Per garantire un introito
al suo collaboratore Leopold Infeld, che non aveva ancora un posto in
università, nel 1938 Einstein decise di scrivere assieme a lui un
saggio destinato a diventare famoso, L’evoluzione della fisica.
Durante la stesura Infeld gli confessò di sentirsi particolarmente
in ansia, visto che il libro avrebbe recato in copertina il nome del
più celebre scienziato del mondo. «Non è il caso di preoccuparsi –
lo tranquillizzò Einstein –, ci sono anche lavori sbagliati con la
mia firma».
Einstein sapeva benissimo
che gli errori fanno parte del gioco della scienza e riteneva che non
dovessero creare particolari imbarazzi. Ne aveva commesso qualcuno e
non si vergognava di ammetterlo. Nel linguaggio comune la parola
«errore» ha varie sfumature, e quando la si applica alla scienza
conviene essere accorti. Prescindendo completamente dall’uso del
termine come sinonimo di «incertezza di misura» (frequente in
fisica), possiamo distinguere due tipi di errori nella normale
attività scientifica: 1) i veri e propri sbagli, nei calcoli, nelle
deduzioni o nella conduzione di un esperimento; 2) le ipotesi, le
teorie e i programmi di ricerca che si rivelano a posteriori fallaci.
Entrambe queste situazioni sono perfettamente fisiologiche (la prima
è addirittura universale – errare humanum), e solo una
visione superficiale dell’impresa scientifica può dipingerle come
macchie nella reputazione degli scienziati (anche dei più grandi) o
come passi falsi sulla via della verità.
Nel caso di Einstein, gli
errori del primo tipo sono spesso legati alla peculiare struttura
logica della relatività generale, che rende di difficile lettura
alcune sue predizioni. Fu così, per esempio, che egli pensò per un
breve periodo, nel 1936, di aver dimostrato – vent’anni dopo
averle previste – l’irrealtà delle onde gravitazionali. Di
questo sbaglio si accorse quasi subito, mentre non corresse mai i
risultati di quello che alcuni storici della scienza considerano il
suo peggior lavoro scientifico, un articolo del 1939 in cui sosteneva
l’impossibilità del collasso gravitazionale di una stella fino
allo stato di buco nero (negli stessi giorni J. Robert Oppenheimer e
Hartland Snyder erano giunti – correttamente – alla conclusione
opposta).
Non un vero sbaglio, ma
una svista, compare in un’altra famosissima nota einsteiniana,
quella (molto breve) in cui il padre della relatività prevedeva il
fenomeno delle lenti gravitazionali – la distorsione dell’immagine
di sorgenti lontane a causa della presenza di grossi corpi che
deflettono con la loro gravità i raggi luminosi. Ipotizzando che i
corpi in questione fossero stelle, Einstein concluse che l’effetto
era piccolissimo e impossibile da rilevare (per inciso, si noti come
gli “sbagli” di Einstein andassero curiosamente sempre nella
direzione di sottostimare la ricchezza fenomenologica della sua
teoria). Pochi mesi dopo, l’astronomo Fritz Zwicky gli fece notare
che, se ad agire da lente gravitazionale fosse stata una galassia,
l’effetto sarebbe stato osservabile (come sappiamo, Zwicky aveva
ragione, e dal 1979 – anno della loro scoperta – le lenti
gravitazionali sono diventate un fenomeno comune).
Rientra invece nella
seconda tipologia quello che Einstein stesso definì l’errore più
grande della sua vita: l’introduzione della costante cosmologica.
Nel 1917 Einstein aveva inaugurato la moderna cosmologia teorica
applicando l’equazione fondamentale della relatività generale
all’intero universo, immaginato come una massa fluida omogenea. Si
era accorto però che ne risultava un universo in contrazione o in
espansione, non statico, come tutti credevano che fosse (mancando
indizi contrari). Per ottenere una soluzione statica, aveva allora
introdotto nella sua equazione un termine correttivo che conteneva un
parametro arbitrario, la costante cosmologica. L’equazione aveva
perso in eleganza e in semplicità, ma guadagnato apparentemente sul
piano empirico. Nel 1929, tuttavia, l’astronomo statunitense Edwin
Hubble scoprì che il cosmo era tutt’altro che statico. Le galassie
si allontanano da noi – e da qualunque punto di osservazione –
con una velocità proporzionale alla loro distanza, segno
inequivocabile di un’espansione dell’universo. La costante
cosmologica, dopo questa scoperta, non serviva più e l’equazione
di Einstein, liberatasi da un orpello non necessario, poteva tornare
a rifulgere in tutta la sua bellezza.
Ma, secondo il matematico
e divulgatore David Bodanis, «il più grande errore di Einstein»
(sempre del secondo tipo, nella nostra classificazione) non fu –
diversamente da quanto pensava il diretto interessato – la costante
cosmologica, bensì la pervicace ostilità nei confronti della
meccanica quantistica. Con il senno di poi, Bodanis ha ragione: se
solo il grande fisico avesse accettato la teoria quantistica nella
forma che essa aveva preso a partire dalla metà degli anni Venti
(per opera di Heisenberg, Schrödinger, Born, Dirac, e sotto la
supervisione concettuale di Niels Bohr), probabilmente i trent’anni
della sua vita spesi nella ricerca di una teoria unificata classica
(che pure – va detto – hanno avuto effetti collaterali di una
certa importanza) sarebbero stati ben più fruttuosi. C’è però da
chiedersi: poteva Einstein – il genio formatosi ancora
nell’Ottocento, che diceva di aver assunto la teoria classica dei
campi con il latte materno, il creatore solitario delle due
relatività, l’alfiere di una concezione granitica della scienza
come processo di comprensione del reale regolato da criteri di
semplicità logica – poteva questo Einstein accettare la visione
del mondo di Copenaghen?
Bodanis sostiene – ed è
questa la tesi centrale, ma anche la parte più debole, del suo libro
– che l’atteggiamento di Einstein nei confronti della meccanica
quantistica fosse figlio dello smacco ricevuto con la scoperta
dell’inutilità della costante cosmologica, che sarebbe stata
introdotta per dar conto dei dati osservativi. Dopo quell’esperienza
Einstein si sarebbe isolato sempre di più dalla comunità
scientifica, «decidendo di poter ignorare gli esperimenti che
sembravano confutare ciò che lui era convinto che fosse giusto». È
una ricostruzione difficilmente sostenibile. Innanzitutto, Einstein
aveva operato in isolamento già negli anni di gestazione della
relatività generale (con Tullio Levi-Civita, nell’aprile del 1915,
si lamentava di quanto poco i suoi colleghi fossero «sensibili
all’esigenza di una vera teoria della relatività»). In secondo
luogo, il suo lavoro cosmologico, più che dai dati astronomici (che
conosceva poco), era guidato, come al solito, da considerazioni e
princìpi fondamentali – in particolare, dall’idea, dovuta a
Ernst Mach, di un legame tra inerzia e distribuzione della materia.
Infine, l’ostilità nei confronti della meccanica quantistica
risaliva a ben prima del 1929 e prescindeva dai fatti empirici,
muovendo più che altro da una critica ai fondamenti generali e non
ai risultati applicativi della teoria (nella quale, peraltro, non
faceva fatica ad ammettere che ci fosse qualcosa di “vero”).
Il rapporto di Einstein
con l’esperimento fu sempre piuttosto articolato (a dispetto di
certe sue battute). Salvo che negli anni giovanili, i programmi di
ricerca einsteiniani non scaturirono mai da necessità empiriche. Ciò
non significa però che egli considerasse il confronto con i dati
irrilevante: nel 1915, a convincerlo della correttezza delle
equazioni del campo gravitazionale appena ottenute fu tanto la loro
eleganza formale quanto il fatto che esse spiegavano un piccolissimo
fenomeno noto da tempo, l’anomalia dell’orbita di Mercurio. Il
successo della relatività generale, basata su un postulato di
simmetria e su un’equazione che è la più semplice equazione
possibile coerente con tale postulato, lo convinse a procedere, nella
costruzione teorica, sempre in quel modo. Ma non fu in grado di
ripetere il successo. Era un uomo di princìpi (filosofici ed
epistemologici), come le teorie che prediligeva e inventava, ma i
princìpi, a volte, possono privare di quella flessibilità
necessaria a riconoscere un vicolo cieco e a cambiare strada.
Ironia della sorte, la
recente scoperta che l’espansione dell’universo sta accelerando
ha riportato in auge la costante cosmologica di Einstein, che
descrive proprio tale accelerazione. Difficile, a questo punto,
considerarla un errore! È il destino della fisica teorica. Molti dei
lavori che quotidianamente compaiono sulle riviste specialistiche
finiranno nel dimenticatoio o nella carta straccia. In compenso, tra
la carta straccia di qualche mente ingegnosa potrebbe nascondersi
l’idea che gli altri stanno faticosamente cercando.
“Il Sole 24 Ore”,
Domenica 29 luglio 2017
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