Poeti, santi e navigatori
possono stare tranquilli. Nessuno ruberà loro la scena, tanto meno
pedalando: l’Italia non riesce proprio a diventare un paese per
ciclisti. Quindici anni buoni di “movimentismo a pedali” – tra
Critical Mass, Ciclofficine popolari e grandi manifestazioni –
hanno trovato solo a tratti, e prevalentemente a livello locale, una
risposta dalla politica.
Il Nuovo codice della
strada, che raccoglie molte delle istanze portate avanti da questo
mondo, è fermo da due anni in Senato con ottime probabilità di
restarci ancora a lungo, se non per sempre. E non se la passa meglio,
alla Camera, la Legge quadro sulla ciclabilità, che continua a
rimbalzare in cerca di coperture dal 2014.
Più piste per
tutti
Certo, è vero che tra il
2008 e il 2015 le ciclabili italiane sono cresciute del 50%. Ma a
parte che tutte insieme non arrivano ad un decimo della rete tedesca
(poco più di quattromila km contro oltre 50 mila), si tratta troppo
spesso di ghetti senza manutenzione e strozzati dal traffico a
motore.
«La chiave di tutto, il
primo obbiettivo, è togliere spazio alle automobili nelle città. Le
infrastrutture da sole non portano da nessuna parte», sostiene
Alberto Fiorillo, responsabile aree urbane di Legambiente, recitando
sostanzialmente l’inascoltato mantra di tutte le diverse componenti
del “movimento a pedali”.
È un fatto che le città
italiane restino in larghissima parte ostaggio delle automobili, con
tutto quello che ne consegue. La velocità media nei congestionati
centri urbani oscilla intorno ai 15 km orari, 7-8 nelle ore di punta:
meno della metà che in bicicletta ed esattamente la stessa raggiunta
a fine ’700, quando si andava al massimo in carrozza.
Nella speciale classifica
sulla “ciclabilità” stilata dalla Ecf (la lobby delle
associazioni di settore nell’Ue a 28, basata a Bruxelles) l’Italia
occupa la poco lusinghiera 17ma posizione. Fatta eccezione per alcune
realtà virtuose, che “danno del tu” a capitali della bicicletta
come Copenaghen e Amsterdam, i numeri di chi in Italia sceglie di
spostarsi pedalando restano davvero poca cosa: da 10 anni la media
nazionale – rispetto al totale degli spostamenti urbani – è
inchiodata al 3,6%.
L’occasione persa
«Sembra una ovvietà, ma
l’Italia resta un paese costruito sull’automobile, con una
sedimentazione di strutture culturali, sociali ed economiche
refrattarie al cambiamento. Voltare pagina è difficilissimo», dice
Paolo Bellino, giornalista, attivista della prima ora e tra i
fondatori di #salvaiciclisti – l’associazione che, per un momento
durato purtroppo non abbastanza a lungo – è riuscita a raccogliere
e rappresentare in modo trasversale quasi tutto il movimentismo a
pedali nazionale.
C’è un’immagine che
ritrae benissimo quel momento. Risale al 28 aprile 2012, un sabato
pomeriggio di cinque anni fa. Quando cinquantamila ciclisti invadono
pacificamente il centro di Roma, trasformando per oltre 4 ore via dei
Fori Imperiali nella scena di in un gigantesco happening “BikePride”.
È la più grande manifestazione del genere in Italia, non era mai
successo nulla del genere prima e non sarebbe più successo nulla del
genere dopo.
Per arrivarci erano
serviti quasi 12 anni di lavoro, dal basso. Dal debutto delle
ciclofficine popolari – Bulk a Milano e Macchia Rossa nella
Capitale, luoghi di scambio di competenze dove si impara
materialmente ad aggiustare o a costruire una bicicletta totalmente
al di fuori di qualsiasi logica commerciale.
Fino alle prime Critical
Mass, nate sull’onda di quelle americane: raduni di ciclisti
autoconvocati con la logica dei flashmob per raggiungere una
(appunto) massa critica capace, spostandosi, di togliere spazio alle
auto. In una manciata di anni in tutta Italia fioriscono centinaia di
iniziative e associazioni, in un clima di contaminazione continua tra
istanze ambientaliste, messaggi politici antagonisti e – anche –
la semplice codificazione di nuove mode urbane (l’hipster barbuto
in sella alla bici fixed è diventata un’icona quasi trita).
Confusione sotto il
cielo
Ma è proprio
l’eterogenea ricchezza di questo caleidoscopio di iniziative, per
assurdo, la sua debolezza. Ad un certo punto il dialogo tra le
componenti più “movimentiste” e i vecchi “senatori” come
Legambiente o la Fiab (Federazione Italiana Amici Bicicletta), si fa
difficile. Affiorano ruggini, stanchezze, che spesso diventano
frammentazioni partitiche da manuale Cencelli.
Ancora una volta Milano e
Roma sono le due realtà più emblematiche. I cambi della guardia a
Palazzo Marino non hanno intaccato la sostanziale continuità nella
politica di stop alle auto.
Oggi l’8% degli
spostamenti sotto la Madonnina avviene in bicicletta e la città ha
il record nazionale di bike sharing, sia per numero di
operatori che di mezzi. Anche se fa discutere la recentissima
comparsa di due nuovi operatori cinesi, con 12mila biciclette offerte
a tariffe bassissime e a parcheggio completamente libero, senza
stalli: una modalità che sta già creando grossi problemi, gli
stessi per i quali Amsterdam ha proibito questo tipo di noleggio.
Nella Capitale invece,
dove in percentuale rispetto a Milano si muove in bici la metà degli
abitanti e non esiste il bike sharing, ogni amministrazione
riparte quasi da zero. La vicenda del GRAB, il progetto della
ciclovia del grande raccordo anulare che sarà finanziato dallo
Stato, è una cartina da tornasole: un tempo bandiera di tutto il
movimento, oggi vede schierati su opposti fronti Legambiente, la
giunta capitolina e #salvaiciclisti. Con tutte le immaginabili
conseguenze.
Nonostante questo, gli
spostamenti in bicicletta a Roma sono passati dallo 0,4% del 2008 a
quasi il 4% nel 2012, per poi assetarsi sulla media nazionale del
3,6: Bolzano, Pesaro e Ferrara, a un passo dal 30%, sono
irraggiungibili, ma il dato romano – se si considera la dissestata
viabilità cittadina – ha del miracoloso.
Cresce il mercato
Intanto il mercato
cresce. Nel 2012 per la prima volta il numero di biciclette vendute
(1.750.000 pezzi) supera quello delle automobili. Oggi, il fatturato
complessivo del settore vale – stando all’ultimo report di
Legambiente – oltre 6,2 miliardi di euro. Dentro non ci sono solo
le bici (di cui il nostro Paese resta saldamente primo produttore
europeo davanti alla Germania con quasi 2,5 milioni di telai/anno) ma
anche tutta una serie di economie di scala legate alla salute,
all’ambiente e, soprattutto, al turismo. Anzi: al cicloturismo.
E sembra essere solo
questa la parola magica per Palazzo Chigi: il cicloturismo. L’unico
tema attorno al quale la politica nazionale, attraverso il ministero
delle Infrastrutture e dei Trasporti, ha veramente detto qualcosa di
concreto: un grande programma di 10 ciclovie, estese per qualche
migliaio di chilometri lungo tutta la penisola, che prevede 750
milioni di stanziamenti fino al 2024. Sono stati appena finanziati i
progetti di fattibilità delle prime quattro, shortlist in cui
rientra il GRAB: esattamente il progetto su cui a Roma è già volato
più di qualche straccio. Incrociamo le dita.
"Pagina 99", 3 novembre 2017
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