Una piccola precisazione
sulla recensione qui postata, notevole per l'intuizione che contiene
della poesia come “figura” del comunismo, assolutamente
condivisibile. Il titolo del volume della LIL (Letteratura Italiana
Laterza) diretta da Carlo Muscetta, uscito nel 1976, I poeti del
Novecento non ha nulla di significativo rispetto a Fortini e
probabilmente non fu scelto dall'autore. È ricalcato sui titoli
usati in tutta quella grande storia letteraria, posta in vendita in
due edizioni parallele, in grandi volumi rilegati (uno o due per
secolo) e in volumi monografici che ne contengono solo un capitolo.
Il titolo in questione richiama i titoli usati per temi analoghi in
tutta l'opera (es. I poeti giocosi dell'età barocca, I poeti del
Secondo Ottocento ecc.) [S.L.L.]
Quando nel marzo del
1977, in una collana di Laterza diretta da Carlo Muscetta, pubblica
la monografia-antologia sul Novecento italiano Franco Fortini non è
ancora nel senso comune Franco Fortini e cioè uno dei maggiori poeti
del secolo. Ha sessant’anni e alle spalle raccolte cruciali (da
Foglio di via, ’46, a Questo muro, ’73), è entrato
negli «Oscar» Mondadori con le Poesie scelte (’73) a cura
di un giovane fuoriclasse della critica, Pier Vincenzo Mengaldo,
eppure la sua ricezione è sfuocata o oscurata da una immagine più
aggettante, quella dell’ex redattore di «Politecnico» e poi
collaboratore di «Quaderni Rossi» e «Quaderni Piacentini», del
saggista di Dieci inverni (’57) e Verifica dei poteri
(’65), del traduttore di Brecht ed Eluard, cattiva coscienza
itinerante della sinistra italiana o, come pure fu detto, sua
implacabile ombra di Banquo.
Soltanto negli anni
successivi, fra l’eclissi del decennio antagonista e il principio
di una nuova glaciazione politica e culturale, alla sua voce
sarebbero stati riconosciuti i tratti della necessità e di una
compiuta originalità.
Dunque è probabile che
la stesura de I poeti del Novecento – che ora tornano
(Donzelli «Saggi», pp. 294, € 28,00) a cura di uno studioso
benemerito quale Donatello Santarone e l’annessa recensione che lo
stesso Mengaldo pubblicò su «Nuovi Argomenti» nel ’79, – abbia
avuto per lui tanto il valore di una complessiva ricapitolazione
quanto della messa a punto di una posizione per proverbio refrattaria
e minoritaria.
Rigetto delle
tendenze
Intanto già nel titolo,
quasi atono nella sua semplicità, c’è il rigetto di linee e
tendenze che manu militari, fra Grande Stile e Avanguardia, si
erano divise il secolo fino alla estrema unzione di Edoardo
Sanguineti (Poesia italiana del Novecento, ’69) e in
presenza di rare eccezioni (ad esempio Poesie e realtà ’45-’75,
a firma di Giancarlo Majorino, che esce da Savelli solo nel settembre
del ’77 ma di cui Fortini deve avere avuto senz’altro precedente
notizia).
Scandito in cinque
capitoli, per scorci storici e un’ampia campionatura, il secolo di
Fortini ha forma di costellazione dove pulsano alcune stelle fisse:
all’origine i «Vociani» e specialmente Rebora (oltre le ipoteche
di Pascoli e d’Annunzio o, in minore, di Gozzano, la cui invadenza
è limitata nella misura di vistosi antefatti); Umberto Saba, la cui
centralità evade la consueta diade di vecchio/nuovo e piuttosto si
ascrive, nei modi di una perpetua lacerazione/ricomposizione, al
bisogno di recuperare una totalità umana che si sa perduta;
Ungaretti e gli ermetici, attivi tra il fascismo e la guerra
mondiale, qui letti come testimoni di una vera e propria età
dell’afasia; i poeti definiti dell’esistenzialismo, a partire da
Montale la cui opera (massime tra Le occasioni e La Bufera)
si staglia, nel connubio di transitività/intransitività, come il
massimo esempio ora di resistenza ora di omeopatia al Male secolare e
perciò al male indotto da un ordine economico-politico che la sua
poesia riceve come tabù e che infatti non può nominare se non nei
modi stravolti di una simbologia infera: il contraltare, colui che
invoca una parola umana non più dimidiata, si chiama per Fortini, e
va da sé, Giacomo Noventa; infine le figure del passato prossimo o
del presente, da Pasolini a Zanzotto , da Giudici a Pagliarani, su
cui incombono i percorsi dei suoi più grandi coetanei (Luzi e, su
tutti, Vittorio Sereni), in un capitolo il cui incunabolo sta nel
saggio Le poesie italiane di questi anni uscito in «Menabò»
nel ’60.
Il secolo poetico
poligenetico
Santarone, nel suo
scritto in postfazione, rende esplicita la mozione di Fortini, che se
da un lato rifiuta la metafisica dell’assolutamente moderno per cui
il «dopo» sovrasta sempre il «prima» (vedi il caso eloquente di
Saba) dall’altro è consapevole della natura poligenetica e
policentrica del secolo poetico, né oggi può apparire un caso che,
uscita per i «Meridiani» nel novembre del ’78 e tra i suoi nomi
primi l’autore di Questo muro, la grande antologia di Mengaldo (il
cui ventennale rapporto con Fortini è ancora tutto da studiare) si
intitolasse a sua volta Poeti italiani del Novecento, nel comune
diniego delle «poetiche» più o meno secolarizzate o militarizzate
che non sapessero tuttavia tradursi in «poesie».
Scrive Mengaldo nella
recensione del ’79: «Non si tratta solo di deferenza, in Fortini,
a un bisogno di pluralismo culturale, ma anche di consapevolezza
della dialettica e tensione fra programmi e realizzazioni. (…)
Fortini sa bene che ai programmi letterari, quale che sia il loro
contenuto, magari eversivo, inerisce inevitabilmente qualcosa di
affermativo dell’ordine esistente».
La totalità
dell’umano
Quanto preme a Fortini,
ed è all’origine della sua annosa sottovalutazione (lo si tacciò
di petulante ideologo in coabitazione con un inveterato classicista),
è la capacità di inverare una forma o meglio di testimoniare in una
forma, per allegoria o profezia, la totalità dell’umano. Fosse
anche per esprimere, nella coscienza della parzialità, la sua
mancanza. È questa la lezione che gli viene dalle Scritture, da una
lunga meditazione del marxismo, dai maestri più prossimi, Lukács
prima ancora dei Francofortesi, con cui dialoga, a proposito di
poesia, nel libro baricentrico della sua saggistica, Verifica dei
poteri, adesso riproposto con una appassionata prefazione di
Alberto Rollo (Il Saggiatore «La Cultura», pp. 360, € 24,00).
Vi sono contenuti alcuni
testi celeberrimi, da «Astuti come colombe» a «Mandato degli
scrittori e fine dell’antifascismo», le pagine su Pasternak,
Proust, Kafka, Brecht, ma è sintomatico come ancora nel ’69,
introducendone la seconda edizione, titolo La poesia ‘regressiva’
e il rifiuto della letteratura, sentisse l’esigenza di concentrarsi
sulla nozione di poesia e sul concetto di forma.
Parlava allora a un
pubblico fortemente ideologizzato, ai duri e puri della «pratica»
rivoluzionaria o sedicente, a quanti, soprattutto giovani, ritenevano
che tra la letteratura e la lotta di classe potessero soltanto
intercorrere rapporti di evasione e/o di mistificazione. Parlava a
tutti costoro ma parlava intanto a sé medesimo mentre veniva
coniando l’immagine dell’uso formale della vita, vale a dire
della poesia come gesto di riconciliazione spettrale tra vivi e
morti, tra parti atrofiche e vive, tra mai-più e non-ancora, fra
coscienza della parzialità ed esigenza di totalità nell’essere al
mondo.
Insomma sentiva la poesia
come anticipazione o allegoria o (questa è proprio la parola-chiave
che gli viene da Dante via Auerbach) come figura del comunismo.
Scrive a un certo punto, in maniera persino accorata: «Quando parlo
di uso formale della vita intendo la possibilità di dare, più che
un ordine, una intenzione alla propria esistenza; è l’intenzione a
riordinare il passato e il presente. Tale proposta ha avuto nella
storia dell’Occidente greco-cristiano e poi in quella
protestante-borghese, le caratteristiche di un dover-essere, di tipo
– da due secoli almeno – idealistico. Ma tutte le formulazioni
che rifiutavano le etiche coscienziali, la salvazione cristiana o
l’universalismo kantiano, anche proponevano la tramutazione di
tutti i valori, finivano pur con un savoir vivre, con una
proposta di vita. Quella comunista – quando parla del libero
sviluppo di ognuno e di tutti – non fa eccezione».
Tutto questo si riassume
in emblema nel verso che suggella, in Composita solvantur
(’94), la parabola poetica di Franco Fortini: “Proteggete le
nostre verità”.
Alias – il manifesto,
29 ottobre 2017
Nessun commento:
Posta un commento