Beppe Viola intervista Enzo Bearzot |
Poco più di tre anni fa,
in una domenica di ottobre del 1982, se ne andò per sempre Beppe
Viola, giornalista sportivo della Rai. Aveva 43 anni, pochissimi per
morire, soprattutto quando la gente ti vuole bene e non accetta di
perderti. Era grande e grosso, e produttivo come un lombardo grande e
grosso: quattro figlie, centinaia di servizi televisivi, altrettanti
articoli sparsi qua e là sulle testate più disparate, come briciole
di humour e disincanto. Mangiava molto e beveva anche di più. Amava
forte la vita, che l'ha imbrogliato andandosene senza preavviso e
senza dolcezza.
Beppe Viola era
spiritoso. E un giornalista sportivo spiritoso, in Italia (ma forse
ovunque) è insieme una rarità e una fortuna. Una rarità perché il
mestiere, oggi, è soprattutto un gigantesco collettore di cattiva
retorica, servilismo mercantile verso gli sponsor, enfasi
patriottarda o — ancor più meschinamente — campanilistica. Una
fortuna perché l'umorismo è sempre un invito al senso della misura,
alla mitezza d'animo e, in ultima analisi, all'umanità.
Che cosa avrebbe detto e
scritto Beppe Viola, che pure alla partita si divertiva come uno
qualunque, dopo Bruxelles? Forse che nemmeno lui riusciva più a
trovare nel pallone un motivo — anche piccolo — per sorridere. O
forse che proprio l'ignobile massacro di Heysel lo avrebbe aiutato,
in futuro, a parlare di sport in termini ancora più garbati e
smaliziati, proprio per non incrementare l'incivile e ottuso barnum
parolaio e bellicoso delle cronache pedatorie. Della sua opinione,
comunque, si sente la mancanza (ed è, questa, una virtù di ben
poche firme scomparse). E il dispiacere di non averlo più tra noi
aumenta dopo la lettura della raccolta di scritti (Beppe Viola,
inediti e dimenticati) che “Magazine”. l'agenzia
giornalistica da lui stesso fondata, ha voluto pubblicare perché di
lui ci si dimentichi meno in fretta. Tratti dal “Giorno”, da
“Linus”, da “Vogue” ma anche dai suoi cassetti, sono
articoli, appunti, provocazioni, lettere private, divertimenti, che
ci restituiscono Viola in tutta la sua giocosa serietà, nel suo
divertito amore per il prossimo. Capacità di dire cose importanti o
tristi ridendoci sopra, certo per pudore dei sentimenti e non per
cinismo. Ironia vera, quella che aggira il bersaglio grosso
sorprendendolo alle spalle e scoprendolo, magari, piccolo e ridicolo.
Spaccati di vita milanese raccontata con affettuosa complicità.
Slogan, battute, giochi di parole di quelli che nascevano
nell'ambiente di 'picchiatelli' (Jannacci, Cochi e Renato, quelli del
cabaret Derby) che Viola amava frequentare, non bastandogli — e per
fortuna — il mondo dello sport. E poi — sotto la crosta del
disincanto — sprazzi di amore vero per lo sport come vicenda di
uomini, con tutti i loro piccoli eroismi e le loro grandi debolezze:
perché Beppe Viola, non dimentichiamolo mai, era un giornalista
sportivo vero, uno che allo sport credeva sul serio.
E proprio perché ci
credeva, non ne faceva mai materia di grezza retorica, e anzi
aborriva i toni forti e le tirate esagerate. I suoi servizi alla
Domenica sportiva gli attirarono anche parecchi malumori
popolari: si sa che i tifosi possono anche picchiare la mamma e
bestemmiare in chiesa, ma guai a scherzare sui beneamati calciatori.
Lettere di insulti e telefonate anche peggio si sprecavano, ma Viola
ci rideva su, e continuava a distinguersi da tutti i suoi colleghi —
anche durante il più sacro dei riti, la telecronaca diretta — per
il sorridente distacco con il quale inseguiva i rimbalzi del pallone
in Eurovisione. Si divertiva, povero Viola, e il mestiere gli piaceva
davvero. Il libro che i suoi colleghi di “Magazine” hanno voluto
regalargli si aggiunge ai tre precedenti volumi (Cochi e Renato,
L'incomputer, Vite vere, compresa la mia, pubblicati in
vita). Avessimo dovuto mettergli un'epigrafe che potesse far capire
anche a chi non ha conosciuto Beppe Viola che cosa ha significato il
suo lavoro, avremmo scelto questa: - A Beppe Viola, che se ne andò
per non vedere mai più Il processo del lunedì». A lui
sarebbe piaciuta.
“l'Unità”, 29
ottobre 1985
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