Una grande adesione, una
grande partecipazione. Un’Italia vigile, appassionata, che esce
allo scoperto e riempie le piazze materiali e virtuali per dire basta
alla perdita di umanità, all’innalzamento di muri, alla rimozione
della memoria e alla diffusione di menzogne. Per opporsi non alle
paure – che sono un sentimento umano – ma alla loro
strumentalizzazione e degenerazione in cinismo e rancore.
È stata un’esperienza
bella, significativa e per molti versi inaspettata, quella del 7
luglio scorso, ma proprio per questo è importante farne tesoro,
darle continuità. È a questo che mirano le riflessioni che voglio
condividere con Libera e con tutte le realtà – a cui sono
profondamente grato – che hanno aderito al nostro appello.
Riflessioni per sostare, per guardarci dentro e guardare avanti, per
procedere con passo più deciso.
Non possiamo non
occuparci dei poveri
La prima riguarda
un’obiezione che ho sentito fare: Libera si occupa di mafie, che
c’entra con i migranti?
Chi la pensa così non
tiene conto di un fatto a mio avviso fondamentale. La lotta alle
mafie è, nella sua stessa sostanza, lotta per la libertà e la
dignità delle persone. Lotta contro le ingiustizie e le violenze. Lo
abbiamo detto tante volte: se le mafie fossero una realtà solo
criminale, sarebbero sparite da tempo dalla faccia di questa terra.
Ma mafia vuol dire anche corruzione, collusione, appoggio politico e
favore economico. E vuol dire tessuto sociale sfibrato, anemico,
privo dei globuli rossi dell’etica.
Oggi non si può parlare
di mafie, e progettare efficaci azioni di contrasto, senza partire
dalla profonda vicinanza, a volte intreccio, delle logiche mafiose
con quelle di un sistema politico-economico che Papa Francesco ha
definito “ingiusto alla radice”, un sistema che provoca guerre,
ingiustizie, sfruttamento di beni e persone in tante parti del mondo,
e di cui le migrazioni sono un’evidente conseguenza. Ecco perché
Libera – senza perdere la sua specificità, anzi arricchendola –
non può fare a meno di occuparsi di migranti, come non può fare a
meno di occuparsi di povertà (lo ha fatto con il progetto “Miseria
ladra”, continua a farlo con la rete “Numeri pari”) e così di
lavoro, di scuola, di sanità, cioè di quello Stato sociale ridotto
a brandelli da un sistema che ormai non si fa più scrupolo di
affermare che la dignità della persona è una variabile economica,
non un diritto umano, sociale, civile.
Essere una spina
nel fianco del sistema
Seconda riflessione: il
rapporto con la politica. Si è detto e scritto sull’adesione
all’iniziativa di persone o realtà che fanno capo a un partito o
ne sono diretta espressione. Con inevitabile seguito di commenti,
illazioni, polemiche. Ora va precisato che l’appello era rivolto
soprattutto al mondo del sociale e ai cittadini, ma se alcune
espressioni della politica hanno ritenuto di sottoscriverlo, ben
venga: della loro sincerità risponderanno i fatti, la coerenza tra
l’adesione a un testo che parla chiaro e le azioni che ne derivano.
Così come va precisato – non è la prima volta, ma è bene
ribadirlo – che Libera è apartitica: nessuno può affibbiarle
etichette o metterci sopra le proprie insegne. Apartitica ma non
apolitica, se politica significa sentirsi responsabili del bene
comune, fare la propria parte per difenderlo e per promuoverlo, come
ci chiede la Costituzione. È questo che da sempre cerchiamo di fare,
nella convinzione che l’impegno sociale non sia mai neutrale, né
limitato alla sola solidarietà. Accogliere è importante, anzi
fondamentale, ma lo è altrettanto il denunciare le cause
dell’esclusione e operare per eliminarle. Se manca questo aspetto
l’impegno sociale rischia di diventare “delega alla solidarietà”,
perdendo la sua visione, la sua carica propulsiva e innovativa. Non
più spina nel fianco del sistema, ma foglia di fico delle sue
inadempienze. È questo lo spirito e l’etica del nostro rapporto
con la politica – un rapporto schietto, trasparente, esente da
servilismi e secondi fini: piena collaborazione con chi opera per il
bene comune; opposizione e denuncia di chi se ne appropria o lo
trasforma in privilegio.
Non migrazioni ma
deportazioni indotte
Terza riflessione, le
semplificazioni e le falsificazioni. C’è chi ha detto: «Libera e
don Ciotti sono quelli dell’“accogliamoli tutti”». Come c’è
chi ci ha accusato di non occuparci dei problemi di casa nostra, del
dramma di milioni d’italiani relativamente o assolutamente poveri,
costretti a tirare la cinghia, a mangiare nelle mense e a dormire per
strada o nei dormitori. Libera non ha mai detto “accogliamoli
tutti” ed è disonesto chi ci attribuisce queste semplificazioni.
Da sempre sosteniamo che l’immigrazione è un problema enorme e
complesso, che richiede interventi simultanei e su piani diversi. In
estrema sintesi, ne enumero almeno quattro. Primo, riscrivere la
convenzione di Dublino, perché un’Europa non corresponsabile e non
collaborativa è solo un aggregato tecnico di nazioni (vedi le
puntuali osservazioni in allegato di Lorenzo Trucco, presidente
dell’Asgi, associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione).
Secondo, modifiche strutturali, non solo superficiali e cosmetiche,
di un sistema economico che innesca conflitti e produce povertà
dunque migrazioni – chiamiamole deportazioni indotte, visto che
nessuno abbandona casa e affetti se non a causa della fame, della
guerra, della desertificazione e distruzione dell’ambiente. Terzo,
creare le condizioni perché chi vive in Africa e in altre regioni
del mondo che l’Occidente ha sfruttato e colonizzato, possa farlo
in dignità, ovvero in piena autonomia. Quarto, impostare politiche
d’interazione che sappiano coniugare accoglienza e sicurezza,
diritti e legalità, tenendo conto del disagio di milioni di
italiani. L’accoglienza funziona e diventa un fattore di crescita
umana, culturale, economica, laddove si sono create le condizioni per
accogliere, ossia laddove una politica rivolta non al potere
contingente ma al bene comune presente e futuro, si è opposta allo
sfascio dello Stato sociale, alla riduzione o cancellazione dei
servizi, al dilagare della disoccupazione e alla crescita della
dispersione scolastica. Ecco allora che dire “Libera si dimentica
dei poveri e dei bambini di casa nostra”, è falso. La rete “Numeri
pari” è stata concepita, come detto, proprio per rispondere ai
bisogni delle persone, ma più in generale lo stesso impegno contro
le mafie e la corruzione è un impegno contro la povertà, visto che
le mafie – come dicono accreditati studi economici – sono una
delle principali cause di povertà, e tra le loro vittime bisogna
annoverare non solo i morti ammazzati ma anche le centinaia di
migliaia di “morti vivi”, di persone a cui mafiosi e i corrotti
tolgono lavoro, speranza, dignità.
Sovvertire la
dittatura dell’effimero
La quarta e ultima
riflessione riprende la domanda iniziale: come dare continuità
all’iniziativa, come farne tesoro? Il tempo che viviamo è segnato
da una dittatura dell’effimero, da un eterno presente in cui tutto
accade senza lasciare traccia. Conta l’emozione, il clamore, la
polemica del momento, ma poi tutto finisce lì, soppiantato da altre
emozioni, clamori, polemiche. Calato il polverone dell’emergenza,
il paesaggio che si offre ai nostri occhi è sempre lo stesso, solo
più desolante e trascurato. È bene esserne consapevoli se vogliamo
custodire lo spirito con cui abbiamo indossato quelle magliette:
andare oltre la contingenza e l’emergenza. Dirò di più: andare
oltre la commozione e l’indignazione. Oggi non bastano più. Come
non bastano più le parole: in un’epoca in cui se ne abusa
irresponsabilmente, anche quelle autentiche rischiano di essere
sommerse dal chiacchiericcio. Libera sin dall’inizio cerca di
opporsi a questa deriva ormai impressionante. Libera nasce per
impedire che la rabbia e il dolore per le stragi del 1992 non
svanissero col passare del tempo, nasce per trasformare quelle
emozioni in sentimenti e quei sentimenti in consapevolezza,
responsabilità, memoria viva. Ha sempre agito sapendo che non è la
contingenza il banco di prova, ma la coerenza e la determinazione con
cui si compie un cammino. Nella coscienza dei limiti, beninteso:
nessuno è insostituibile, ma nessuno può fare al posto nostro
quello che è nostro compito fare.
Rispondere
all’appello della storia
La coscienza della
responsabilità, personale e collettiva, è l’etica che abbiamo
abbracciato, che abbiamo scritto prima che negli statuti nelle nostre
coscienze. E questo ha sempre significato stare nel tempo, nella
storia che ci è data, senza eludere i suoi appelli e le sue
provocazioni, rispondendo sempre, nei nostri limiti, “ci sono, ci
siamo”: «Delle parole dette mi chiederà conto la storia –
diceva Tonino Bello, instancabile costruttore di pace – ma del
silenzio con cui ho mancato di difendere i deboli dovrò rendere
conto a Dio». Il tempo che oggi ci viene dato è un tempo difficile,
ambiguo, pieno d’insidie e di pericoli, un tempo schiacciato in un
presente senza prospettive, sempre più simile a un vicolo cieco. Lo
dico pensando soprattutto ai giovani – alle migliaia che si
riconoscono in Libera, che ci accordano una fiducia spero ben riposta
e che rappresenta per noi la più alta responsabilità – perché
sono loro le prime vittime di questo presente prigioniero di se
stesso, ostaggio di poteri ingiusti o criminali. Un tempo nel quale
si gioca – ormai credo sia chiaro a molti – una partita di
civiltà. Si, civiltà. Perché quando viene meno il dovere di
soccorso, un dovere che nasce dall’empatia fra gli esseri umani,
dal riconoscerci gli uni e gli altri soggetti a un destino comune,
viene meno il fondamento stesso della civiltà.
La conoscenza è
sempre un atto di amore
Questo tempo ci dice che
dobbiamo ripartire da due cose, umilmente ma tenacemente: le
relazioni e la conoscenza. Sono le strade per crescere in umanità e
in cultura, due strade che abbiamo smesso di percorrere. Partire
dalle relazioni perché la premessa di una società giusta e pacifica
è il mettersi nei panni degli altri, l’andare oltre le relazioni
opportunistiche e d’interesse, il riconoscere l’altro e il
“diverso” come un completamento, un arricchimento della nostra
identità. Dalla cultura, perché un tempo complesso, soggetto a
continue e rapide mutazioni, richiede parole e pensieri che lo
sappiano interpretare, che sappiano orientarci nel suo groviglio, che
sappiano ascoltare le nostre speranze e non solo le nostre paure. Se
manca la cultura prevalgono le approssimazioni, le semplificazioni,
gli slogan, e da lì le manipolazioni, le “bufale”, la
propaganda. L’odio è conseguenza dell’ignoranza, perché si odia
solo ciò che non si conosce, la conoscenza è sempre un atto di
amore. È questo il compito che ci consegna l’iniziativa del 7
luglio. E solo se sapremo prendercene cura quotidianamente, renderlo
spirito che anima i nostri atti e le nostre scelte – come già
stanno facendo tante realtà in ogni parte d’Italia, a cui deve
andare il nostro appoggio, il nostro incoraggiamento, la nostra
gratitudine – potremmo ricordare quella data come un punto di
svolta, l’inizio di una stagione di speranza, di giustizia, di
ritrovata umanità.
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