José Garnelo y Alda, Aspasia e Pericle |
Dice Demostene che l’uomo
ateniese poteva avere tre donne: la moglie (damar o gunè)
per avere figli legittimi; la concubina (pallakè) «per la
cura del corpo», vale a dire per avere rapporti sessuali stabili; e,
infine, l’etéra, hedonès heneka, ovverosia per il piacere.
Questa «tripartizione» delle funzioni femminili nel rapporto con
l’uomo (di per sé estremamente sintomatica della strumentalità
del rapporto uomo-donna), pone peraltro alcuni problemi, determinati
dalla necessità di delimitare i confini del ruolo di concubina.
Nella consuetudine quotidiana, infatti, il rapporto con la pallakè
(che, a volte, era accolta addirittura nella casa coniugale) era
sostanzialmente identico a quello con la moglie, ed era sottoposto a
una regolamentazione giuridica che da un canto imponeva alla
concubina l’obbligo della fedeltà, esattamente come se fosse una
moglie (da cui derivava il diritto di uccidere «legittimamente» il
suo amante, previsto, come sappiamo, dalla legge di Draconte), e
dall’altro riconosceva ai figli nati dalla concubina alcuni diritti
successori, sia pur subordinati a quelli dei figli legittimi.
Contrariamente a quanto
spesso si è affermato, peraltro, questo non significa che il diritto
ateniese autorizzasse la bigamia, come taluno sostiene, citando una
frase di Diogene Laerzio. Scrive Diogene, in effetti, che gli
ateniesi «a causa della scarsità di uomini, desideravano aumentare
la popolazione e approvarono una legge secondo la quale un uomo
poteva sposare una donna ateniese e avere figli da un’altra». E
anche recentemente la frase è stata considerata una prova del fatto
che il diritto ateniese, sia pur temporaneamente e in circostanze
eccezionali, avrebbe ammesso la bigamia. Ma, a ben vedere, la frase
significa una cosa ben diversa. Più precisamente, significa che gli
ateniesi riconobbero ai figli nati fuori del matrimonio un certo
status. In altre parole, riconobbero e regolarono giuridicamente
l’esistenza delle concubine, accanto alle mogli, ma in posizione
diversa da queste, stabilendo una precisa gerarchia fra i due diversi
rapporti stabili che l’uomo poteva avere.
Ma la gamma dei possibili
rapporti che un uomo ateniese poteva avere con le donne non si
esaurisce qui. Oltre alla moglie e alla concubina, infatti, egli
poteva avere anche una terza donna che, pur non essendo legata a lui
da un rapporto stabile, non era neppure, tuttavia, un'accompagnatrice
occasionale: e questa terza donna era l’etéra.
Più educata di una donna
destinata al matrimonio, l’etéra, destinata, invece,
«professionalmente» ad accompagnare gli uomini nei luoghi nei quali
moglie e concubina non potevano seguirli, era una specie di rimedio,
organizzato da una società di uomini che, avendo segregato le donne,
riteneva tuttavia che la compagnia di alcune di esse potesse
rallegrare le attività sociali, gli incontri fra amici, le
discussioni che le mogli, oltre a non dovere, non erano comunque in
grado di sostenere.
Ed ecco quindi l’etera,
la terza donna, alla quale l’uomo remunerava un rapporto (anche
sessuale) che, pur non essendo esclusivo, non era neppure meramente
occasionale. Una «compagna» dunque (perché questo è il
significato di «etéra») alla quale l’uomo chiedeva (e pagava)
una relazione in qualche misura gratificante anche sotto il profilo
intellettuale; e, quindi, del tutto diversa sia dal rapporto con la
moglie sia da quello con una prostituta.
Da L'ambiguo malanno.
Condizione e immagine della donna nella antichità greca e romana,
Editori riuniti, 1981
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