L'intervista è degna di
attenzione. L'invito a distinguere è certo utile, come è
condivisibile l'aspirazione ad aprire contraddizioni nel fronte
avversario; ma almeno altrettanto forte mi pare, da sinistra (e non
dalle posizioni centriste di un Calenda o di un Renzi), l'esigenza di
non far regali a un governo che sempre più marcatamente assume
tratti di destra, di non lasciar passare l'idea che in esso vi sia
del buono. Credo che - nello specifico del decreto dignità - la
scelta giusta non stia nell'opporsi da posizioni liberiste e
filopadronali come in sostanza fanno il Pd e Forza Italia, ma di
svelarne il carattere meramente propagandistico denunciando
l'assoluta insufficienza delle misure proposte per invertire davvero
la tendenza, affermatasi negli ultimi trent'anni, a ridurre diritti,
tutele e dignità del lavoro. Non mi trova dunque d'accordo il tono
prevalente nelle dichiarazioni di Fassina, che è quello di
un'apertura di credito – seppure parziale – verso le
proclamazioni del ministro Di Maio.
Un po' più d'attenzione
(non voglio pensare ad ignoranza) andrebbe peraltro richiesta anche
all'intervistatore articolista. A Frattocchie non c'è mai stata una
scuola del Pd. Nel secolo scorso non vi fu mai in Italia un Partito
di questo nome. Fino al 1993, data della chiusura della storica
scuola di partito del Pci, vi fu solo un Pdi (Partito democratico
italiano) di qualche peso: fu questo il nome scelto e mantenuto per
un paio d'anni, quando nel 1959 si riunificarono, dai monarchici di
Covelli (PNM) e da quelli di Lauro (PMP). (S.L.L.)
Stefano Fassina |
Roma. “C’era, ai
tempi delle Frattocchie, l’analisi differenziata dell’avversario”.
Ed è a quell’insegnamento che Stefano Fassina, deputato di LeU,
classe 66, che la vecchia scuola del Pd ha fatto in tempo a
frequentare prima della chiusura nel 1993, si rifà quando gli si
chiede un giudizio sul governo grillo-leghista. “Bisogna
distinguere”, dice.
«Bisogna fare
un’opposizione differenziata, rinunciando a facili, liquidatori
giudizi. Se la sinistra italiana si ostina a definire come fascista
questo esecutivo, e dunque a schierarsi, come fa Calenda, a difesa
degli interessi dei più forti formando un Fronte repubblicano,
continuerà a perdere voti e consensi, continuerà ad essere vista
come una forza delle élite lontana dal popolo e dalle periferie del
disagio».
E dunque, se distinguere
si deve, ecco che secondo Fassina “LeU dovrebbe sostenere il
decreto dignità”. Quello, cioè, presentato ieri da Luigi di Maio
con l’obiettivo dichiarato di contrastare il precariato.
«Mi sembra — osserva
Fassina — che il decreto si muova nella giusta direzione, anche se
su alcuni punti si può e si deve pretendere più coraggio. È
sacrosanto, ad esempio, il contrasto contro la pubblicità al gioco
d’azzardo. Ed è condivisibile pure l’introduzione delle multe
alle aziende che, dopo avere ricevuto agevolazioni fiscali dallo
stato, delocalizzano. Qui, però, bisognerebbe introdurre delle
sanzioni per chi trasferisce la sede delle sue aziende all’estero,
anche se non ha ricevuto aiuti”.
Positivo, ma
perfettibile, anche l’approccio di Di Maio sulla riforma dei
contratti a termine.
«L’intento è buono —
riflette Fassina — ma i provvedimenti rischiano di essere
controproducenti. Innanzitutto, la causale deve valere anche per il
primo contratto: altrimenti al datore di lavoro converrà ogni volta
cercarne uno nuovo, di lavoratore. Soprattutto in virtù del fatto
che vengono introdotte le maggiorazioni sui rinnovi. Anche quelle
vanno eliminate, altrimenti finiranno per disincentivare la
prosecuzione del rapporto di lavoro. E dunque degli emendamenti
dovremo farli”, spiega Fassina, “ma credo che dovremmo essere
bendisposti, noi di LeU, verso questo decreto».
Anche a patto, quindi, di
legittimare “da sinistra” un governo che, sulle questioni legate
all’accoglienza e ai diritti civili sembra piuttosto orientato a
destra?
«Ovvio che io non
condivido quello che dice Matteo Salvini sui migranti, o Lorenzo
Fontana sulla famiglia. Ma sulle questioni del lavoro, questo è un
esecutivo che guarda indiscutibilmente a sinistra. Pertanto, se non
riusciamo a discernere tra ciò che, nell’operato di questo
esecutivo, è giusto, da ciò che invece giusto non è, alla fine
regaleremo ulteriori fette di disagio sociale al Carroccio».
Per questo, quando sente
Di Maio parlare della necessità di “smantellare il Jobs Act”,
Fassina ammette di provare «soddisfazione, da un lato, ma
soprattutto rabbia. La rabbia cioè, che nasce dal constatare che il
Pd, cioè la parte politica da cui pure io provengo, ha aggravato
terribilmente le condizioni dei lavoratori». Lo certificano, a
giudizio del deputato di LeU, anche i dati odierni dell’Istat. Dati
che, in verità, testimoniano di una disoccupazione ai minimi dal
2012.
«Ma ha ragione Di Maio —
ribatte Fassina — quando dice che quei numeri certificano il record
del precariato, non del lavoro».
Quanto al Pd, e alla
tribolata transizione che sta vivendo, Fassina si stringe nelle
spalle. Dice che non vede «alcuna seria novità all’orizzonte:
solo riposizionamenti interni, senza alcuna presa di consapevolezza.
E l’inspiegabile entusiasmo dei renziani di queste ore sta lì a
dimostrarlo».
IL FOGLIO, 3 luglio 2018
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