31.7.18

1953, lo scandalo Montesi. Politica e cronaca di un affare democristiano (Arminio Savioli)


Dirà a un certo punto e quasi a mo' di conclusione l'on. Andreotti (martedì prossimo, seconda rete Tv ed ultima puntata del caso Montesi): la vicenda fu un «boccone prelibato di cui si nutrì l'opposizione». Non gli credete. Il boccone non fu prelibato, ma amaro fino al disgusto. E non se ne nutrì l'opposizione. Questa aveva già vinto la battaglia fondamentale del decennio (la memorabile lotta contro la legge-truffa elettorale) quando l'affare esplose in tutto il suo fosco splendore. E dai successivi sviluppi non trasse alcun vantaggio quantificabile e qualificabile in prestigio e in voti. Mentre invece... Ma andiamo per ordine.
Nel ricostruire il «processo del secolo», Franco Biancacci aveva solo l'imbarazzo della scelta. Il materiale a disposizione era enorme. Il «caso» fu infatti tantissime cose insieme: una dolorosa tragedia personale e familiare, un giallo all'italiana, una farsa, uno psico-dramma collettivo, e infine e soprattutto uno scandalo politico classico (di quelli, cioè, che segnano un'epoca). Fu, comunque, così importante da ispirare film, libri, tesi di laurea, nonché il discutibile ma bellissimo saggio di uno dei più noti intellettuali europei, il poeta-filosofo tedesco Hans Magnus Enzensberger, che non a caso Biancacci cita e a cui implicitamente si richiama, pur senza nominarlo.
Per Enzensberger («Politica e gangsterismo », Sa-velli editore, 1979), la verità (l'unica verità accertabile del «caso») è che «l'Italia era preparata a credere a tutto ciò che accusava le classi dirigenti». Il «fatto» non consisteva tanto nella misteriosa morte di Wilma Montesi, quanto nell'esistenza del sotto-governo, cioè di «un governo contro il popolo, un governo invisibile, una sorta di mafia legalizzata, una macabra parodia dello Stato che non è altro che l'organo esecutivo dì persone che restano nell'ombra... L'Annegata (che Enzensberger chiama proprio così, con l'A maiuscola, collocandola nel Pantheon delle Ofelie di tutti i tempi) non era che un'occasione — un'occasione attesa da tanto tempo — per regolare i conti con un ordine sociale di cui alcuni esponenti erano per caso gli imputati di questo processo. Colpevoli? Innocenti? Nel senso dell'accusa che era stata fatta contro di loro, erano certamente innocenti. Erano colpevoli solo perché facevano parte di quelli che l'Italia considerava tali... l'Italia riconobbe il volto dei suoi tiranni e li condannò... ».
Enzensberger ha colto nel segno. Non fu l'opposizione, ma il popolo italiano a impadronirsi del «caso» e a trasformare quello che all'inizio era solo un fatto di cronaca nera in un evento «storico».
Se non ci fossero state le premesse emotive, psicologiche, politiche, che il poeta-filosofo riconosce e segnala, nessun organo dì stampa, scandalistico o autorevole, e nessun diffusore di voci e di calunnie, per quanto potente, avrebbe potuto montare uno «spettacolo» così macchinoso e «venderlo» così bene, e tenerlo sul cartellone per ben quattro anni.

Uno strumento di lotta interna
Ma il «caso Montesi» fu anche un'altra cosa. Esso fu uno degli strumenti e, come si dice, dei «terreni» e «momenti» (il più vistoso, il più plateale, ma ovviamente non il solo) di una lotta interna alla Democrazia cristiana. Esso permise agli esponenti democristiani più giovani, o meno vecchi, di colpire politicamente a morte, attraverso Attilio Piccioni, la cui sola colpa era di essere il padre di un sospetto, tutto l'«establishment» dei notabili cattolici che avevano fondato il partito, sotto altro nome, prima del fascismo, e che lo avevano riorganizzato alla fine della guerra e portato sia alla strepitosa vittoria del 18 aprile 1948, sia alla sconfitta politica e morale del 7 giugno 1953.
Dopo il «caso Montesi» (ed anche a causa del «caso Montesi») la DC non fu mai più quella di prima. Fu migliore? Peggiore? Fu certamente diversa. Forse si può dire che con il «processo del secolo » muore per sempre il Partito popolare e nasce la DC (o una «nuova» DC).
Non esistono le prove che tutta la vicenda sia stata montata in vista di questa «operazione» di «rinnovamento» da questo o quell'ambizioso personaggio del partito di maggioranza. È fuor di dubbio, tuttavia, che la tigre dello scandalo fu cavalcata da alcuni con una tale maestria da strappare gli applausi.
Ecco perché l'on. Andreotti fa torto a se stesso (prima ancora che all'intelligenza del pubblico suo coetaneo) quando «glissa» su responsabilità che egli (non altri) sembra aver evocato di recente esprimendo l'intenzione di riaprire il «dossier», e crede di cavarsela chiamando in causa l'opposizione. Egli sa bene che questa, esclusa dalle varie «stanze dei bottoni», messa al bando e perseguitata, non aveva accesso di prima mano alle informazioni, che erano tutte possedute in esclusiva e utilizzate da chi al vertice lottava, con altri suoi pari, per il potere. Un aspetto straordinario e paradossale del «caso» fu infatti proprio questo: essi fecero (come si dice) «tutto da sé». Si accusarono, si spaventarono, inquinarono testimonianze (forse insignificanti), fecero sparire prove (vere o false), si aggrovigliarono in una rete inestricabile dì bugie, voci e calunnie, da cui infine uscirono, alcuni vincitori, altri sconfitti. L'opposizione ebbe un ruolo marginale nella faccenda, e forse (suo malgrado) fu perfino strumentalizzata da chi audacemente scatenò i diavoli dello scandalo, e sapientemente li pilotò. Ventisette anni dopo, l'Italia è così cambiata che molti, specialmente i più giovani, troveranno tutta la faccenda un po' ridicola.
Un solo cadavere, e forse solo un pizzico di cocaina, non possono certo impressionare una generazione che convive con il terrorismo e che calpesta le siringhe dei drogati passeggiando nei giardini pubblici, eppure, con tutte le sue meschinità provinciali e il melodrammatico guittismo dei suoi protagonisti, il «caso Montesi» ha fatto parte della nostra storia, non della semplice cronaca. Dopo, non solo la DC, ma neanche l'Italia fu mai più la stessa.

“l'Unità”, 22 ottobre 1980

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