Il ritorno di Gramsci:
così titolava di recente un grande quotidiano, dedicando al
comunista sardo una intera pagina di recensioni. Il 2012 si segnala
infatti per l'ingente mole di saggi, libri, articoli e polemiche sul
pensatore italiano moderno più studiato nel mondo. Questa nuova
stagione di studi- che data in realtà da un decennio e più - è
originata da diversi fattori. In primo luogo vi è l'effetto di
ritorno della grande notorietà di Gramsci all'estero, a partire
dagli anni Ottanta del Novecento, che ha impedito che sull'autore dei
Quaderni in Italia scendesse il silenzio, come avrebbero
voluto in molti, per ragioni soprattutto politiche, ivi compresa la
furia autolesionista di certa sinistra ansiosa di lasciarsi alle
spalle ogni aspetto della tradizione comunista.
In secondo luogo, una
nuova generazione di studiosi è venuta negli ultimi anni a maturità,
grazie non tanto a un'università spesso sorda verso un autore fuori
dai canoni dell'accademia, quanto all'attività caparbia di
associazioni,riviste e istituzioni culturali - a partire dalla
«International Gramsci Society Italia» - che hanno praticato
l'approccio interdisciplinare e la ricerca collettiva e favorito la
crescita di una nuova generazione di studiose e studiosi di Gramsci.
Per Carocci si annuncia la prossima uscita di un volume che raccoglie
undici saggi gramsciani di studiosi cresciuti nell'ambito del
Seminario sui Quaderni della Igs Italia, che era già all'origine del
recente Dizionario gramsciano 1926-1937 (Carocci, 2009). E di
questa nuova leva dà oggi testimonianza anche il libro ideato e
curato da Angelo d'Orsi, Il nostro Gramsci (Viella, pp. 422,
euro 30), nel quale ventotto giovani autori mettono a confronto
Gramsci con oltre cinquanta protagonisti della storia d'Italia, da
Dante e Petrarca a D'Annunzio e Gobetti.
I rinnovati studi
gramsciani
Infine, causa non ultima
per importanza di questo «ritorno di Gramsci»,la rilevante
acquisizione di nuovi documenti che ha alimentato il lavoro delle
forze raccolte dalla Fondazione Gramsci per una nuova «edizione
nazionale» dell'intero opus gramsciano. Di questa nuova edizione
delle opere di Gramsci - edita dalla Treccani - erano usciti nel 2007
gli inediti Quaderni di traduzione e, a la-tere, i diciotto
volumi della preziosissima «edizione anastatica dei manoscritti»
dei Quaderni del carcere (edita dalla Biblioteca Treccani in
collaborazione con L'Unione sarda),a cura di Gianni Francioni, con la
collaborazione di Giuseppe Cospito e Fabio Frosini: una edizione
purtroppo scarsamente diffusa per i limitati canali di vendita
prescelti, ma oggi assolutamente indispensabile per uno studio
avanzato dei Quaderni.
Più di recente sono
stati pubblicati due volumi di lettere, contenenti numerose novità,
curati da Francesco Giasi, Maria Luisa Righi, David Bidussa e altri:
Epistolario 1, gennaio 1906-dicembre 1922 ed Epistolario 2,
gennaio-novembre 1923. Su queste prime pubblicazioni dell'«edizione
nazionale» e sui «lavori in corso» riferisce ora un numero della
rivista “Studi storici” (4/2011) interamente dedicato a
L'edizione nazionale e gli studi gramsciani. Di grande
interesse per fare il punto sulle novità documentali i saggi di
Luisa Righi e Claudio Natoli sull'epistolario precarcerario, di
Chiara Daniele sui carteggi degli anni del carcere, di Leonardo
Rapone sul giovane Gramsci, di Giancarlo Schirru, che aggiunge nuovi,
importanti tasselli alla conoscenza di «Gramsci studente di
linguistica», di Cospito e Frosini sulla preannunciata nuova
edizione dei Quaderni a cura di Francioni - su cui bisognerà
ovviamente tornare quando vedrà finalmente la luce fra un paio
d'anni, dopo una gestazione ultraventennale.
Interessante e
particolare è infine, su “Studi storici”, un contributo di
Maurizio Lana sull'uso dei nuovi «metodi quantitativi» (applicati
allo studio dello stile) nel difficile lavoro di attribuzione degli
articoli degli anni '10 e '20 che - come è noto - apparvero quasi
tutti non firmati, rendendo ardua l'individuazione di quelli scritti
realmente da Gramsci.
Nuovi carteggi e
nuove fonti
Legato all'edizione
nazionale è anche il lavoro che va conducendo da molti anni il
presidente della Fondazione Gramsci Giuseppe Vacca, il cui ultimo
libro, Vita e pensiero di Antonio Gramsci (Einaudi, pp. 367,
euro 33), su cui ha già scritto Rossana Rossanda su il manifesto del
22 giugno, esemplifica nel modo migliore un filone importante della
recente ricerca gramsciana: quello che parte da una duplice
convinzione: che il pensiero del Gramsci del carcere abbia anch'esso
uno svolgimento diacronico che va studiato nel suo farsi; e che il
motore della ricerca carceraria vada cercato nella volontà
gramsciana di continuare - nelle forme e nei modi permessigli - la
sua battaglia politica, continuando sia pure prudentemente la
comunicazione col partito, avvalendosi di «codici» decifrabili da
pochi, in primo luogo da Togliatti e Sraffa, ma anche dagli altri
dirigenti del Pcd'I (e in parte da Tania e Giulia Schucht). Il libro
è interessante anche perché costituisce la prima, vera «storia di
Gramsci in carcere», ottenuta con un grande lavoro di incrocio dei
carteggi e dimolte altre fonti, spesso inedite.
È - quella di Vacca -
una lettura che parte dalla costante ricerca di una comunicazione
nascosta tra Gramsci e i suoi interlocutori e dunque corre spesso il
rischio di proporre interpretazioni possibili ma non provate (a volte
anche improbabili). Anche l'autore viene colto dal dubbio e scrive
che spiegare tutto sotto la chiave del codice per la comunicazione
politica clandestina è riduttivo: «le lettere di Gramsci spaziano
su temi complessi di storia della cultura e della filosofia della
praxis, e sarebbe errato ridurne lo spessore alla politica in senso
stretto». Tenuto conto di questa avvertenza, il lavoro di Vacca è
molto utile, pur promuovendo una interpretazione di Gramsci a volte
troppo incline a valorizzare unilateralmente gli elementi di novità
rispetto alla tradizione terzinternazionalista. Essa però giunge a
due conclusioni di rilievo e condivisibili: in primo luogo, la
liberazione del prigioniero poteva avvenire solo a livello di
trattativa tra Stati, ma per l'Urss essa non era una priorità
politica su cui impegnarsi dando qualcosa in cambio a uno Stato
fascista che giocava al rialzo; e ciò a prescindere dalle ombre
sulla eterodossia di Gramsci, che certo non lo rendevano molto
gradito a Stalin. In secondo luogo, in carcere Gramsci procede a una
«revisione del bolscevismo», ma «la sua posizione non è quella di
uno scismatico che ormai si ponga al di fuori del comunismo
sovietico, ma quella d'un comunista eterodosso che pensa si possa
lottare dal suo interno per riformarne le fondamenta». Tanto è vero
- Vacca lo prova in modo convincente - che egli vuole tornare in Urss
per continuare la sua battaglia politica (qui si illudeva,
evidentemente) e che l'ipotesi di soggiorno in Sardegna, una volta
finita la pena detentiva, era per lui solo una«stazione di transito»
verso quello che continuavaa considerare il paese del socialismo.
Studi innovativi,
ricerche collettive, ma anche polemiche. Da ultimo ha destato
scalpore il libro di Luciano Canfora su Gramsci in carcere e il
fascismo (Salerno editrice, pp. 304, euro 14. Ne ha scritto
Giorgio Fabre su Alias libri il 17 giugno 2012). L'autore affrontain
una serie di saggi argomenti quali l'interpretazione del fascismo e
di Croce; il maldestro Appello ai fratelli in camicia nera del
1936, la storia del lascito gramsciano e la gestione (politicamente
sapiente, filologicamente riprovevole) che ne avrebbe fatto
Togliatti; le vicende dell'anarchico denigratore di Gramsci Ezio
Taddei, nel dopoguerra troppo generosamente accolto fra le file del
Pci; la storiografia comunista, bollata come «storia sacra» e
produttrice di «storia falsa» (il primo a essere messo
ingenerosamente sotto accusa è Spriano), e soprattutto uno dei
cavalli di battaglia dell'autore: la lettera scritta a Gramsci (ma
anche a Terracini e Scoccimarro) da Grieco nel 1928, che crescente
irritazione e sospetti causò nel prigioniero. Dopo aver sostenuto
per quasi un quarto di secolo che la lettera era stata falsificata
dall'Ovra per «provocare» Gramsci, Canfora ora scrive che in realtà
era stata scritta dal suo firmatario (e solo da lui), Ruggero Grieco:
una «provocazione» anche in questo caso. Canfora non dice
letteralmente che Grieco fosse un «traditore». Ma vi sono reali
differenze, nelle circostanze date, tra essere provocatore, traditore
e spia? Per conto di chi infatti Grieco avrebbe messo in campo le sue
«provocazioni» se non per aiutare Mussolini a dividere gli
avversari?
Indizi maldestri
Tutti gli indizi
disseminati da Canfora infatti portano a far credere che Grieco fosse
una spia. Tra gli «indizi», il fatto che egli scrisse una seconda
lettera a Terracini in carcere (ritrovata di recente), cercando di
«farlo parlare» di argomenti potenzialmente compromettenti; il
fatto già noto che vi era all'epoca negli alti vertici del Pcd'I una
spia fascita mai scoperta; che Togliatti non nutriva simpatia verso
Grieco; e che costui nell'Italia liberata non fu più in primissima
fila nei quadri dirigenti del Pci. Soprattutto Grieco sarebbe per
Canfora l'unico colpevole dell'Appello ai fratelli in camicia nera
che la Segreteria del Pcd'I rivolse nel 1936 alla «base» fascista
per una riconciliazione nazionale su base rivoluzionaria e
anticapitalista: un grave errore politico per cui Grieco pagò, anche
per colpe non sue: sul n.4 diCritica marxista, di imminente
pubblicazione, Michele Pistillo contesta radicalmente le accuse a
questo proposito mosse contro Grieco e Fabio Frosini smonta le tesi
di Canfora sull'interpretazione gramsciana del fascismo (come Angelo
Rossi avanza riserve su alcuni aspetti del libro di Vacca): a questi
saggi rimando per eventuali approfondimenti.
A mio avviso, anche
questa nuova tesi «in salsa Le Carrè» di Canfora non tiene. Le
lettere del 1928 sono state scritte da Grieco, ma sicuramente per
decisione più larga (se così non fosse, il «provocatore» sarebbe
stato scoperto subito). Furono maldestre, ma non ebbero influenza sul
processo contro i comunisti, non furono neanche messe agli atti. Ed è
certo che la condizione psicofisica del prigioniero andò
aggravandosi in carcere, il che spiega perché Gramsci sia tornato
sulla lettera del '28 con sempre più gravi sospetti, man mano che
sfumavano le sue speranze di liberazione e di vita. Ma perché Grieco
(e Togliatti) avrebbero scritto la lettera? Perché premeva loro
comunicare, in primo luogo a Gramsci, che in Urss la battaglia contro
l'opposizione era finita con la vittoria della maggioranza di Stalin,
e che per il Pcd'I (già in odore di trockijsmo per la lettera
gramsciana del '26) era fondamentale non continuare a scherzare col
fuoco, insistendo nel contestare il nuovo corso. Questo era il
messaggio «in codice». È molto probabile dunque che in merito alla
«scellerata lettera» Gramsci si sia sbagliato: era un errore, una
imprudenza, non un tradimento. Egli restò in carcere perché
Mussolini non aveva alcuna voglia di liberarlo senza adeguata
contropartita (anche propagandistica), e Stalin tale contropartita
non era interessato a pagarla.
“il manifesto”, 3
luglio 2012
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