Tra lotte operaie,
capitalismo e religione,
c'è voluto un secolo
per conquistare il wickend
che la globalizzazione
digitale ha cancellato.
Ma il tempo libero crea
ricchezza:
dove si lavora meno
cresce la produttività
La prima immagine che mi
viene in mente è in Hook – Capitan Uncino di Steven
Spielberg. Dopo l’ennesima telefonata di lavoro, Robin
Williams/Peter Pan lancia dalla finestra il telefono, uno di quei
primi cellulari con l’antennona e la mascherina. L’idea era: mi
devo rimpossessare della mia famiglia, della mia vita, di me. Chissà
se quella scena avveniva di sabato sera. Certo era la vigilia di
Natale o roba così, insomma: vacanza. Di momenti come quello ne
avremmo visti a centinaia nelle annate cinematografiche successive,
tutti rimasti assolutamente vani.
Hook è uscito nel
remoto 1991 e da allora, invece di gettare i telefoni dalla finestra,
siamo andati in direzione contraria: ogni frazione di tempo, pure
quello teoricamente libero, andava riempita con il lavoro. «Siamo
passati da “working for the weekend” a “working on the
weekend”», ha scritto di recente “Forbes”. Se l’allarme
arriva persino dalla bibbia del business, forse abbiamo davvero un
problema.
La scorsa primavera è
uscito The Weekend Effect: The Life-Changing Benefits of Taking
Two Days Off. Tradotto: riprendiamoci i soliti due giorni di
stacco settimanale. Solo due, mica si pretende chissà che. L’autrice
– Katrina Onstad, ex firma del “Globe and Mail”, canadese: un
dettaglio geografico solo apparentemente irrilevante – va alla
reconquista del fine settimana con l’evidenza di chi sta
compiendo un gesto rivoluzionario. Forse il suo lo è davvero.
Una lotta lunga
duecento anni
L’abbrivio è storico.
Il saggio comincia dalle lotte sindacali al tempo della rivoluzione
industriale inglese, quando l’istanza principale non era la paga
troppo bassa o lo sfruttamento minorile, bensì il conteggio delle
ore lavorative. «Il tempo era la nuova moneta: non passava, veniva
speso», scriverà parecchi decenni più tardi lo storico E.P.
Thompson. Nasce così il primo giorno festivo, che nel Regno Unito di
due secoli fa è il lunedì: bisognava riprendersi dalle sbronze
della domenica sera. Un salto in avanti ed eccoci negli Stati Uniti:
Henry Ford, la grande fabbrica, il capitale. Il miraggio adesso sono
due giorni interi di pausa, che, secondo il magnate dell’automobile,
diventano un guadagno pure per i capi: è tempo fatto per spendere la
paga settimanale. È l’inizio dell’era dei consumi e anche dei
cinque giorni lavorativi, entrati ufficialmente in vigore in
Inghilterra, Usa e Canada negli anni Cinquanta del secolo scorso.
All’inizio del
millennio, la globalizzazione impone di riconsiderare i giorni liberi
anche da parte di chi tradizionalmente ne prevedeva di altri. Leggi:
arabi ed ebrei. Uniformare il tempo del lavoro supera i singoli culti
disseminati in tutto il mondo. Marxismo, capitalismo e religioni,
uniti nella comune lotta per un giorno da santificare (che fosse
destinato alla preghiera o alla spesa non fa differenza), non
sapevano che sarebbero andati incontro a uno scenario diverso da
quello sperato. In pochissimi decenni, il tempo del lavoro si è
allargato a dismisura, le nuove tecnologie hanno riempito gli
interstizi una volta riservati all’ozio, le professioni sono
arrivate dentro gli smartphone, raggiungendo il destinatario ovunque
fosse. Non possiamo mica permetterci di non rispondere, vero?
Prigionieri di uno
smartphone
«La tecnologia ci
incatena al lavoro», sostiene Onstad. «Passiamo i fine settimana
rispondendo a chiamate, controllando l’email e affermando la nostra
fedeltà e il nostro valore attraverso la dedizione al lavoro. In
quest’epoca di fragilità economica, tutti vogliamo mostrarci
sempre disponibili. Siamo stati noi ad uccidere il weekend [anche
quando non lavoriamo]. Lo abbiamo riempito di attività che ci
lasciano sfiniti e insoddisfatti, la domenica sera ci prende la
depressione. Grazie ai negozi aperti pure la domenica, lo shopping è
diventato un’attività ricreativa, ma non di quelle che ci fanno
stare meglio. Il “loop della solitudine” è la teoria secondo cui
il materialismo porta la gente a sentirsi sola, e il sentirsi soli
porta a spendere. Sappiamo che la felicità sta nel contatto umano.
Ma, se il weekend non esiste più, allora non esiste più neanche il
tempo per partecipare alla vita delle nostre comunità». Pensate a
chi vi sta attorno. In quanti vi dicono continuamente: «Non ho mai
tempo per fare niente»?
Scordatevi gli
orari
Prima del saggio di
Onstad, è uscito un altro testo sul tema: Rest: Why You Get More
Done When You Work Less. Ovvero: stacca. E vedrai che, se
lavorerai meno, produrrai di più. Per avallare la sua tesi, l’autore
Alex Soojung-Kim Pang scomoda il filosofo Adam Smith: «L’uomo che
lavora costantemente ma con moderazione non solo preserva la sua
salute più a lungo, ma, in un anno, produce una quantità di lavoro
maggiore». Oggi l’equazione è saltata. Ho un’amica che lavora
nella moda. Fa la buyer, ruolo che mi è ancora ignoto. Fino a un
paio di anni fa era dipendente di un marchio italiano. Secondo una
clausola contrattuale, il sabato gli straordinari non le erano mai
riconosciuti; la domenica solo sopra le quattro ore, col risultato
che lavorava pure di domenica anche se solo per quattro ore, appunto.
Dovendosi lei occupare di campagne vendita, altro territorio a me
ignoto, finiva per regalare all’azienda interi weekend di seguito.
Ha cambiato società. Ora è sempre un marchio italiano, ma assorbito
da un grosso gruppo francese. La situazione degli straordinari è
migliorata, seppur di poco. In compenso, fin dal primo colloquio, le
è stato intimato: «Scordati di far cadere la penna alle 18 in
punto».
Io ho fatto una scelta
opposta. Pur da freelance, mi sono imposto di non lavorare nel
weekend e di far cadere la penna alle 18 in punto. Ho orari più da
ufficio di chi va in ufficio. E, soprattutto, contravvengo al
principio su cui si basa il decalogo del libero professionista: «Io
non ho orari». Col cavolo.
Più lavori, meno
produci
Da anni fioccano le
ricerche sul rapporto tra ore di lavoro e produttività. John
Pencavel, docente di Economia a Stanford, ha diffuso tre anni fa i
risultati della sua indagine. «In ogni periodo di recessione si
pensa che, per ridurre il tasso di disoccupazione, basti diminuire il
numero di ore lavorative tra la popolazione impiegata. Tuttavia, se
consideriamo lavoro solo la somma delle ore totalizzate da ogni
lavoratore, si può ottenere la stessa cifra anche se ciascuno lavora
per meno ore e più persone possono così essere impiegate. Molti
governi hanno applicato questo sistema per incoraggiare un
cambiamento». Gli fa eco, oggi, Katrina Onstad: «È un modello
umano e intelligente: i Paesi che promuovono un orario di lavoro più
flessibile sono più produttivi. Dopo quaranta ore di lavoro
settimanali, la qualità della produzione cala. Salvaguardare i
weekend è segno di buon governo e anche di una più fruttuosa idea
di business». La Storia può essere maestra: gli economisti
insegnano che nel Medioevo, quando non si lottava per i diritti ma
per la sopravvivenza, si lavorava meno e si produceva di più.
Lotta per il tempo
libero, parte seconda
Oltre a Onstad, qualcun
altro ci sta provando, a riesumare i fine settimana. Con mano più
pesante. La Chiesa vuole riprendersi la domenica, oggi santa giusto
per i centri commerciali. Negli Stati Uniti è nato il movimento
“Back to Sunday Church”, che – dicono loro – ha già
riportato in parrocchia quattro milioni di americani in otto anni.
Qualcosa si muove anche dal basso, vale a dire sulle bacheche di
Facebook. Gianni Morandi non fa in tempo a postare una foto con le
buste del supermercato la domenica che viene giù un pieno: sarebbe
questa la solidarietà verso i poveri lavoratori sfruttati? (Segue
dibattito). Il mondo continua però su un’altra strada: non va a
messa, va all’Ikea. Senza smettere di controllare la mail
dell’ufficio.
Lo scorso aprile è stata
presentata un’altra ricerca, promossa dalla compagnia di noleggio
Enterprise. Rivela che, su dieci americani, sette lavorano nel fine
settimana, con una media di nove ore al giorno. Le persone
interpellate rispondono, nel 63% dei casi, che il loro capo si
aspetta che lavorino anche il sabato e la domenica. Il 61% rivela che
è automatico pensare al lavoro anche nei giorni teoricamente di
pausa. Più l’età del lavoratore è giovane, più la situazione
peggiora: il 74% della fascia 25-44 anni con la testa non stacca mai;
tra i 45-60enni succede solo al 49% degli intervistati. Jonathan
Alpert, psicologo e autore del saggio Be Fearless: Change Your Life
in 28 Days, entra in campo con i suoi trucchetti per vivere meglio.
Ovvero: non pensare: «I weekend sono troppo corti», ma, proprio
perché hai meno tempo libero, trova il modo di sfruttarlo al meglio;
non passare le giornate a dormire, cerca di metterle a frutto; trova
un equilibrio tra l’ansia di pianificare con anticipo ogni tuo
giorno libero e la bellezza di lasciarti andare agli imprevisti.
Nella ricerca non v’è traccia dell’ultimo consiglio, quello –
lo chiamerei io – di Peter Pan. E cioè: lancia il telefono dalla
finestra. Per questo no, non siamo ancora pronti. Soprattutto nel
weekend: non potremo mai rinunciare a postare le foto #nofilter delle
nostre gite fuori porta. Scattate nei rarissimi sabati e domeniche in
cui non lavoriamo, si capisce.
Pagina 99, 22 settembre
2017
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