Dirà a un certo punto e
quasi a mo' di conclusione l'on. Andreotti (martedì prossimo,
seconda rete Tv ed ultima puntata del caso Montesi): la
vicenda fu un «boccone prelibato di cui si nutrì l'opposizione».
Non gli credete. Il boccone non fu prelibato, ma amaro fino al
disgusto. E non se ne nutrì l'opposizione. Questa aveva già vinto
la battaglia fondamentale del decennio (la memorabile lotta contro la
legge-truffa elettorale) quando l'affare esplose in tutto il
suo fosco splendore. E dai successivi sviluppi non trasse alcun
vantaggio quantificabile e qualificabile in prestigio e in voti.
Mentre invece... Ma andiamo per ordine.
Nel ricostruire il
«processo del secolo», Franco Biancacci aveva solo l'imbarazzo
della scelta. Il materiale a disposizione era enorme. Il «caso» fu
infatti tantissime cose insieme: una dolorosa tragedia personale e
familiare, un giallo all'italiana, una farsa, uno psico-dramma
collettivo, e infine e soprattutto uno scandalo politico classico (di
quelli, cioè, che segnano un'epoca). Fu, comunque, così importante
da ispirare film, libri, tesi di laurea, nonché il discutibile ma
bellissimo saggio di uno dei più noti intellettuali europei, il
poeta-filosofo tedesco Hans Magnus Enzensberger, che non a caso
Biancacci cita e a cui implicitamente si richiama, pur senza
nominarlo.
Per Enzensberger
(«Politica e gangsterismo », Sa-velli editore, 1979), la verità
(l'unica verità accertabile del «caso») è che «l'Italia era
preparata a credere a tutto ciò che accusava le classi dirigenti».
Il «fatto» non consisteva tanto nella misteriosa morte di Wilma
Montesi, quanto nell'esistenza del sotto-governo, cioè di «un
governo contro il popolo, un governo invisibile, una sorta di mafia
legalizzata, una macabra parodia dello Stato che non è altro che
l'organo esecutivo dì persone che restano nell'ombra... L'Annegata
(che Enzensberger chiama proprio così, con l'A maiuscola,
collocandola nel Pantheon delle Ofelie di tutti i tempi) non era che
un'occasione — un'occasione attesa da tanto tempo — per regolare
i conti con un ordine sociale di cui alcuni esponenti erano per caso
gli imputati di questo processo. Colpevoli? Innocenti? Nel senso
dell'accusa che era stata fatta contro di loro, erano certamente
innocenti. Erano colpevoli solo perché facevano parte di quelli che
l'Italia considerava tali... l'Italia riconobbe il volto dei suoi
tiranni e li condannò... ».
Enzensberger ha colto nel
segno. Non fu l'opposizione, ma il popolo italiano a impadronirsi del
«caso» e a trasformare quello che all'inizio era solo un fatto di
cronaca nera in un evento «storico».
Se non ci fossero state
le premesse emotive, psicologiche, politiche, che il poeta-filosofo
riconosce e segnala, nessun organo dì stampa, scandalistico o
autorevole, e nessun diffusore di voci e di calunnie, per quanto
potente, avrebbe potuto montare uno «spettacolo» così macchinoso e
«venderlo» così bene, e tenerlo sul cartellone per ben quattro
anni.
Uno strumento di
lotta interna
Ma il «caso Montesi» fu
anche un'altra cosa. Esso fu uno degli strumenti e, come si dice, dei
«terreni» e «momenti» (il più vistoso, il più plateale, ma
ovviamente non il solo) di una lotta interna alla Democrazia
cristiana. Esso permise agli esponenti democristiani più giovani, o
meno vecchi, di colpire politicamente a morte, attraverso Attilio
Piccioni, la cui sola colpa era di essere il padre di un sospetto,
tutto l'«establishment» dei notabili cattolici che avevano fondato
il partito, sotto altro nome, prima del fascismo, e che lo avevano
riorganizzato alla fine della guerra e portato sia alla strepitosa
vittoria del 18 aprile 1948, sia alla sconfitta politica e morale del
7 giugno 1953.
Dopo il «caso Montesi»
(ed anche a causa del «caso Montesi») la DC non fu mai più quella
di prima. Fu migliore? Peggiore? Fu certamente diversa. Forse si può
dire che con il «processo del secolo » muore per sempre il Partito
popolare e nasce la DC (o una «nuova» DC).
Non esistono le prove che
tutta la vicenda sia stata montata in vista di questa «operazione»
di «rinnovamento» da questo o quell'ambizioso personaggio del
partito di maggioranza. È fuor di dubbio, tuttavia, che la tigre
dello scandalo fu cavalcata da alcuni con una tale maestria da
strappare gli applausi.
Ecco perché l'on.
Andreotti fa torto a se stesso (prima ancora che all'intelligenza del
pubblico suo coetaneo) quando «glissa» su responsabilità che egli
(non altri) sembra aver evocato di recente esprimendo l'intenzione di
riaprire il «dossier», e crede di cavarsela chiamando in causa
l'opposizione. Egli sa bene che questa, esclusa dalle varie «stanze
dei bottoni», messa al bando e perseguitata, non aveva accesso di
prima mano alle informazioni, che erano tutte possedute in esclusiva
e utilizzate da chi al vertice lottava, con altri suoi pari, per il
potere. Un aspetto straordinario e paradossale del «caso» fu
infatti proprio questo: essi fecero (come si dice) «tutto da sé».
Si accusarono, si spaventarono, inquinarono testimonianze (forse
insignificanti), fecero sparire prove (vere o false), si
aggrovigliarono in una rete inestricabile dì bugie, voci e calunnie,
da cui infine uscirono, alcuni vincitori, altri sconfitti.
L'opposizione ebbe un ruolo marginale nella faccenda, e forse (suo
malgrado) fu perfino strumentalizzata da chi audacemente scatenò i
diavoli dello scandalo, e sapientemente li pilotò. Ventisette anni
dopo, l'Italia è così cambiata che molti, specialmente i più
giovani, troveranno tutta la faccenda un po' ridicola.
Un solo cadavere, e forse
solo un pizzico di cocaina, non possono certo impressionare una
generazione che convive con il terrorismo e che calpesta le siringhe
dei drogati passeggiando nei giardini pubblici, eppure, con tutte le
sue meschinità provinciali e il melodrammatico guittismo dei suoi
protagonisti, il «caso Montesi» ha fatto parte della nostra storia,
non della semplice cronaca. Dopo, non solo la DC, ma neanche l'Italia
fu mai più la stessa.
“l'Unità”, 22
ottobre 1980
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