo».
«Corriere della sera»,
12 giugno 1993
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