Nei primi giorni di
agosto del 1957 lo scrittore Italo Calvino inviò alla segreteria
della Cellula «G.Pintor» e della sezione «A. Gramsci», Torino,
alla segreteria della Federazione torinese; alla segreteria nazionale
del Partito e alla direzione dell’Unità una lettera in cui
comunicava le proprie dimissioni. “L'Unità” la pubblicò seguita
da una replica firmata dal direttivo della Federazione di Torino.
(S.L.L.)
La lettera di dimissioni
Cari compagni,
devo comunicarvi la mia
decisione ponderata e dolorosa di dimettermi dal partito.
Ho rinnovato la tessera
del ‘57 manifestando un dissenso: questo dissenso non si è affatto
attenuato col passare dei mesi, tanto che mi sono astenuto da ogni
attività di Partito e dalla collaborazione alla sua stampa, perché
ogni mio atto politico non avrebbe potuto non portare traccia del mio
dissenso, e cioè costituire una nuova infrazione disciplinare dopo
quelle già rimproveratemi.
Insieme a molti compagni,
avevo auspicato che il Partito comunista italiano si mettesse alla
testa del rinnovamento internazionale del comunismo, condannando
metodi di esercizio del potere rivelatisi fallimentari e
antipopolari, dando slancio all’iniziativa dal basso in tutti i
campi, gettando le basi per una nuova unità di tutti i lavoratori, e
in questo fervore creativo ritrovasse il vigore rivoluzionario e il
mordente sulle masse. Sono stato tra chi sosteneva che solo uno
slancio morale impetuoso e univoco potesse fare del 1956 veramente
l’anno del rinnovamento e rafforzamento del Partito, in un momento
in cui dalle più diverse parti del mondo comunista ci venivano
appelli al coraggio e alla chiarezza. Invece, la via seguita dal PCI
nella preparazione e in seguito all’VIII Congresso, attenuando i
propositi rinnovatori in un sostanziale conservatorismo, ponendo
l’accento sulla lotta contro i cosiddetti «revisionisti» anziché
su quella contro i dogmatici, m’è apparsa (soprattutto da parte
dei nostri dirigenti più giovani e nei quali ponevamo più speranze)
come la rinuncia ad una grande occasione storica.
In seguito ho sperato che
il tradizionale centrismo della nostra Segreteria garantisse il
diritto di cittadinanza nel Partito alle posizioni dei rinnovatori
come lo garantiva di fatto ai più radicali dogmatici. La linea
seguita in questi mesi fino all’ultima riunione del Comitato
Centrale è particolarmente grave perché il momento poteva essere
particolarmente propizio a un passo in avanti e nulla si è mosso e
la drastica e sprezzante stroncatura del lavoro di ricerca di
Giovanni Giolitti (cui mi lega una profonda stima e una fraterna
solidarietà) mi ha tolto ogni residua speranza di poter svolgere una
funzione utile pur ai margini del Partito.
Ho fiducia nel movimento
storico che porterà il socialismo, da una forma di organizzazione
accentrata e autoritaria, a forme di democrazia diretta e di
partecipazione funzionale della classe lavoratrice e degli
intellettuali alla direzione politica ed economica della società. È
su questa via che il movimento comunista mondiale è spinto a
risolvere i suoi problemi, con o senza soluzione di continuità a
seconda della capacità di rinnovamento dei Partiti comunisti dei
vari paesi. È in questo senso che intendo continuare a volgere i
miei orientamenti politici.
La passione del nostro
dibattito interno e le prospettive dell’avvenire non mi hanno fatto
dimenticare la gravità dell’attuale situazione politica italiana.
La mia decisione di abbandonare la qualifica di membro del Partito è
maturata soltanto quando ho compreso che il mio dissenso col Partito
era diventato un ostacolo ad ogni mia partecipazione politica. Come
scrittore indipendente potrò in determinate circostanze prendere
posizione al vostro fianco senza riserve interiori, come potrò
lealmente (e sempre conscio dei limiti di un punto di vista
individuale) rivolgervi delle critiche ed entrare in discussione. So
benissimo che l’«indipendenza» è termine che può essere
illusorio ed equivoco, e che le lotte politiche immediate sono decise
dalla forza organizzata delle masse e non dalle sole idee degli
intellettuali; non intendo affatto abbandonare la mia posizione di
intellettuale militante, né rinnegare nulla del mio passato. Ma
credo che nel momento presente quel particolare tipo di
partecipazione alla vita democratica che può dare uno scrittore e un
uomo d’opinione non direttamente impegnato nell’attività
politica, sia più efficace fuori dal Partito che dentro.
Sono consapevole di
quanto il Partito ha contato nella mia vita; vi sono entrato a
vent’anni, nel cuore della lotta armata di liberazione; ho vissuto
come comunista gran parte della mia formazione culturale e
letteraria; sono diventato scrittore sulle colonne della stampa di
Partito; ho avuto modo di conoscere la vita di Partito a tutti i
livelli, dalla base al vertice, sia pure con una partecipazione
discontinua e talora con riserve e polemiche, ma sempre traendone
preziose esperienze morali e umane; ho vissuto sempre (e non solo dal
XX Congresso) la pena di chi soffre gli errori del proprio tempo, ma
avendo costantemente fiducia nella storia; non ho mai creduto
(neanche nel primo zelo del neofita) che la letteratura fosse quella
triste cosa che molti nel Partito predicavano, e proprio la povertà
della letteratura ufficiale del comunismo mi è stata di sprone a
cercare di dare al mio lavoro di scrittore il segno della felicità
creativa: credo di essere sempre riuscito ad essere, dentro il
Partito, un uomo libero.
Che questo mio
atteggiamento non subirà mutamenti fuori dal Partito, può essere
garantito dai compagni che meglio mi conoscono, e sanno quanto io
tenga a esser fedele a me stesso, e privo di animosità e di rancori.
Vorrei che, considerata
la ponderatezza di queste mie dimissioni, mi si evitassero i colloqui
previsti dallo statuto, che non farebbero che incrinare la serenità
di questo commiato.
Vi chiedo di pubblicare
questa lettera sull’Unità perché il mio atteggiamento sia chiaro
ai compagni, agli amici, agli avversari.
Vorrei rivolgere un
saluto ai compagni che nei loro settori di lavoro lottano per
affermare giusti principi, e anche a quelli più lontani dalle mie
posizioni che rispetto come combattenti anziani e valorosi e al cui
rispetto, nonostante le opinioni diverse, tengo immensamente; e a
tutti i compagni lavoratori, alla parte migliore del popolo italiano,
dei quali continuerò a considerarmi il compagno.
Italo Calvino
Il comunicato della
Federazione
Il Comitato direttivo
della federazione torinese del P.C.I. ha preso conoscenza della
lettera di dimissioni dal Partito di Italo Calvino. Mentre spetta
alla cellula «G. Pintor» la decisione sul merito, il Comitato
direttivo ritiene necessario esprimere il proprio giudizio sugli
argomenti con i quali Italo Calvino appoggia la sua decisione. Tali
argomenti si sviluppano attorno alla affermazione secondo cui il
nostro Partito non avrebbe nella realtà adempiuto ai compiti di
rinnovamento che si era esso stesso preposto.
Nessuno contesta a
Calvino il diritto di avere una sua opinione sul modo con cui il
rinnovamento si va compiendo nel Partito, ma ciò che è da
respingere è che egli pretenda di fare del proprio giudizio l’unica
misura obiettiva di valutazione e che da ciò tragga la grave
conclusione di lasciare il Partito.
Vi è qui un evidente
allontanamento dal metodo di valutazione marxista, per il quale
dovrebbe essere chiaro che le posizioni e le esperienze dei singoli
confluiscono nel dibattito a formare insieme quella superiore realtà
politica e storica che è rappresentata dalle posizioni collettive
del Partito, ma non possono pretendere di sostituirsi ad esse, senza
negare la funzione del Partito medesimo nella società moderna e di
fronte agli odierni compiti del proletariato.
Era conoscendo questa
funzione insostituibile che Italo Calvino aveva ad esso aderito, e
questa posizione che egli confusamente ammette quando riconosce che
«l’indipendenza è termine che può essere illusorio ed equivoco,
e che le lotte politiche immediate (e non soltanto queste, diciamo
noi) sono decise dalla forza organizzata delle masse e non dalle sole
idee degli intellettuali».
Sicché le sue dimissioni
rappresentano un arretramento rispetto a quelle posizioni che Calvino
stesso aveva raggiunto e risultano in significativa contraddizione
con talune affermazioni stesse contenute nella sua lettera. Di fatto,
nel gesto di Calvino e nella sua lettera si esprime l’abbandono di
una conquista fondamentale del pensiero marxista e del movimento
operaio in generale: la necessità del Partito politico della classe
operaia come forma suprema di organizzazione e unità delle masse
sfruttate nella loro lotta per l’emancipazione e per costruire una
società socialista. A tale conquista storica della Classe operaia
Calvino sostituisce oggi formule confuse ed ambigue sul terreno
ideologico e politico, là dove parla di una sua azione come
«scrittore indipendente» (indipendente da chi? e da cosa?) e di «un
tipo particolare di partecipazione alla vita democratica che può
dare uno scrittore»: formule che propongono una inaccettabile
rinuncia – e proprio nel momento attuale – alla piena
partecipazione dell’intellettuale al momento più alto della lotta
rivoluzionaria, un cedimento rispetto alle sue responsabilità verso
la classe operaia, un abbandono delle posizioni marxiste.
È da respingersi con
fermezza l’opinione che il P.C.I. sia andato attenuando i propositi
rinnovatori in un sostanziale conservatorismo.
Il nostro Partito è
stato tra le forza più avanzate del movimento operaio internazionale
nel raccogliere gli insegnamenti del XX Congresso e ciò non per caso
ma in quanto per la sua precedente politica, per il modo con cui esso
aveva già individuato le caratteristiche sostanziali della via
italiana al socialismo, era tra i più preparati ad accoglierli,
sicché l’VIII Congresso ha veramente rappresentato l’opera
conseguente per portare avanti l’elaborazione della nostra via al
socialismo, nella lotta contro ogni riserva ed ogni impaccio
massimalista, settario e dogmatico. Nessuno può scordare che molto
resta ancora da compiere sulla via indicata dall’VIII Congresso,
affinché tutto il Partito ne assimili e ne arricchisca ulteriormente
gli insegnamenti; ma si tratta di un’opera che esige il contributo
fattivo e combattivo di tutti. Così è da respingere l’affermazione
che il Partito abbia posto l’accento sulla lotta contro i
«revisionisti», anziché su quella contro i dogmatici, poiché il
Partito lotta con eguale fermezza contro le posizioni degli uni e
degli altri, a seconda di come si manifestano, e l’VIII Congresso è
stato in realtà una grande battaglia contro il dogmatismo e il
massimalismo, condotta senza nulla concedere a chi chiedeva un
allontanamento dai principi conquistati dall’avanguardia operaia
attraverso decenni di elaborazione teorica e di azione politica.
Italo Calvino può anche
non essere d’accordo con questi giudizi, ma non deve avere
l’assurda pretesa che la sua opinione debba necessariamente
prevalere, perché la sua presenza nel Partito continui ad essere
possibile, poiché, in questo caso è proprio nella sua posizione che
si manifesta quella intolleranza per l’opinione altrui che è
incompatibile con il rinnovamento e il rafforzamento del Partito che
impedisce lo svilupparsi della democrazia del Partito nel modo più
ampio possibile.
I lunghi anni di fraterno
lavoro e di lotte condotte in comune con Italo Calvino esigevano
queste franche parole e anche la loro serenità, tanto più in quanto
Calvino si propone di essere ancora al fianco dei comunisti in molte
battaglie.
Condannando il suo gesto
di dimissioni e criticando i suoi errori, noi non solo rimaniamo
fedeli ai principi e alla linea del nostro Partito, ma intendiamo
dare ancora un aiuto a Italo Calvino perché egli riesca a ritrovare
la giusta posizione di lotta, propria di un intellettuale militante
quale Calvino dichiara ancora di voler essere.
Il Comitato direttivo della
Federazione torinese del P.C.I.
«L’Unità», 7 agosto
1957
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