15.7.18

Giorgio Amendola. Una scelta di vita per la rivoluzione democratica (Francesco Barbagallo)

Giorgio Amendola in un comizio a Roma con Palmiro Togliatti e Aldo Natoli

Dal debutto politico liberale negli anni Venti, alla lotta contro il regime fascista fino ai lunghi, lucidi anni della militanza comunista

«Mio bisnonno mazziniano, mio nonno garibaldino, mio padre antifascista, io comunista, questa è la linea del progresso politico nazionale». Così si presentava Giorgio Amendola, protagonista eminente della storia italiana del Novecento. Fortemente impegnato a scoprire le origini dell'Italia contemporanea per superare le ragioni della debole formazione di una coscienza etica nazionale. Giovanni Amendola aveva guardalo con occhio disincantalo i contraddittori sviluppi dell'età giolittiana. E proprio quando la lira faceva aggio sull'oro aveva esclamato: «L'Italia com'è oggi non ci piace». Il debutto politico del giovane Giorgio, studente liceale al Visconti di Roma - con La Malfa, Cattani. Fenoaltea, Grifone - avverrà nel 1924, tra le fila della Unione goliardica per la libertà. Liberale amendoliano. più che gobettiano, sarà il giovane Amendola, per la condivisione di una politica delle alleanze antifascista rigidamente delimitata a sinistra in senso anticomunista.

L'assoluta intransigenza morale che condurrà il padre alla morte per mano fascista rafforzerà il carattere etico dell'antifascismo di Giorgio che, insieme agli amici del Visconti, vedrà nell'affermarsi del fascismo, come scriverà Fenoaltea, «il riaffiorare del vizio antico degli italiani nelle epoche buie della loro storia: la mancanza di carattere (...) il riapparire dell'Italia di Guicciardini, dell'italiano che pensa soltanto al suo partlculare». La formazione culturale e politica, finalizzala alla lotta contro il fascismo, continuerà con l'approfondimento dell'insegnamento gobettiano o con la ricerca, attraverso le riviste “Il quarto Stato” e “Pietre”, di una interpretazione volontaristica e idealistica del marxismo, su cui poter fondare un "rivoluzionarismo concreto e storicistico», che nel '27 intravedeva, ad esempio, negli scritti di Lelio Basso.
Impressionato dall'impotenza del vecchio mondo politico e dell'emigrazione antifascista Giorgio Amendola, fra il '28 e il '29, è attratto dal pensiero politico di Otto Bauer e si attesta sulle posizioni socialdemocratiche dell'austromarxismo, in polemica :on le vecchie «posizioni del riformismo italiano». Sul finire degli anni 20, a Napoli, Giorgio prende a frequentare Croce e Fortunato, a leggere le loro opere, storiche, sull'Italia liberale e sul Mezzogiorno. A casa di don Giustino venivano anche Emilio Sereni, Manlio Rossi Doria, Eugenio Reale. Si discuteva delle diverse interpretazioni di Croce e di Fortunato: storia d'Italia, questione meridionale, ruolo degli intellettuali e fattori economici e naturali, origini del fascismo. In questi ultimi anni si sviluppa l'influenza teorico-politica di Sereni, in un confronto serrato che ruota intorno alla interpretazione conseguentemente marxista di Sereni dolla questione meridionale come prova del fallimento della classe dirigente dell'Italia liberale. L'adesione di Amendola al partito comunista avviene quando, nel '30, si attua la «svolta» del Comintern, con la lettura ancora una volta catastrofista della crisi del capitalismo e con la teoria aberranti del socialfascismo, che identifica fascismo e socialdemocrazia. Ma a Napoli, intanto, l'arresto di Sereni e Rossi Doria spinge Amendola, a un anno dall'adesione al partito, alla guida del gruppo napoletano, insieme all'operaio metalmeccanico Gennaro Rippa. Così, mentre il dissenso politico sulla «svolta» viene espresso, in forme diverse, da Gramsci e da Terracini, da Leonetti, Ravazzoli e Tresso e da Tasca e Silone, Giorgio Amendola inizia la sua attività di dirigente comunista al IV Congresso del partito, tenuto clandestinamente a Colonia. E qui il giovane figlio di una personalità eminente della più robusta tradizione liberaldemocratica italiana, parafrasando altre due limpide coscienze etico-politiche di questa tradizione, Gobetti e Dorso, esporrà le ragioni della sua personale, drammatica svolta iniziando con l'affermazione, perentoria come la sua tempra morale, che «la rivoluzione antifascista sarà proletaria o non sarà». Venivano quindi il confino a Ponza, l'esilio a Parigi, l'esercizio di responsabilità eminenti nel partito e poi nella lotta di liberazione, fino alla responsabilità di sottosegretario alla presidenza del Consiglio, nel '45, con Parri. A 37 anni Amendola era tra i dirigenti più vicini a Togliatti, in una profonda condivisione della innovativa strategia della democrazia progressiva fondata su un partito nuovo capace di condurre una politica di solidarietà nazionale. Come avrà modo di precisare nel convegno gramsciano del '62 sulle tendenze del capitalismo italiano, «la classe operaia è balzata alla direzione della vita nazionale quando si è affermata forza dirigente della lotta antifascista e della guerra di liberazione (...). Era una nuova concezione strategica della rivoluzione, secondo la quale la lotta per il socialismo coincideva con una lotta per una profonda trasformazione democratica del paese, che permettesse alla classe operaia ed alle forze lavoratrici di giungere democraticamente alla direzione del paese». Dalla tribuna del V Congresso, al principio del '46 Amendola esporrà la linea di alleanza democratica da diffondere nel Mezzogiorno per contrastare le forze reazionarie di orientamento monarchico. E sottolineerà poi, a Napoli, rilanciando il principio informatore delle diverse correnti meridionalistiche che «la battaglia per il rinnovamento democratico dell'Italia si vince o si perde qui nel Mezzogiorno».
La proposta democratica e produttivistica elaborata da Amendola, Sereni e Alicata per il Mezzogiorno corrispondeva alla linea del «nuovo corso economico» del Pci, definita da Togliatti la formula ispiratrice di una alleanza, di «un blocco, che riscuota la fiducia della grande maggioranza dei cittadini». Questa strategia di governo democratico progressista della società italiana sarà bloccata, già nel '47, dagli sviluppi internazionali e interni della guerra fredda. Negli anni duri del Cominform Amendola sarà tra i dirigenti più vicini a Togliatti, in difficoltà anche nella direzione del Pci, di fronte alle continue richieste staliniane di arroccamento intorno all'Unione Sovietica, per la difesa del campo socialista dal pericolo della guerra e della bomba atomica. Arche qui è necessario tenere conto del drammatico contesto storico, per chi non ritenga, ancora, di essere stato salvato, nel '48 da Pio XII e da Scelba. Altrimenti non si capisce nemmeno come anche Amendola, al principio del '51, condivida la richiesta staliniana, respinta quasi solo da Togliatti, di lasciare la segreteria del Pei per quella del Cominforni. Nel '56 invece l'intero gruppo dirigente del Pci condividerà la linea indicata da Togliatti all'VIII Congresso: l'avversario era nell'interazione tra settarismo massimalistico e revisionismo riformistico. Anche Amendola, che nel '54 aveva sostituito Secchia all'organizzazione denuncerà il «contrabbando ideologico e politico revisionistico, che provoca e facilita gli irrigidimenti dogmatici»; nel nome di «un partito autonomo della classe operaia, liberato da vincoli di natura socialdemocratica di soggezione alle forze del capitale (...) un partito nazionale e insieme internazionalista, cioè fortemente legato ai partiti comunisti del mondo intiero». Obiettivo politico di questo attacco, oltre alla vecchia guardia, era, insieme ai numerosissimi intellettuali sconvolti dalla repressione sovietica in Ungheria, Antonio Giolitti, prediletto da Togliatti, come Amendola, per l'intelligenza e la cultura politica, e per rappresentare fin nel nome il trapasso di una egemonia politica e sociale. Ma ora non c'era da opporre, come nel '30, la dittatura proletaria alla dittatura fascista. Non erano più componibili il concetto gramsciano di egemonia e la pratica leninista di dittatura del proletariato: non erano più disgiungibili socialismo, democrazia e libertà. La via italiana al socialismo riprendeva il suo corso, ma perdeva di capacità espansiva per il peso rappresentato da una peculiare esperienza di socialismo deprivato di libertà, democrazia e sviluppo.

“l'Unità”, 5 giugno 1990

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