Qualche volta succede che
un artista, un poeta, un pensatore, riesca a fare una breccia nel
muro. Qualcuno dirà che quell’apertura è un pericoloso attentato
alla solidità dello status quo. Qualcun altro, incuriosito,
sbircerà, un po’ perplesso, al di là del muro, per scoprire
qualcosa di nuovo e forse affascinante. E qualcun altro ancora,
invece, sarà solo tanto felice di trovare quell’apertura verso le
nuove prospettive che stava aspettando da tempo.
Ecco, uno di questi
poeti, vive a San Francisco, ha compiuto 96 anni lo scorso marzo, e
si chiama Lawrence Ferlighetti. Sì, forse lo conosciamo un po’
tutti, fosse anche solo per il fatto che il suo nome è stato da
subito legato alla controcultura della Beat Generation, ad Allen
Ginsberg, al suo Urlo (Flowl). E anche al processo a
suo carico del 1956, proprio per aver pubblicato le ‘oscenità’
contenute negli scritti di Ginsberg.
Dopo un master in
letteratura inglese alla Columbia University e un dottorato alla
Sorbona, era arrivato a San Francisco dove aveva incontrato, per
caso, dice da sempre, Peter D. Martin, che al tempo pubblicava una
piccola rivista molto politicizzata. Insieme, nel 1953, avevano
aperto la microscopica libreria City Lights. All’inizio esisteva
solo nel primo piccolo locale, più o meno di pianta triangolare,
quello che oggi rappresenta solo l’ingresso del negozio al 261 di
Columbus Avenue. Solo 500 dollari a testa e, Lawrence e Peter, erano
riusciti a dare vita a un negozio che, ancora oggi, possiede una
forza simile a quella di luoghi magici, e che ha resistito a
Internet, Amazon, e grandi catene come Barnes and Nobeles. E oggi
gode ancora di ottima salute. Diventato pacifista e tornato a casa,
Ferlighetti aveva intuito come gli fosse stato insegnato a pensare
secondo le convenzioni ma, grazie probabilmente anche agli anni
passati in Europa e Francia, era molto cambiato e molto aperto al
nuovo. Quel nuovo che però, nell’America degli anni ’50, non era
visto di buon occhio. «Laurence e Peter avevano aperto il negozio
perché volevano un posto dove gli scrittori potessero incontrarsi»,
ci racconta Elaine Katzenberger, collaboratrice di Ferlinghetti da
più di trent’anni e direttore esecutivo della libreria, che ci
riceve in una piccola stanza proprio sopra il negozio. «A quel tempo
poi», continua Elaine, «i libri erano quasi tutti in edizioni
rilegate, ogni tipo di pubblicazione era sempre e solo in ‘hard
copy’ ma, la comparsa del paperback, dei tascabili, era stata
davvero una rivoluzione. Soprattutto perché costavano molto meno,
all’epoca 50 centesimi». Non era semplice avere letteratura di
qualità in quegli anni, perché le edizioni in paperback erano
generalmente vendute nelle edicole mentre le librerie avevano canoni
molto rigidi. Qui era cominciata allora la vita rivoluzionaria del
poeta, del pittore, dell’attivista Lawrence, insieme a quella di
una microlibreria.
«Nell’America del
dopoguerra, i soldati di rientro dal fronte avevano il diritto di
andare al College, quindi la cultura era accessibile a una parte più
grande della popolazione. Ma, anche a San Francisco, le librerie
erano solo a downtown, ed erano aperte solo durante le ore lavorative
dei business man. Se volevi andare in libreria in altre ore, era
tutto chiuso». Erano tutti piccoli, invisibili, ma importantissimi
segnali di un disagio verso quello che continuava a rimanere fermo,
forse per abitudine. «Non esisteva nessuna libreria che potesse
rimanere aperta al di fuori dei soliti orari e, Lawrence e gli altri
scrittori e poeti, non si sentivano mai benvenuti in quelle librerie.
Erano posti in cui non eri incoraggiato a sederti e a leggere.
Nonostante tutto», racconta Elaine con un sorriso luminoso, «avevano
avuto la ‘semplice idea’ di creare un ambiente per la grande
comunità di scrittori e artisti nel periodo di grande rinascita di
San Francisco». Non c’era un posto dove i poeti si potessero
sentire a proprio agio? No? Perfetto, e allora quel posto l’avevano
pensato Lawrence e Peter. «Qui tutti avrebbero potuto incontrarsi,
raccontarsi idee e progetti, con libri e riviste sempre disponibili».
Quel triangolino di entrata, pieno di libri in paperback e quindi
economici, aveva cominciato a diventare una vera idea per la
democratizzazione della cultura. I libri erano diventati qualcosa che
sempre più gente poteva avere. «La missione di City Lights era, ed
è ancora oggi, questa idea utopica di trasformare la società,
creando un posto che avrebbe reso disponibili idee a tutti, in un
ambiente amichevole, e dove ti saresti sentito sempre il benvenuto».
Questi libri parlavano alla gente comune di quello che succedeva
intorno a loro, e spesso allora la gente cominciava a vedere sotto
una nuova luce cose da sempre accettate. Due anni dopo l’apertura
della libreria, esattamente sessantanni fa, nel 1955, veniva aperta
City Lights casa editrice. Sempre piccola, sempre coraggiosa e che, a
quel punto, si sarebbe occupata di questioni politiche e sociali.
«L’impeto iniziale della casa editrice è stato, come quello del
negozio, il proposito che libri e idee sarebbero stati molto più
accessibili a tutti, anche perché finalmente in edizione economica».
Ed è rimasto ancora, più o meno, tutto così. C’è stato poi il
periodo in cui tutti credevano che internet avrebbe sostituito le
librerie. «Ma alla fine ho sempre creduto che fosse molta propaganda
da parte di chi possedeva questa tecnologia, per convincere la gente
che il libro era vecchio e questo invece era il nuovo che arrivava e
che avrebbe vinto. Certo, quando c’è una sola compagnia che
controlla tutto il mercato di e-books, non è una situazione troppo
sana, per le case editrici, per i negozi, e anche per i lettori. Sì,
c’è stato un momento in cui tutti ci siamo sentiti minacciati...».
Ma pare proprio che il
potere della tecnologia non abbia vinto ed entrare in una libreria,
resta ancora un’esperienza unica. «Entrare a City Lights è
davvero entrare in un negozio per cercare, guardare, anche trovare
qualcosa di nuovo che non stavamo cercando, conoscere qualcuno che
può suggerirci qualcosa di interessante da leggere. Questa è la
vera esperienza di essere un lettore. È molto diverso se sai
esattamente quello che vuoi, vai Online, dicchi e compri in pochi
minuti. Va bene anche quello, ma è molto diverso». E, con una
risata aperta e divertita, aggiunge «Insomma, non vendiamo aspirine
qui. Queste sono idee, è cultura, e qui ci sono cose da scoprire».
Molte librerie, anche quelle di grandi catene, hanno chiuso, molte
altre stanno chiudendo. «E forse qui è anche per gli affitti.
Stanno cercando di cacciar fuori tutti a San Francisco, i proprietari
vogliono chiudere le librerie per poi riaffittare e chiedere quattro
volte tanto. La Bay Area ha sempre avuto una grande cultura di
librerie indipendenti. Barnes and Nobles e Borders non hanno mai
attecchito troppo e oggi, per fortuna, c’è davvero una specie di
‘rinascimento’ delle librerie indipendenti, un po’ dappertutto.
Alcune, piccole, stanno nascendo in tutto il paese, dopo il successo
delle catene e poi di Amazon, che ha creato molti problemi a tanti
piccoli imprenditori. Ma ora c’è una buona ripresa».
I libri sugli scaffali
nelle sale di City Lights non sono sempre di politica, ma sicuramente
di quello che la gente ha bisogno di sentire per essere stimolata a
farsi domande. «Credo la gente qui voglia un’esperienza diversa.
Forse in scala ridotta, ma sta succedendo e qui si pubblica cultura
progressista, con l’idea di consegnare al lettore gli strumenti
necessari per capire il mondo. Pubblichiamo molto su studi culturali,
poesia, su tutto quello che ha un messaggio sociale e politico, sul
pensiero critico, su idee a cui non siamo abituati. Questo è il vero
intento. Non è solo un’idea politica, ma anche un’idea estetica.
Lawrence è soprattutto un poeta. La missione resta sempre la stessa:
stimolare il pensiero e la critica. Quindi sì, forse stiamo facendo
un lavoro rivoluzionario da sempre».
E oggi, arrivati nel XXI
secolo, dove sta la controcultura, senza hippies e senza Beat
Generation? «È molto simile agli anni ’50 e ’60, quando c’era
una cultura molto repressiva e conformista. Abbiamo visto passare
negli anni hippies, punk, tutti i tipi di persone che vivono ai
margini. Ma ancora viviamo negli Stati Uniti, con una cultura
capitalistica spropositata. Se hai un atteggiamento bohémien, oggi è
quasi impossibile spostarsi a San Francisco. Negli Stati Uniti, il
tipo di debiti che ogni ragazzo deve affrontare per avere un livello
di istruzione universitaria, è davvero pesante. Entri così in una
specie di macina che non si ferma più perché, appena sei laureato,
devi cercare subito un lavoro per ripagare i debiti. Quindi si creano
solo lavoratori che non possono apprezzare la propria vita, e la
controcultura è ancora più sotto attacco. Non direttamente, ma
sicuramente economicamente. Oggi, se non vuoi essere qualcuno che
vive solo nel mondo del business, ma cerchi invece una vita diversa,
no, adesso non puoi più permettertelo. Perciò City Lights diventa
ancora più importante, anche solo per il fatto che ti fa vedere che
ci sono altri modi di vivere ed essere. Spesso la gente non crede di
avere più una voce che conta, perché questa è una società molto
militarizzata, e la destra americana continua ad essere molto
conservatrice. È quindi ancora più vero che, posti come questo,
sono importanti come alternativa».
La gente arriva a City
Lights da tutte le parti del mondo. E perché vogliono venire qui?
«Per quello che siamo, per quello per cui abbiamo sempre lottato,
forse per molti motivi diversi, ma in generale perché City Lights è
sempre stata vista come un posto di integrità morale, che ha un
atteggiamento politico progressista, che ha sempre mantenuto una
posizione contro i poteri forti, perché è un’ottima libreria, ed
è sempre stato un luogo per incontrare scrittori, poeti, gente con
idee. Quando Vàclav Havel era uscito di prigione ed era diventato
presidente della repubblica Ceca, una delle prime cose che ha fatto è
stata venire qui. City Lights ha un significato per tante persone.
Per le cose che ha fatto Lawrence, e per quello che abbiamo sempre
pubblicato e che ha sempre avuto un grande valore. È una libreria,
un posto che non si è venduto al capitalismo. Insomma, siamo un
posto che ha una vita, una missione, e abbiamo moltissimi contatti
con artisti, poeti, scrittori, movimenti... Credo che sia tutto
questo, che porta la gente fin qui. Molti sentono questo posto come
la propria casa, e tanti sono felici anche solo che esista. C’è
una forte connessione con questo posto, è tutto molto speciale, e
qualcuno qui non è neanche mai arrivato. Un ragazzo tedesco della
Germania dell’est, dopo la caduta del muro, era arrivato fin qui e
ci aveva raccontato che, anche dalla Germania dell’est, pensava a
City Lights come qualcosa che gli dava coraggio. O forse è solo un
posto magico, forse è ‘serendipity’ pura, forse è solo il fatto
che ci sia Ferlinghetti, che è sicuramente una persona che... chissà
come, è sempre stato nel posto giusto al momento giusto, con un gran
cuore, e che è sempre stato in grado di fare accadere grandi cose
intorno a sé. Chi lo sa? qualcuno lo chiama karma, e
sicuramente quello di Lawrence è grande. È sempre stato pronto ad
avventure, a prendere rischi. È un poeta, ha un atteggiamento da
poeta, e ha una mente da poeta».
Il poeta oggi, a
novantasei anni, dopo essere stato perseguitato in passato da una
specie di inquisizione conformista e conservatrice, è uscito con un
nuovo libro: Writing across the landscape; Travet Joumals
1960-2010 (Scritti attraverso il paesaggio; Diari di Viaggio
1960-2010), pubblicato da Liveright. Ci accompagna nei suoi tanti
viaggi, dal Messico al Marocco, lungo la transiberiana, e lungo
ricordi in cui ci presenta incontri con i grandi della letteratura,
come Pablo Neruda, Ezra Pound, e il suo grande amico George Whitman,
nella sua famosa libreria di Parigi Shakespeare and Company. Oggi
Ferlinghetti si dispiace di vedere tante persone ipnotizzate dagli
smartphone e, in un’intervista a Publishers Weekly, ha dichiarato
«è sorprendente quanto poco la gente osservi quello che ha
intorno». E anche preoccupato del destino di grandi scrittori, come
Henry Miller o D.H. Lawrence. «Chi li legge oggi? Sono figure
importanti, e nessuno se ne cura più». Il suo temperamento non è
cambiato e, rispetto all’età che avanza, ha detto semplicemente:
«Sto diventando più incisivo. So che con l’età si diventa più
conservatori. Sembra. Ma io sono diventato più radicale».
“Alias il manifesto”
16 gennaio 2016
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