Giorgio Amendola in un comizio a Roma con Palmiro Togliatti e Aldo Natoli |
Dal debutto
politico liberale negli anni Venti, alla lotta contro il regime
fascista fino ai lunghi, lucidi anni della militanza comunista
«Mio bisnonno
mazziniano, mio nonno garibaldino, mio padre antifascista, io
comunista, questa è la linea del progresso politico nazionale».
Così si presentava Giorgio Amendola, protagonista eminente della
storia italiana del Novecento. Fortemente impegnato a scoprire le
origini dell'Italia contemporanea per superare le ragioni della
debole formazione di una coscienza etica nazionale. Giovanni Amendola
aveva guardalo con occhio disincantalo i contraddittori sviluppi
dell'età giolittiana. E proprio quando la lira faceva aggio sull'oro
aveva esclamato: «L'Italia com'è oggi non ci piace». Il debutto
politico del giovane Giorgio, studente liceale al Visconti di Roma -
con La Malfa, Cattani. Fenoaltea, Grifone - avverrà nel 1924, tra le
fila della Unione goliardica per la libertà. Liberale amendoliano.
più che gobettiano, sarà il giovane Amendola, per la condivisione
di una politica delle alleanze antifascista rigidamente delimitata a
sinistra in senso anticomunista.
L'assoluta intransigenza
morale che condurrà il padre alla morte per mano fascista rafforzerà
il carattere etico dell'antifascismo di Giorgio che, insieme agli
amici del Visconti, vedrà nell'affermarsi del fascismo, come
scriverà Fenoaltea, «il riaffiorare del vizio antico degli italiani
nelle epoche buie della loro storia: la mancanza di carattere (...)
il riapparire dell'Italia di Guicciardini, dell'italiano che pensa
soltanto al suo partlculare». La formazione culturale e politica,
finalizzala alla lotta contro il fascismo, continuerà con
l'approfondimento dell'insegnamento gobettiano o con la ricerca,
attraverso le riviste “Il quarto Stato” e “Pietre”, di una
interpretazione volontaristica e idealistica del marxismo, su cui
poter fondare un "rivoluzionarismo concreto e storicistico»,
che nel '27 intravedeva, ad esempio, negli scritti di Lelio Basso.
Impressionato
dall'impotenza del vecchio mondo politico e dell'emigrazione
antifascista Giorgio Amendola, fra il '28 e il '29, è attratto dal
pensiero politico di Otto Bauer e si attesta sulle posizioni
socialdemocratiche dell'austromarxismo, in polemica :on le vecchie
«posizioni del riformismo italiano». Sul finire degli anni 20, a
Napoli, Giorgio prende a frequentare Croce e Fortunato, a leggere le
loro opere, storiche, sull'Italia liberale e sul Mezzogiorno. A casa
di don Giustino venivano anche Emilio Sereni, Manlio Rossi Doria,
Eugenio Reale. Si discuteva delle diverse interpretazioni di Croce e
di Fortunato: storia d'Italia, questione meridionale, ruolo degli
intellettuali e fattori economici e naturali, origini del fascismo.
In questi ultimi anni si sviluppa l'influenza teorico-politica di
Sereni, in un confronto serrato che ruota intorno alla
interpretazione conseguentemente marxista di Sereni dolla questione
meridionale come prova del fallimento della classe dirigente
dell'Italia liberale. L'adesione di Amendola al partito comunista
avviene quando, nel '30, si attua la «svolta» del Comintern, con la
lettura ancora una volta catastrofista della crisi del capitalismo e
con la teoria aberranti del socialfascismo, che identifica fascismo e
socialdemocrazia. Ma a Napoli, intanto, l'arresto di Sereni e Rossi
Doria spinge Amendola, a un anno dall'adesione al partito, alla guida
del gruppo napoletano, insieme all'operaio metalmeccanico Gennaro
Rippa. Così, mentre il dissenso politico sulla «svolta» viene
espresso, in forme diverse, da Gramsci e da Terracini, da Leonetti,
Ravazzoli e Tresso e da Tasca e Silone, Giorgio Amendola inizia la
sua attività di dirigente comunista al IV Congresso del partito,
tenuto clandestinamente a Colonia. E qui il giovane figlio di una
personalità eminente della più robusta tradizione
liberaldemocratica italiana, parafrasando altre due limpide
coscienze etico-politiche di questa tradizione, Gobetti e Dorso,
esporrà le ragioni della sua personale, drammatica svolta iniziando
con l'affermazione, perentoria come la sua tempra morale, che «la
rivoluzione antifascista sarà proletaria o non sarà». Venivano
quindi il confino a Ponza, l'esilio a Parigi, l'esercizio di
responsabilità eminenti nel partito e poi nella lotta di
liberazione, fino alla responsabilità di sottosegretario alla
presidenza del Consiglio, nel '45, con Parri. A 37 anni Amendola era
tra i dirigenti più vicini a Togliatti, in una profonda condivisione
della innovativa strategia della democrazia progressiva fondata su un
partito nuovo capace di condurre una politica di solidarietà
nazionale. Come avrà modo di precisare nel convegno gramsciano del
'62 sulle tendenze del capitalismo italiano, «la classe operaia è
balzata alla direzione della vita nazionale quando si è affermata
forza dirigente della lotta antifascista e della guerra di
liberazione (...). Era una nuova concezione strategica della
rivoluzione, secondo la quale la lotta per il socialismo coincideva
con una lotta per una profonda trasformazione democratica del paese,
che permettesse alla classe operaia ed alle forze lavoratrici di
giungere democraticamente alla direzione del paese». Dalla tribuna
del V Congresso, al principio del '46 Amendola esporrà la linea di
alleanza democratica da diffondere nel Mezzogiorno per contrastare le
forze reazionarie di orientamento monarchico. E sottolineerà poi, a
Napoli, rilanciando il principio informatore delle diverse correnti
meridionalistiche che «la battaglia per il rinnovamento democratico
dell'Italia si vince o si perde qui nel Mezzogiorno».
La proposta democratica e
produttivistica elaborata da Amendola, Sereni e Alicata per il
Mezzogiorno corrispondeva alla linea del «nuovo corso economico»
del Pci, definita da Togliatti la formula ispiratrice di una
alleanza, di «un blocco, che riscuota la fiducia della grande
maggioranza dei cittadini». Questa strategia di governo democratico
progressista della società italiana sarà bloccata, già nel '47,
dagli sviluppi internazionali e interni della guerra fredda. Negli
anni duri del Cominform Amendola sarà tra i dirigenti più vicini a
Togliatti, in difficoltà anche nella direzione del Pci, di fronte
alle continue richieste staliniane di arroccamento intorno all'Unione
Sovietica, per la difesa del campo socialista dal pericolo della
guerra e della bomba atomica. Arche qui è necessario tenere conto
del drammatico contesto storico, per chi non ritenga, ancora, di
essere stato salvato, nel '48 da Pio XII e da Scelba. Altrimenti non
si capisce nemmeno come anche Amendola, al principio del '51,
condivida la richiesta staliniana, respinta quasi solo da Togliatti,
di lasciare la segreteria del Pei per quella del Cominforni. Nel '56
invece l'intero gruppo dirigente del Pci condividerà la linea
indicata da Togliatti all'VIII Congresso: l'avversario era
nell'interazione tra settarismo massimalistico e revisionismo
riformistico. Anche Amendola, che nel '54 aveva sostituito Secchia
all'organizzazione denuncerà il «contrabbando ideologico e politico
revisionistico, che provoca e facilita gli irrigidimenti dogmatici»;
nel nome di «un partito autonomo della classe operaia, liberato da
vincoli di natura socialdemocratica di soggezione alle forze del
capitale (...) un partito nazionale e insieme internazionalista, cioè
fortemente legato ai partiti comunisti del mondo intiero». Obiettivo
politico di questo attacco, oltre alla vecchia guardia, era, insieme
ai numerosissimi intellettuali sconvolti dalla repressione sovietica
in Ungheria, Antonio Giolitti, prediletto da Togliatti, come
Amendola, per l'intelligenza e la cultura politica, e per
rappresentare fin nel nome il trapasso di una egemonia politica e
sociale. Ma ora non c'era da opporre, come nel '30, la dittatura
proletaria alla dittatura fascista. Non erano più componibili il
concetto gramsciano di egemonia e la pratica leninista di dittatura
del proletariato: non erano più disgiungibili socialismo, democrazia
e libertà. La via italiana al socialismo riprendeva il suo corso, ma
perdeva di capacità espansiva per il peso rappresentato da una
peculiare esperienza di socialismo deprivato di libertà, democrazia
e sviluppo.
“l'Unità”, 5 giugno
1990
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