Giuseppe Prezzolini da vecchio |
Mi
piacerebbe far capire - e, prima degli altri, capire io - le ragioni
di una mia davvero immutabile antipatia per Giuseppe Prezzolini, che
si rinnova ad ogni incontro con una sua pagina. E siccome Prezzolini
ha scritto moltissimo, fin da suoi vent’anni e ne ha vissuti più
di cento; e molte egregie persone, ultimo Asor Rosa, lo hanno preso
molto sul serio, come un protagonista della cultura italiana della
prima metà del secolo e c’è persino chi ne fa l’anti-Gramsci,
mi dico che deve trattarsi, quanto a me, di settarismo inguaribile,
incapacità intellettuale e probabilmente morale. Perché - voglio
dirlo subito - non nasce davvero dalla sua avversione al socialismo o
dal suo fascismo. Non dai suoi limiti facilmente visibili. dalle
equivoche oscillazioni filosofiche: quanti non sono stati come lui,
che quella antipatia non mi risvegliano e non hanno la metà dei suoi
meriti, almeno nel primo ventennio del Novecento. Ed è singolare che
prima che si chiudessero i suoi anni italiani per quelli newyorkesi,
certi aspetti del carattere e della scrittura avessero ricevute
critiche da animi così diversi e anche opposti come Boine, Serra,
Gobetti, Gramsci, mentre la critica dello scorso quarantennio
riproduce, nei confronti di quello che è stato chiamato il suo
«eclettismo reazionario», non tanto una divisione fra 'sinistra’
e 'destra’ (stroncatori i giudizi degli uni - Russo, Binni,
Isnenghi - e celebrativi o almeno simpatetici quelli degli altri -
Falqui, Pampaloni) quanto una divisione interna alla stessa sinistra.
Il poeta un
bugiardo
Una
divisione che conosco bene perché l’ho vissuta di persona. Asor
Rosa la dice con chiarezza: da una parte sta «l’ala
moralistico-protestantica dell’intellettualità italiana
postrisorgimentale, da De Sanctiis a Gramsci» che vuole una
«rivoluzione intellettuale e morale», dall’altra una 'sinistra’
con una visione non moralistica della lotta politica, fondata sui
bisogni e i rapporti di forza. Queste due parti nel corso del secolo
hanno continuato a combinare variamente le loro funzioni e a
scambiarsi i ruoli, ognuna delle due fornendo uomini e idee agli
avversari e ai nemici di tutte e due.
È
inutile riassumere questo libretto, scritto alla brava e pensato non
senza libertinaggio (L'arte di persuadere di
Giuseppe Prezzolini - introduzione dì Alberto Asor Rosa, Liguori,
1991). Il gergo di questo Prezzolini è di paradossi assai modesti e
di una oratoria da commedia dell’arte. Si tratta di un’aria del
tempo che a ragione Asor Rosa riferisce a Sem Benelli o Luigi
Chiarelli, il tema della maschera e del volto e che mi fa pensare,
più che a Pirandello, alle gesticolazioni mentali e ai monologhi dei
suoi personaggi. Il tema della bugia che aiuta la persuasione fu
endemico nell’Europa d’allora (Wilde e Shaw: La
professione della signora Warren
è del 1894) almeno quanto la passione per gli pseudonimi,
soprattutto fra gli iberici; tema di ascendenza romantica, a
intermittenza ricomparso (pensiamo alla ossessione del 'doppio’)
lungo la seconda metà del secolo e rifiorito nella psicologia del
liberty, anche italiano.
Quel
che induce, almeno in me, un senso di squallore e di grettezza è la
(non casuale) separazione di quei modelli psicologici da quelli
sociologici, separazione che non era stata invece né di Ibsen né
nei russi degli ultimi due decenni del secolo. Quando il giovane
Prezzolini si serve di James psicologo (alla vigilia, per così dire,
di Freud) chiama a supporto schemi psicologici classici, dai gesuiti
del Gran Secolo a Aristotele: «II
poeta è un bugiardo che diletta, lo scienziato è un bugiardo che fa
cose utili; poeta e scienziato sono creatori come uno dei primi stadi
di quelle creazioni che eccitano l’ammirazione umana col nome di
poemi o di scoperte».
Nulla di male, se si trattasse di una citazione da Teofrasto o da
Quevedo. Il guaio è che quelle righe le scrive un giovanotto del
1907.
Scrive
Asor Rosa che dal rapporto maschera-teatro, quel Prezzolini passa a
quello fra scena unidimensionale - gioco delle apparenze -
cinematografo. Verrebbe voglia di dire: da Il
fu Mattia Pascal
(1904) al Si gira
(1915). Il prefatore ha ragione quando insiste sull’incombere di
una «civiltà delle masse», quasi inavvertita sul rapporto fra
persuasore e persuaso, fra ingannatori e ingannati, ancora
individuale in Prezzolini: per esempio, nella valutazione della
reclame; ma, davvero, non nuova in Europa.
Quasi
inavvertita e, ancora una volta, non innocentemente. La straordinaria
operazione che pochi anni più tardi, con “La Voce”, Prezzolini
dirigerà impiegandovi tutto il suo genio pratico-politico, è anche
quella della formazione di una élite di 'persuasori’, di
avanguardie del «ceto pedagogico» o della «classe dei colti» che
finirà o distrutta dalla guerra o dilaniata e ammutolita dalle sue
contraddizioni o propagandista del massacro o - finalmente - disposta
a riconoscersi nel Fascismo.
Nessuno
è così poco storicista da attribuire a tutta una lunga vita le
sciocchezze del ventenne: ma quando, nella ultima pagina del suo
opuscolo, il Prezzolini, parlando della autopersuasione, auspica un
futuro in cui «la creazione arbitraria dell’io, la creazione e la
trasformazione arbitraria del mondo, saranno le future qualità per
cui si distinguerà l’uomo o certi uomini; l’animale razionale
cederà il posto all’animale creativo», sappiamo con quanta
obbedienza l'avvenire abbia risposto a queste profezie. Quanti
giovanotti di robusta testa filosofica hanno trovato imperdonabile,
fazioso e, per dir tutto, stalinista, un librone Einaudi, giallo
limone, del 1955 che nel titolo parlava di distruzione della ragione!
Se la grazia divina o la farmacopea li hanno mantenuti in vita fino
ad oggi, ci ripensino.
Da Prezzolini a
Scalfari
Ma
molte più interessante è l’ipotesi, avanzata da Asor Rosa, che il
giovane Michelstaedter, fra l’autunno fiorentino del 1908 e il
suicidio goriziano del 1910, nel titolo della sua tesi (La
persuasione e la rettorica)
alludesse, anche polemicamnte, all’opuscolo prezzoliniano, stampato
a Firenze nel 1907. Mentre per Prezzolini la persuasione è arte
'sofistica’ ossia tecnica di poere e di plagio, per Michelstaedter
è una condizione di inalterabilità interiore e di 'vuoto’
raggiunto anche asceticamente; nel diritto, dice Asor Rosa, di «non
farsi convincere e di non convincere». Il prefatore sostiene che su
questo principio non può fondarsi nessun sistema di comunicazione; e
ne consegue il distacco, psicologico o fisico, dal mondo. Mi viene in
mente che una quarantina d’anni fa un amico mi faceva notare come
l’apparentemente 'tollerante’ Togliatti più illuminista, che
marxista, volesse 'persuadete’, eventualmente disposto a reprimere
con i più duri mezzi (esito dialettico dell’illuminismo giacobino)
chi - e perciò malvagio - non si arrendesse alla ragione; laddove
Gramsci, più marxista che illuminista e quindi persuaso della
irriducibilità delle visioni del mondo indotte dalle condizioni di
classe, proprio da ciò e dalla volontà di modificare queste ultime
traeva motivo perii suo ininterrotto e 'tollerante’ argomentare,
volto a ricostruire in tutti i loro anfratti le altrui o avverse
'visioni del mondo'. Asor Rosa vede invece i due modelli (quello del
fiorentino e quello del goriziano) come diametralmente opposti e
quindi, in qualche modo, simmetrici. Dice, molto giustamente, che
l’arte propagandistica prezzoliniana ha fondato una vera e propria
tradizione del giornalismo; dopo di lui il grande giornalista «è al
tempo stesso suasore, attore, uomo di mondo e àpota» (termine con
cui Prezzolini definiva quelli che, come lui, «non le bevono»,
proponendo a Gobetti nel 1922 di fondare una associazione che li
raccogliesse) «una tradizione che da Prezzolini va ad Ansaldo, da
Ansaldo a Longanesi, a Benedetti, a Montanelli, Bocca, Scalfari; che
[...] è al tempo stesso violentemente critica e profondamente
solidale con il sistema borghese cui appartiene e che perciò è
costantemente in bilico fra reazione e progressismo, conformismo e
anticonformismo, e, per alcuni, tra fascismo e afascismo, o, pei
meglio dire, tra fascismo e apotismo».
Ma
la conclusione contiene un messaggio degno di particolare attenzione.
In ipotesi, dice, si dovrebbe non accettare che una teoria della
comunicazione «non possa essere fondata che sulla menzogna. In
pratica è quello che avviene tutti i giorni. Il colpo di pistola di
Michelstaedter continua a risuonare pateticamente come l’eco
lontana delle urla di trionfo che accompagnano ancor oggi' il
'successo’ dei vari Prezzolini. Oramai lo sappiamo con certezza: è
così e non ci si può fare niente».
È
un tratto ben noto ai lettori di Asor Rosa, antimoralista,
antisentimentale e antipopulista; anche se in passato quel 'nulla da
fare’ era la immediata premessa di un 'nonostante tutto...’. In
altre parole: contro chi, con qualunque mezzo, ha successo, chi ha
soltanto ragione è impotente. Non resta che far torto o patirlo.
Urlare con i lupi o esserne sbranato. Non è parola molto diversa da
quella dell’odierno darwinismo sociale. «Taci, tu che sei vinto»,
per citare Adelchi (gran libro) ancora una volta.
Il
che tutto sarebbe verissimo, anzi è verissimo: lo è anche perché
la potenza del Disvalore e del Male è la condizione del suo
contrario, persino ridicolo parlarne.
C'è
tuttavia un punto, capitale, che i pessimisti assoluti tendono a
dimenticare (spesso anche Leopardi): la difesa della vita propria o
degli immediati vicini, da quella biologica contro quanto può
storpiarti o affamarti o ucciderti a quella pro
aris et focis
ossia contro la riduzione allo stato servile, è una forza smisurata.
Cresce o no il numero di coloro che non hanno altra scelta che di
combattere o morire, di combattere per morire o di lasciarsi morire?
Per carità, alle nostre latitudini (anche mentali) e ragionando in
compagnia dei nostri prezzolini, certo quelle alternative sembrano
barzellette.
Ferro e veleno
Sono,
infatti, assenti dal nostro presente, lo saranno per chissà quanto
tempo ancora, ogni giorno un certo numero di noi o una certa parte di
ciascuno di noi passa dalla parte dei più forti e aiuta a uccidere i
più deboli. Se invece volete suicidarvi o andare in convento,
accomodatevi. Oppure potete continuare ad andare in ufficio, in
facoltà, in vacanze, in fabbrica e così via. Nessun dubbio: lo
farete, lo farò io per primo. Però: se «non ci si può fare
niente», perché non cercate di farvi pagare meglio, di 'tradire’
ma in buona coscienza, come tanti altri fanno? La lagna dello
’sconfittismo’ è intollerabile. Credo però che questa tendenza
a meditare lungamente «ferro e veleno» e poi andare a cena con gli
amici-nemici venga dalla paura di aver compiuto una troppo affrettata
lettura della realtà, di essere stati persuasi dai pubblici
mentitori perché, in profondo, volevamo esserlo, volevamo essere dei
morti-viventi, degli zombi o degli infanti, beati se scorgiamo ancora
lunga, davanti a noi, la fila per la camera a gas, dove entreremo con
i nostri giornali e i manoscritti sottobraccio.
“il
manifesto”, venerdì 11 ottobre 1991
Nessun commento:
Posta un commento