31.7.18

Il West, gli anni 30, il Sessantotto. Un'intervista a Sergio Leone per “C'era una volta in America” (Michele Anselmi)

Robert De Niro in "C'era una volta in America"

ROMA
New York, Lower East Side. 1923. Esterno giorno. Noodles sguscia fuori dalla porta del grande locale di «delikatessen» dove campeggia pomposamente la scritta in inglese «i più famosi sandwiches della città». Ha appena baciato, la sua piccola Deborah. Incontra l'amico Max, si guardano e ridono insieme di quella prima avventura sentimentale. Ma all'improvviso cinque teppistelli li circondano, li sfottono: e comincia il pestaggio. «Scusa il guanto», ghigna il più cattivo, sfoderando il pugno di ferro. «Stop! Non ci siamo. Questi non sono cazzotti, sono carezze. Troppo finti, troppo distanti. E quel coltello, poi! Deve scattare fuori dalla tasca più rapidamente. Rifare!». Siamo sul set di C'era una volta in America, l'ormai leggendario kolossal che Sergio Leone —
Sergio Leone
dopo dieci anni di progetti, traversie giudiziarie e nscritture — sta girando attualmente (compiute le riprese in America e in Canada) tra gli studi di Cinecittà e questo terreno all'estrema periferìa di Roma, oltre Pietralata, sul quale è stato ricostruito un intero quartiere ebraico. La finzione cinematografica ti aggredisce magicamente: i tombini fumanti, un via vai di uomini con i larghi cappelli e le treccine ai lati delle orecchie, i muri rossicci, le insegne brunite («Shapiro's Use Clothing», «Hebrew Book Store Rabinowitz»), i dolci tipici, le gustose «Charlotte russe», bene in vista sui banchi del locale che nasconde una distilleria clandestina.
Un cappotto beige pesante, la sciarpa ben stretta attorno al collo, guanti di lana e stivali massicci, Sergio Leone dirige con la consueta severità la scena della rissa. No, non ci sono Robert De Niro, né James Woods, perché si sta «girando» l'adolescenza di questi due gangster ebrei attorno ai quali ruota la storia complessa (si parte dagli Anni Venti per finire al 1968) di C'era una volta in America. Film, dicevamo, già leggendario: per i soldi che vi sono investiti (oltre 28 milioni di dollari), per l'impenetrabile «silenzio stampa» che lo protegge, per le note idiosincrasie (ma Leone le chiama timidezze) di Robert De Niro che ha suggerito che tutti gli attori parlassero con accento del Bronx, per la curiosità che avvolge il ritorno alla regia del regista di Per un pugno di dollari. Niente interviste, ci avevano detto, e invece con un po' di fortuna siamo riusciti a chiacchierare con Sergio Leone. In due puntate; e la seconda è stata un'autentica sorpresa perché, senza nemmeno sperarci, abbiamo rivisto, già sviluppata e pronta per il montaggio, la scena alla quale avevamo assistito qualche giorno prima.

— Perché un titolo così epico? 
«Epico? Il film si intitola C'era una volta in America non: L'America. E molto importante, perché la vicenda narrata non è un'indagine, un saggio, sia pure romanzato, un'esplorazione politica o sociale. Non sono americano, non sono ebreo, non sono più blandamente gangster di tanti altri miei colleghi registi. E allora, la chiave del film sta appunto nel titolo così come è formulato: una favola. Certamente per adulti, ma pur sempre favola».

— E perché tanto mistero attorno alla vicenda? 
«Perché la magia del cinema non ha bisogno di parole. Non è un caso che il film inizi in una fumeria d'oppio dove su un telo bianco si svolge un gioco di ombre cinesi. Ecco, di fronte alla finzione del cinema noi dobbiamo essere come coloro che assistono ad uno spettacolo di ombre cinesi. Potrei dire però che i temi scelti sono quelli classici di un certo mondo hollywoodiano».

— E cioè? 
«L'alleanza degli emarginati, le scelte dettate dalla disperazione, le grandi amicizie virili. E il negativo di tutto questo: il tradimento, la violenza, la corruzione. Ma il "viaggio" di Noodles non è soltanto attraverso le visioni dell'oppio. E anche l'altro percorso, quello reale, che compie dal lontano Iowa fino a New York... Dove si aggirerà come in un labirinto. È un viaggio verso la conoscenza. È il rifiuto ad ammettere che tutto, pro-prio tutto, il Bene o il Male, sia un inganno».

— Leone, che cosa vuol dire aspettare dieci anni per fare un film? 
«Abbassare la media. Io, purtroppo, do pochissima importanza al tempo. Dieci giorni o dieci anni, la spinta è sempre una: che la cosa mi interessi e mi appassioni. E fino ad ora questo è accaduto».

— Lei disse un giorno che non esiste una distinzione tra film politico e non politico, ma tra cinema e non cinema. È sempre di quest'av viso? 
«Più che mai! Esopo ha fatto miglior politica di qualsiasi capo di partito. Infatti resiste di più».

— Le è piaciuto Il Padrino? E che cosa ha di diverso il suo nuovo film? 
«Avendo rifiutato di dirigerlo non sono un buon giudice. In ogni caso, il secondo mi è piaciuto più del primo. La differenza, fondamentale, è che Il Padrino attinge dalla realtà per sconfinare nello spettacolo. Io, invece, spero, attraverso il mito dello spettacolo, di ricordare una certa realtà».

— Perché due gangster per fare un omaggio all'America? E perché ebrei? 
«Perché nelle favole c'è il huono e il cattivo. Tra i due mi interessa sempre il secondo, specie quando scopri che il primo, molte volte, è solo un aggettivo. E l'America è il paese degli aggettivi. Ebrei, perché di gangster italiani se n'è parlato troppo, e qualche volta a sproposito, senza mai dire che spesso abbiamo esportato contadini e reimportato gangster».

— Oggi, al cinema, la gente vuole l'azione pura, il ritmo mozzafiato, molti spari e poche parole, insomma, un po' ciò che faceva lei ai tempi di Per un pugno di dollari. Adesso lei dice, invece, che il racconto può essere disteso, monumentale e coinvolgere lo stesso. Ha una ricetta? 
«Le ricette le lascio ai cuochi. È solo una questione di intuizione. Devi raccontare quello che preferisci, nel modo più autentico possibile e con il tempo che ti occorre per farlo. Se il pubblico, che è una "bestia intuitiva" scopre la tua sincerità, ottanta volte su cento ti decreta il successo».

— Passiamo al western. Perché non se ne fanno più nemmeno in America? 
«Perché se ne sono fatti molti, troppi e in genere brutti. Pochi di valore. Tutto qui».

— Le citazioni. Bertolucci dice di aver disseminato la sceneggiatura di C'era una volta il West di mille riferimenti ai vecchi film western e ama raccontare che lei, pur non cogliendoli tutti, riusciva a citare dal nulla: il che, per lui, era il massimo della genialità... 
«Bertolucci, non avendo mai partecipato alla sceneggiatura, ricorda male. Tutt'al più, nel soggetto iniziale, steso con me e con Dario Argento, può benissimo aver disseminato il "nulla" di cui parla. A me, nel realizzarlo, è toccato il resto: metterci il massimo della genialità».

— Senta Leone, lei girò Per un pugno di dollari con 120 milioni; oggi fa C'era una volta in America con decine di miliardi. È cambiato qualcosa nel suo modo di lavorare? 
«È sempre lo stesso. Non mi sono mai preoccupato della poca spesa, non vedo perché dovrei preoccuparmi della molta. E un compito che spetta al produttore. Faccia i suoi conti, se tornano significa che il film si può fare».

— I film western di Leone, qui in Italia, non hanno mai avuto buona stampa. In America, invece, tanto per fare un esempio, Il buono, il brutto, il cattivo viene studiato all'Università del cinema e smontato inquadratura per inquadratura. Che cosa risponde lei? 
«Che in Italia si "smonta" solo la gioia di fare buon cinema».

— Al pubblico ha niente da rimproverare? 
«Niente! Io proprio niente».

— Cinque pregi e cinque difetti dì Sergio Leone (il più possibile sinceramente). 
«Mi offende la nota. Perché credo che la sincerità sia la mia prima qualità. Ma l'includerei anche nei difetti. Vediamo comunque. Voler molto bene alla gente che mi è cara. Il non saper dire "bravo" alla gente che lo merita, per timidezza, ma soprattutto per la preoccupazione che mi si risponda "lo so da me". Non essere invidioso. Preoccuparmi molte volte delle inezie e trascurare le cose importanti. Al di fuori del lavoro essere tremendamente pigro. Essere affascinato dall'idiozia. Perdere tempo nella speranza di scoprire il lampo di genialità. Avere un profondo rispetto per l'amicizia, quella rara. Amare molto il cinema (ma non so se è un pregio o un difetto). Avere pochi interessi al di fuori del lavoro. E per ultimo, farmi sfuggire dalla mente completamente i buoni (se ce ne sono) e farmi affiorare una lunga lista di cattivi, su cui è meglio stendere un velo».

— La violenza. Sam Peckinpah dice che nei suoi western non c'è sadismo, c'è solo la voglia di far vedere alla gente come è fatto il buco d'entrata nella carne di un proiettile. Per lei invece che cos'è la violenza cinematografica?. 
«Violenti sono i sentimenti che racconto. È profondamente diverso».

— Una curiosità: è vero che i tre killer dei titoli di testa di C'era una volta il West dovevano essere, nelle sue intenzioni, Clint Eastwood, Lee Van Cleef ed Eli Wallach? 
«Sì, ma dovevano morire sotto il fuoco di Charles Bronson, quasi a suggerire la conclusione di un "periodo". Lee ed Eli, burloni come sono, ci sarebbero pure stati. Ma Eastwood era già troppo divo per crepare. E poi così, a pochi minuti dall'inizio del film. Infatti disse di no».

— Rifarebbe un western negli anni di Guerre stellari? «Certamente. In questi ultimi tempi mi sono accorto di aspettarlo anch'io».

E rimettendosi il cappottone beige, s'allontana tra i fumi di quel Bronx a quattro passi da Pietralata brontolando contro qualcuno.

“l'Unità”, 23 gennaio 1983

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