Su fb Vincenzo Vasile, di
Dido Sacchettoni, il giornalista e scrittore anconetano che se ne è andato ieri,
ha tracciato un ritratto breve, ma pieno di ammirazione, affetto e
tristezza. Ne rammenta, insieme all'ironia, la coltivazione del
dubbio.
Cercando in rete mi sono imbattuto in questo pezzo che racconta luoghi e persone di Roma, un apologo tollerante e indisciplinato come il suo autore. Lo “posto” qui a memoria mia e di qualche altro. (S.L.L.)
Cercando in rete mi sono imbattuto in questo pezzo che racconta luoghi e persone di Roma, un apologo tollerante e indisciplinato come il suo autore. Lo “posto” qui a memoria mia e di qualche altro. (S.L.L.)
In un ristorante chiamato
"Yotvata", in piazza Cenci, c'è la cosa migliore del
Ghetto, non è commestibile ma ha il profumo inestimabile della
tolleranza tra fedi ed etnie diverse, ed è straordinario percepirlo
proprio nel quartiere ebraico oppresso per secoli da sadici poteri, e
poi proprio ora che religione e politica, stanno appiccando il fuoco
al mondo. Càpito spesso al "Yotvata", che poi è il nome
di un kibbutz e di una catena di ristoranti giù in Israele, dove la
cucina è soltanto a base di pesce e latticini, spaghetti di magro,
per esempio alla bottarga, e niente carne, tassativamente, neanche
quella macellata kasher, cioè secondo le regole ebraiche. Il
proprietario è un giovane corpulento, una faccia chiara e gentile,
la kippah d'ordinanza degli ebrei ortodossi (mai capito come fanno a
tenersi quella piccola cupola di panno sulla sommità del capo). Si
chiama Marco Sedi. Il direttore, o piuttosto il factotum, avrà
qualche anno di più, è magro come una carruba e d' un bruno
olivastro, i suoi occhi color caffè sempre in movimento. Si chiama
Raman Waheed, è egiziano del Cairo e musulmano praticante, vale a
dire che crede in un Dio molto diverso da quello di Marco, anche se
poi è forse lo stesso Dio e loro due più o meno lo sanno. In
cucina, il cuoco e il suo aiuto sono cristiani di rito copto,
egiziani anche loro e adesso aspettano un altro aiutante. «Che è un
buddista» sorride Marco.
Quando ho saputo tutto
questo mi sono detto: un giorno li metto insieme e li faccio parlare
di Sharon, Arafat, missili su Gaza e kamikaze e Iraq, e vediamo cosa
succede. L'ho fatto, ma ho soltanto sentito quel profumo che dicevo e
non è volatile come quello d'un dopobarba. Oggi è venerdì, Yom
shishì, il sesto giorno della settimana del mese di Ijàr, cioè
maggio, dell'anno ebraico 5764. In via del Portico d'Ottavia i negozi
stanno aprendo. La strada è lavata di fresco. È un mattino chiaro e
pare che adesso il quartiere si meriti tutto l'azzurro opalescente
del cielo romano dopo tutti quei secoli di interminabile tenebra.
Decido di camminare un po' intorno, piazza Mattei, con la fontana
delle Tartarughe, via della Reginella, il Portico d'Ottavia, il Foro
Piscario coi suoi archi e le colonne mozze, ornamento archeologico
del Ghetto perché gli ebrei cominciarono a stabilirsi a Roma ben 160
anni prima di Cristo. Ma anche ad aggirarsi tra i vicoli sembra
sempre di imbatterti in fantasmi senza quiete. E infatti eccoli, me
li ritrovo alle lapidi. "Largo 16 ottobre 1943", l' inizio
dell'Olocausto per gli ebrei romani, 2091 deportati, sopravvissero
soltanto 16 uomini e una donna, nessun bambino, e poi un'altra: "Non
cominciarono neppure a vivere", in memoria dei neonati morti nei
campi nazisti. Intorno c'è una gran quiete perché il traffico qui
non arriva più, deviato per motivi di sicurezza. Il Ghetto s' è
conquistato la sua pace, ma in Palestina il terrorismo e Sharon non
si danno tregua, e il passato può sempre tornare sotto forma di
attentati dalle tecniche imprevedibili.
I gabbiani risalgono dal
Tevere e stridono e volano smemorati. In Sinagoga è cominciata la
celebrazione del centenario dell'edificazione (1904). Adesso arrivo
al museo ebraico annesso al Tempio, sul lungotevere de' Cenci, dove
il traffico ti dimostra una volta di più che l'umanità anziché il
senso del progresso nutre quello oscuro della regressione, a meno di
voler chiamare progresso un inferno metallico del genere. Anna Bailer
che raggiungo dopo cortesi, ma inesorabili controlli, dirige il museo
storico dell'ebraismo. Mi guarda con diffidenza come temesse un
travisamento indelicato della sue ortodossia nella futura stesura del
mio racconto, o forse è la stessa diffidenza destinata ai goim
cioè ai non ebrei. Ha capelli grigi, e molti nipoti, sorride, gli
occhi d'un azzurro limpido ma coi bagliori del ghiaccio. Mi racconta
subito molte cose. Per esempio delle Cinque Scòle, che erano un
tempo nella piazza omonima poco distante, con la fontana di Giacomo
della Porta, vale a dire le cinque Sinagoghe: tre serfardite (da
Sefard, Spagna in ebraico) e due ashkenazite (da Ashkenaz, Germania)
coi loro diversi riti religiosi. Sicché mi viene in mente un mio
amico ebreo (credente per la verità) che una volta mi disse: da tre
ebrei che discutono, saltano fuori almeno cinque o sei opinioni
diverse e tutte attendibili. È la loro irrequietezza, disse lui. O
la loro intelligenza, io dissi. Riferisco alla Bailer e lei mi
fulmina: «Bisogna piantarla con questa storia dell'intelligenza
ebraica. Noi siamo uguali a chiunque altro». «Be', d' accordo» le
faccio, «ma per esempio c'è una sfilza di vostri musicisti,
Rubinstein, Horowitz, Ashkenazi, Richter, Bernstein~» «Allora ci
metta anche Mendelssohn, se è per questo» dice, forse in un
involontario compiacimento, ma sempre con quegli occhi da laghi
gelati. «Bene, e poi tutti quei vostri scrittori tipo Kafka e
Proust, e Roth vari, e gli scienziati e tutta quella vostra lista di
Nobel». «Questo è razzismo alla rovescia. La verità è che noi
per vivere non potevamo far altro che commerciare e studiare».
Taglia e mi descrive i confini del quartiere, da ponte Fabricio che
immette sull' isola Tiberina, a via Arenula e le Botteghe Oscure, e i
vicoli e le stradine in questo perimetro che il Tevere a volte
inondava perché non c' erano argini. Mi dice di Papa Paolo IV
Carafa, cioè il creatore del Ghetto, nel 1555, spietato inquisitore
di menti in cui cercava instancabilmente il virus dell'eresia. Mi
guida per il museo, mi mostra i simboli della complicata ritualità
ebraica, i rotoli della Torà, gli scritti sacri consegnati dal
Padreterno a Mosé. Sono avvolti in una specie di mattarello legno e
vengono poi sistemati per le funzioni in addobbi sontuosi di damasco
("la regalità della legge", mi precisa), suddivisi in 54
sezioni che vengono lette una a settimana, per la lettura completa
occorre un anno. Mi parla della Genesi, dell' Esodo, del Levitico e
la mia limitata mente laica comincia ronzarmi stordita.
Fortuna che in quel
momento entra una bionda bellezza americana, e comincia ad aggirarsi
tra le teche in cui sono esposti libri, documenti, memorie.
All'improvviso s'avvicina alla signora Bailer e le chiede di un libro
tutto sforacchiato. Conversazione in un inglese eccellente. «Chi è
il signor Musante?» fa la ragazza, «e cos'è quel libro?» «Be',
ha salvato la vita al signor Musante». «Come può un libro salvare
la vita a un uomo?» la ragazza chiede «Lo aveva nella tasca
interna, proprio sul cuore. È un libro di precetti religiosi. Lui
usciva dalla sinagoga. Era il primo ottobre dell' 82, quando quelli
dell'Olp cominciarono con le raffiche». La Bailer si rivolge a me:
«Lei ricorderà». Certo che ricordavo, un bambino di due anni
ucciso e una trentina di feriti, poteva essere una strage. «E cosa
sono quei fori sul libro?» di nuovo chiede la ragazza. «Pallottole»
dice la Bailer. «Quattro, come vede». «Ma questo è un miracolo».
«No, miss, è solo un libro con la copertina di pelle molto spessa».
Nella signora Bailer una specie di ironia laica che non le
sospettavo. La bionda bellezza se ne va.
La Bailer ricomincia ad
erudirmi. M'informa che adesso la comunità ebraica romana è
piuttosto prospera, 16 mila aderenti, e il buio sembra passato. Un
giorno di quelli, pranzo al Yotvata, e con Marco e Waheed e gli altri
porto il discorso sul medioriente, il muro di Sharon, i kamikaze e il
resto. Waheed dice che lui frullerebbe tutti in un tritacarne fino a
quando non uscissero polpette inoffensive. L'ebreo Marco annuisce
senza fiatare. Al tavolo accanto c'è un giovane rabbino, si chiama
Goldstein, e gli ho chiesto cosa ne pensasse. Sorride ed elude.
Allora, tanto per dire, gli chiedo perché per gli ebrei corresse
l'anno 5764. «Ma è l'anno della creazione del mondo» di nuovo
sorride. «E il vecchio Darwin? Non discendiamo da rispettabili
scimmie?» Lui allarga le braccia come a dirmi che sarebbe troppo
lungo spiegare.
Ma quel giorno avevo
un'ultima curiosità, e gli chiedo perché gli ebrei depongano sassi
sulle tombe dei loro morti. La pietra, dice, dà il senso dell'
indistruttibilità, è il segno del ricordo perpetuo per i defunti.
Finalmente sapevo, gli faccio, perché qualcuno m'ha detto una volta
che andando da mia madre, nel cimitero israelitico di Ancona dove lei
aveva voluto essere sepolta, accanto ai suoi, dovevo lasciare qualche
sasso sulla sua tomba. Lui mi guarda in uno strano stupore. «Allora
lei è ebreo». «Si, ma teologicamente molto indisciplinato». E gli
dico anche che Dio, durante l'Olocausto e gli orrori di ogni tempo,
si è ritirato, come ha scritto George Steiner, grande intellettuale
ebreo, in qualche abisso insondabile del suo creato.
“la Repubblica, 29
maggio 2004
Nessun commento:
Posta un commento