Gigi Burruano in "Palermo oh cara" (1979) |
In Swinging
Palermo di Piero Violante (Sellerio, 2015) leggo: “Ricordo
la mantiglia di Kadigia Bove – l'attrice di Luigi Nono, moglie a
Palermo di Achille Occhetto – su un palchetto in cui Salvo Licata,
giornalista de “L'Ora” e drammaturgo, metteva a punto in Scherzo
per tromba e guitti la sua idea
di teatro metropolitano, una sorta di lumpen-theater tra
Edoardo e Brecht e che affonda nella tradizione popolare urbana:
Giuseppe Schiera, Petru Fudduni. Una poetica rabbiosa e dialettica
che ha al centro la città delle borgate ora scomparsa, una città
che possiede una lingua, la “parlata palermitana”. Per Licata
quella parlata, seppure specchio della corruzione sociale e morale
dei suoi lumpen, era anche, se non omologata, una possibilità di
salvezza «morale»”.
Anch'io
ricordo.
Andai
a vedere tra il finire del '69 e gli inizi del '70 quell'esperimento
teatrale alla sala Aziz. Non rammento la data precisa ma era il tempo
dell'amore. Con Carmela, che sposai alla fine del '70 e da cui mi
separai 10 anni più tardi (dopo tante gioie, tanti dolori e tre
figli), andavamo a teatro di rado. Quella volta fui io a trascinarla,
perché volevo vedere sulla scena Gigi Burruano, che avevo conosciuto
una sera allo Shanghai in circostanze avventurose, durante l'autunno
caldo ma prima che arrivasse la bomba di piazza Fontana.
Lo
Shanghai era al tempo la trattoria più caratteristica della
Vuccirìa. Situata al primo piano, in un angolo della piazzetta, di
fronte al bancone dei polpi bolliti, consentiva nella stagione adatta
di mangiare in terrazza e di controllare da lì i movimenti che si
svolgevano nel sottostante mercato. Altrimenti c'era un gran camerone
un po' malandato. E lì che con Lillo Guarneri trovammo posto, non
ricordo se per ragioni climatiche o per mancanza di spazio nella
terrazza. Avevamo qualche lira in più del solito e avevamo scelto di
cenare lì, piuttosto che da don Ciccio al Cassero o dalla
'Ngrasciata del Foro Italico, in omaggio al compagno Mao, alla
Rivoluzione Culturale e alla Comune di Shanghai. Proprio per questo,
nell'attesa dello sciamannato cameriere, in un foglio protocollo
aperto, con i pennarelli rosso e nero che portava spesso con sé,
Guarneri detto il Filippino, tempra d'artista, usando le sue risorse
di grafico e cartellonista, disegnò una scritta a quei tempi di
moda, “VIVA IL PENSIERO DI MAO TSE TUNG”. La affissi io stesso al
muro, con il nastro adesivo.
Su un
tavolo contiguo c'erano, già intente a mangiare, sei persone
abbastanza giovani, cinque maschi e una femmina; a capotavola un tipo
con la barba lunga di qualche giorno e un maglione nero dolce vita,
al centro del quale spiccava un gran medaglione. Ebbi l'impressione
che ci guardasse male. Anche gli altri osservarono la scritta e
sembravano nutrire verso noi intenzioni non benevole. Temerario
com'ero a quell'epoca, mi rivolsi al capotavola dicendo “C'è
cosa?”. Lui chiese: “Che vuol dire quella scritta?”. Lillo
disse: “Qui, allo Shanghai, ci sta bene!”.
Così
sdrammatizzò il confronto e favorì il dissiparsi degli equivoci.
Non erano fascisti, ma compagni; avevano creduto che fossimo noi i
neri, che nella scritta si nascondesse una qualche provocazione.
Quello col maglione scuro era Nino Drago, un attore che dopo
l'incendio del Teatro Biondo aveva costituito una sua compagnia, “I
Draghi”, e aperto una sorta di ridotto in uno scantinato, che aveva
chiamato “Il Bunker”.
Facemmo
comunismo o, quanto meno, comunella e - dopo aver mangiato e ben
bevuto – andammo al Bunker, che non era lontano, un posto umido e
scuro tra la via Libertà e il mare. A quanto ci disse Drago non vi
si faceva solo teatro: certe sere vi si suonava, altre si ballava.
Uno dei commensali, non tutti attori della compagnia, era Gigi
Burruano, e quella sera era in vena: per l'occasionale “gruppetto”
trasformatosi in pubblico si esibì per un'ora o due in cose
stravaganti, non del suo repertorio abituale. Quello che meglio
rammento è un pezzo di Renzino Barbera, Don Totò alla
scuola serabile, uno scialo.
Ricordo la faccia e la voce di Burruano, con un nonsoche di tragico
che l'arrochiva già in quella gioventù, perfino quando si cimentava
nel comico ultraleggero.
Non
ne nacque un'amicizia, ma una cordialità. Ci salutavamo. Nel giro di
alcuni anni (l'ultimo incontro risale probabilmente al '73) capitò
di prendere il caffè insieme, ma quasi nulla sapendo l'uno
dell'altro. Ma a vederlo ad Aziz nell'invenzione di Salvo Licata, il
cui titolo esatto era Scherzo per tromba, fisarmonica e
guitti, ci volli andare.
Ricordo
che ne uscimmo, con Carmela, allegri e soddisfatti, e a questo
effetto contribuiva di sicuro la gioia dello stare insieme; ma lo
spettacolo era in ogni caso gradevole ed interessante. La cosa che
più mi rimase in mente è la canzone napoletana che Burruano più
volte cantava, come una sorta di tormentone, durante l'azione
scenica. Il ritornello che tuttora mi accade di canticchiare fa: “Vi'
chi triate / sta vita nostra / a santanotte / a chi m'a 'ntussecate”
(“Guarda che teatro/ è questa vita nostra! / La santa notte / a
chi mi ha avvelenato”).
Solo
di recente ho appreso, con una rapida ricerca in rete, che 'A
santanotte (o 'A santa
notte) è una canzone dei
primissimi anni Venti, di Scala e Bongiovanni, che ha avuto tra gli
interpreti più famosi Giacomo Rondinella (
https://www.youtube.com/watch?v=5cJbNoenkF0
) e su cui Elvira Notari, audace produttrice, autrice e regista
napoletana realizzò nel 1922 una pellicola per la DORA FILM (
https://www.youtube.com/watch?v=9vo9mtLyWdU
). È canzone di “mezza malavita”, di inganno, gelosia e
tradimento più che di guapparia, una di quelle che sono alla base
delle sceneggiate. A Napoli erano ascoltate, amate, ricantate dal
popolino dei “bassi” e dei quartieri degradati, in cui come pesci
nell'acqua nuotavano prostitute, ruffiane, ladruncoli,
contrabbandieri, truffatori e anche peggio, che spesso si sentivano,
non del tutto a torto, più vittime che carnefici.
A
quei tempi abitavo in vicolo del teatro di Santa Cecilia, in un buco
dove pagavo un affitto bassissimo (5 mila mi pare) e non avevo
coabitazioni sgradite, se non quella di un topo, forse proveniente
dal tombino che stava lì davanti, nella stradina, e amava la carta
dei libri (mi rese inservibili le Elleniche di
Senofonte, l'Eutifrone di
Platone e l'orazione Per Megalopoli di
Demostene). Diciotto metri quadrati, inclusa la “toilette” con
solo cesso, specchio e lavandino (per la doccia andavo da amici o al
diurno).
Avevo
commissionato alcune scritte al Filippino, citazioni di Mao
soprattutto, e di esse avevo decorato le pareti aggiungendo ritratti,
oltre che del Grande Timoniere, di Marx e Lenin (non Stalin, che nel
mio gruppuscolo consideravamo capostipite del revisionismo) e una
foto di studenti parigini in lotta. Proprio sulla porticina del
gabinetto di decenza attaccai, senza pensarci su, la scritta “CONTARE
SULLE PROPRIE FORZE”. Già allora soffrivo un po' di stipsi e la
frase lì collocata mi fece sorridere: non la spostai, chissà che
l'invincibile pensiero di Mao Tse Tung, avendo compiuto in Cina tanti
miracoli, non rendesse più spedita, meno faticosa e dolorosa la mia
quotidiana catarsi.
Mi
abitava accanto una famigliola, all'inizio senza capo, una mamma e
due figlie che parevano coetanee, sui quindici anni, tutte e tre
piuttosto sgraziate. Dalla mattina alla sera mettevano dischi con
canzoni napoletane, melodiche, interpretate da voci a me sconosciute,
che immagino imitazioni locali del bel canto partenopeo, dei Mario
Abbate, dei Rondinella, delle Maria Paris, del giovane Mario Merola
soprattutto. Non ascoltavo con attenzione i testi, ma il genere
preferito, un po' aggiornato nella ambientazione, nella ritmica,
nella strumentazione, era quello stesso “mezza malavita” di 'A
santa notte.
Dopo
qualche tempo arrivò in quella casa il capofamiglia che veniva
dall'Ucciardone, un omino sui quaranta fino fino e con baffetti,
all'apparenza innocuo e fin dal mattino avvinazzato. Doveva essere in
semilibertà, perché venivano spesso, intorno a mezzanotte, i
carabinieri a controllarne la presenza. Una mattina lo trovai a casa
mia a chiacchierare con Carmela rimasta lì a preparare il pranzo,
mentre io ero andato a comprare non so che cosa al vicino
supermercato Standa, in via Roma. Pensai, senza troppo preoccuparmi,
che fosse lì per farle la corte. Invece cercava me. Mi aveva preso
per un giornalista o per uno scrittore e voleva raccontarmi le sue
sventure, spiegarmi chi l'aveva rovinato, affinché ne scrivessi. Non
seppi dire di no, ma riuscii con la politica della dilazione a non
onorare la promessa.
Quando
da lì, alla fine dell'estate del '70, me ne andai a vivere con
Carmela in un'altra parte della città, avevo fatto una scorpacciata
di canzoni napoletane da non poterne più.
Insomma,
come i “lumpen” dei teatri di Salvo Licata anche quelli dei
vicoli della Palermo reale alla “parlata palermitana”
accompagnavano una “cantata napoletana” e questa segnalava una
sorta di primato della musica popolare partenopea. Almeno in questo
Napoli restò capitale per tutto il Sud, isole comprese e le sue
canzoni di “mezza malavita” funzionarono per tutto il secolo
scorso come colonna sonora del vivere sottoproletario nelle città
e nei paesi. In quella musica era possibile riconoscere come un segno
distintivo, un barlume di appartenenza, di coscienza.
In
tutta quella produzione, duratura, ampia e mediamente scadente, che
celebrava il proprio trionfo nelle feste e nei festini popolani, come
nei mangiadischi che la diffondevano a tutto volume per i vicoli, è
perfino possibile rintracciare qualche pietra preziosa: la
Bammenella un
po' francesizzante di Raffaele
Viviani, per esempio, e ancor più lo Scapricciatiello
dei quasi sconosciuti Pacifico Albano e Ferdinando Vento, che si
giovò dell'interpretazione scanzonata di Renato Carosone.
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