2.11.17

Callas e Pasolini: “Di quell’ amor…” (Alessandro Cannavò)

Una mostra allo Spazio Olivetti a Venezia celebra la grande Maria: lettere inedite, foto, cimeli. e la storia di una impossibile passione. Quando ebbe in dono dal suo regista un prezioso anello, credette fosse un pegno matrimoniale. Non era così e il poeta, nei suoi versi, svelò alla cantante il suo segreto: da quella ferita nacque un’amicizia, unico conforto della Divina.
“Quest’ombra caduta su di te, che io sento – parlandoti ingiustamente…” Sono parole dolenti quelle che Pier Paolo Pasolini rivolge a Maria Callas per incominciare Verba, una delle dieci poesie dedicate dallo scrittore alla divina. È già l’immagine messa a fuoco di un amore impossibile; ma anche il segno di un’amicizia intensa. Siamo a Trigonissi, un’isola dell’Egeo, nell’agosto del ’70. La Callas e Pasolini trascorrono insieme un intero mese di vacanza. Lunghe passeggiate in riva al mare, grandi confessioni. Maria racconta tutta la sua vita all’uomo che l’aveva fatta innamorare un anno prima durante le riprese di Medea, ma del quale aveva dovuto accettare ben presto l’omosessualità. E al tramonto Pier Paolo componeva.
Le poesie sono oggi custodite dal cugino dello scrittore, Nico Naldini. Furono pubblicate nella raccolta Trasumanar e organizzar, ma ben pochi percepirono a chi fossero indirizzate (la Callas non viene mai nominata), quale trepida storia ci fosse dietro. Ora due di queste vengono esposte nella grande mostra di foto, cimeli, lettere della Callas presentata fino al 31 luglio allo spazio Olivetti in piazza San Marco a Venezia, prima di girare il mondo in questo ’93 in cui la divina avrebbe compiuto 70 anni. Una notevole quantità di “inediti” che serviranno soprattutto a far conoscere meglio la Callas fragile, lontana dai riflettori del palcoscenico. Un altro squarcio di luce sul rapporto tra due delle personalità più controverse e affascinanti della nostra cultura.
Oltre a Verba, nella quale Pasolini definiva la Callas «ancora orgogliosa di essere una ragazza di città, e piena della morale antica…», c’è L’anello che allude agli equivoci e al “momento di verità” dell’unione tra i due. L’anello era quello che, dopo le scene finali di Medea nella laguna di Grado, Pier Paolo regalò a Maria: un’antica corniola di Aquileia incastonata in una struttura argentata di foggia romanica. La Callas lo scambiò per una vera dichiarazione, il preludio alla richiesta di matrimonio. Ma tra i versi Pasolini chiama il pegno “la gemma che disposa”!
In riva all’Egeo, Pasolini ritrasse la Callas anche in una serie di disegni su cartoncino. Il tratto è marcato e poi “graffiato”, le macchie di colore sono create con la terra, con i fiori e la frutta macerata. Fu Franco Rossellini a stabilire nel ’69 un primo contatto tra Pasolini e la Callas. Pier Paolo pensava a una Medea barbara, un’eroina che avrebbe destinato al rogo pronunciando le parole «Nulla è più possibile ormai». E immaginava nel soprano l’essenza di questa tragicità. Prima dell’incontro Maria volle vedere due film del regista: Il Vangelo e Teorema. Il primo le piacque, ma il secondo la scandalizzò. Pensava, Maria, di trovare un intellettuale comunista barricadero. Fu invece disarmata e colpita dalla personalità dolcissima, piena di sensibilità malinconica, di Pasolini: capì subito che aveva di fronte un uomo indifeso come lei. Accettò il progetto, scartando proposte cinematografiche, un Macbeth di Visconti, una Tosca di Zeffirelli, un film di Losey sulla sua vita. Medea doveva anche essere un segnale di Maria a Onassis: «come dire la fine della nostra storia non mi ha distrutta, sono ancora viva», racconta il giornalista Bruno Tosi, da sempre cultore dei grandi miti della lirica, che ha curato la mostra di Venezia e si appresta a far uscire un libro sulla cantante (Casta diva, editore Pantheon, a fine giugno), con 280 immagini, di cui 220 inedite, scritto in collaborazione con Enrico Castiglioni.
Il film non ebbe poi il successo sperato ma Pier Paolo e Maria costellarono il loro sodalizio di molti viaggi, tra cui quello in Africa nel Natale del ’70 in compagnia di Alberto Moravia e Dacia Maraini. Ricorda la Maraini nella prefazione al libro di Tosi: «Quando Maria diceva qualcosa di goffo, Pier Paolo la guardava sorridendo e se ne usciva con una “Mariaaa” dalla “a” finale molto allungata. E lei taceva mortificata ma anche contenta di essere stata redarguita affettuosamente… era così indifesa e arresa di fronte all’amore che veniva voglia di proteggerla. Forse sentiva l’esilio (voluto da lei) dai palcoscenici come qualcosa di imperdonabile e doloroso e si dedicava all’amore con animo fermo e trepido». Due anni dopo, in una lettera del luglio ’72 era la Callas a consolare Pasolini, abbandonato da Ninetto Davoli.
La mostra veneziana, curata da Marco Rietti, si avvale del materiale proveniente da alcuni collezionisti, Ilario Tamassia, Michele Nocera e il regista teatrale Flavio Trevisan, oltre che delle immagini dell’archivio de «Il Gazzettino» e di quello personale di Bruno Tosi. Tra gli oggetti ci sono due “amuleti” che la Callas portava sempre con sé. Un quadretto del Cignaroli (una “Sacra famiglia”), regalatole dal marito Giambattista Meneghini, suo ardente Pigmalione, dopo il debutto italiano del 47 in Gioconda all’Arena di Verona; e una cintura portata nella sua prima Aida, che poi volle indossare sempre in scena, nascosta sotto gli altri abiti. Lettere, telegrammi, bigliettini danno una luce diversa al personaggio grintoso e spavaldo della divina, ne rivelano soprattutto le ansie. Le parole più intense sono quelle degli ultimi anni. A Wally Toscanini nel ’66: «… Il mio fondo è una naturale timidezza e quasi gelosia e paura che mi vedano dentro l’anima che è così sensibile e vulnerabile…». Al grande critico Eugenio Gara, nello stesso anno: «… Non sai che tristezza può essere l’arte lirica oggi… Non dico che facevamo la perfezione ma almeno c’era tanta umiltà, devozione. Oggi c’è tanta vanità, presunzione e lasciamo stare il resto». Certo, viene fuori anche la Callas ruggente degli anni d’oro. Elvira De Hidalgo, la maestra che ebbe nel suo periodo greco, prima di giungere in Italia, in una lettera del 48 si congratula dei suoi successi: «Come vedi avevo ben ragione se ti dicevo di non ascoltare nessuno perché con il mio metodo avresti un giorno potuto cantare qualsiasi opera, mentre gli altri ti dicevano che eri un soprano drammatico a 16 anni…». In quello stesso periodo il direttore del Festival di musica contemporanea di Venezia, Ferdinando Ballo, le propone il Cardillac di Hindemith, l’ impresario Ansaloni le comunica in un telegramma che il Bellini di Catania la vorrebbe per due recite di Norma, «ma la richiesta di 120 mila lire a recita è trovata esagerata» (Maria agli inizi ne prendeva 80 mila a spettacolo, negli Anni ’60 arrivava a 10 milioni).
Luchino Visconti le fa gli auguri il 2 gennaio del ’58 a poche ore dalla Norma all’Opera di Roma, manifestandole nostalgia (per i fasti della Traviata scaligera), ammirazione e devozione grandissima: «Sarò nel palco di seconda fila a destra». Ma quella sera, davanti al presidente della Repubblica Gronchi, sarebbe avvenuto l’incredibile: Maria, che non era in forma per una raucedine, avrebbe interrotto l’opera dopo il primo atto, infastidita da battute d’ostilità del pubblico. «Andemo Tita che l’opera s’è finia», disse in veneto all’esterrefatto tenore Franco Corelli che racconta nel libro di Tosi le turbolenze della Callas dietro le quinte.
La reazione del pubblico al forfait fu rovente. E lo scandalo, enorme; persino il ministro dello Spettacolo Ariosto chiese ai teatri (e soprattutto alla Scala) di non chiamare più la Callas, perché aveva offeso il presidente: pressione comunque ignorata. Tosi pensa a una “riconciliazione” della Callas con Roma, il 2 dicembre, data della nascita della cantante, con un gran galà.
La mostra, dopo essere passata per Parigi, Atene e Toronto, approderà da novembre nella capitale a Palazzo Ruspoli, arricchita tra l’altro di una trentina di costumi scaligeri. Il dramma degli ultimi giorni della cantante, sempre più depressa e imbottita di medicinali, è racchiuso in un biglietto dell’estate «In questi fieri momenti tu sol mi resti. E al cor mi tenti l’ultima voce del mio destino, ultima croce del mio cammino». Sono le parole della Gioconda, manca solo la prima: «Suicidio…». Ma a una settimana dalla morte, avvenuta il 16 settembre ’77, dava appuntamento a Maurice Béjart per parlare di un progetto cinematografico. La scrittura è tuttavia quasi illeggibile, un preludio della fine. Come l’immagine che la ritrae a passeggio con i suoi due barboncini ciechi, lo sguardo spento e sgomento, dopo i flash dei trionfi artistici e mondani: dagli esordi greci nel 38 in Boccaccio di Suppé alla gloria della Fenice che fu la culla nei primi Anni ’50 del suo periodo più fulgido, alle indimenticabili feste veneziane di Elsa Maxwell.
La mostra è il primo frutto dell’Associazione Maria Callas, presieduta da Tosi, che riunisce nel comitato direttivo 18 primedonne della lirica, da Fedora Barbieri a Magda Olivero, da Joan Sutherland a Renata Tebaldi, da Giulietta Simionato a Elisabeth Schwarzkopf. E poi Marilyn Horne, Renata Scotto, Regina Resnik, Birgit Nilsson, Leyla Gencer, Mirella Freni, Virginia Zeani, Raina Kabaivanska, Antonietta Stella, Elena Nicolai, Anita Cerquetti, Rosanna Carteri. Si è anche formato un comitato interdisciplinare con 30 personalità della cultura e dell’arte (da Strehler a Eco, da Mario Luzi a Zanzotto, da Pomodoro a Petrassi e Berio). Tosi promette un grande cenacolo annuale per far scaturire idee che rilancino il nome della Callas. Il pittore Enzo Cucchi sta preparando un manifesto della divina («sarà una carta d’identità», dice) che girerà in tutto il mondo.
Ma gli sforzi saranno diretti soprattutto verso i giovani: un concorso, borse di studio e infine un Museo Callas. «Parigi non è riuscito a farlo – dice Tosi – potrebbe essere la grande occasione per riappropriarci di un mito che ci appartiene a pieno titolo».


«Corriere della sera», 12 giugno 1993

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