Dei due era il meno
estroverso. Una specie di umorista inglese, fisicamente molto
somigliante a Stan Laurel. La leggenda diceva che sul set Carlo
Vanzina era concentrato solo sul ritmo delle battute, e
disinteressato alla bellezza dell'immagine. Servo dell'attore comico
come Steno e Mattoli lo erano stati di Totò. Peccato che i comici
delle generazioni più vicine dopo un briciolo di celebrità
decidevano di mettersi in proprio e di diventare registi, disperdendo
quello che poteva essere un modello di commedia originale, solo
nostra, sempre più perfezionata e soprattutto esportabile.
Abituati dal padre
Stefano Vanzina a comprendere da un solo gesto una mutazione epocale
nel costume, figuriamoci come i due ragazzi Carlo e Enrico Vanzina
reagirono di fronte al terremoto biopolitico avvenuto quando erano
ventenni tra il 1968 e il 1978 in Italia. Un “uno-due” traumatico
che, dall'autunno operaio e dalla stagione stragista di stato, ancora
impunita, e dai bonzi che si lasciavano bruciare contro l'aggressione
americana in Vietnam, porterà al lento suicidio della sinistra, dopo
l'assassinio Moro e scorta e l'avventura terroristica "dolce"
dei Weather Underground...
Cautela si richiede
quando la rivoluzione è antropologica, oltre che sociale. Pasolini
aveva avvertito. Combattere gli anni di piombo era stato il compito
della generazione di papà Steno, di Totò, Bava e Vivarelli e
Fulci. Stiamo parlando, con l'eccezione del decennio 1968-1978,
dell'Italia che dai bui anni 50 di Greggi e Scelba arriva fino ad
oggi, del paese che mise al rogo Ultimo tango e stagliuzzò
qualunque film fino alla disastrosa “legge Mammì” e alla
"licenza di annegamento" che un ministro della repubblica
si è placidamente concesso senza venire immediatamente messo alla
porta.
Ma da Di Pietro a Di Maio
il panorama si è complicato maledettamente. Fare commedia significa
essere intransigentemente moralisti. Ma sulla base di quali principi
etico-politici forti? Il prossimo film annunciato dai fratelli
Vanzina per l'autunno 2018, spiegava nel maggio scorso Enrico
Vanzina, è “un divertente riassunto dello sfascio totale, per
mostrare come è comica e farsesca, per certi aspetti, la politica
italiana. Noi abbiamo sempre raccontato la politica, e non è un caso
se il film più preciso su Mani Pulite sia stato S.p.q.r. Duemila
e mezzo anni fa, del 1994”. Le "buche" della sindaca
Raggi già bastano e avanzano come titolo.
Purtroppo però, da oggi,
Carlo Vanzina non c'è più. Dopo Vittorio Taviani. È l'anno delle
coppie di cineasti che si spezzano.
Enrico però sa bene che
lo show business deve andare avanti. E, come scrive Aldo Grasso in
prima pagina del “Corriere della Sera” questa mattina, 8 luglio
2018, proprio il giorno della morte di Carlo, ma ancora senza
saperlo, “ai fratelli Vanzina va riconosciuto il merito di aver
fatto non film nostalgici sul passato, ma film distopici sul futuro”.
Questo essere sempre
avanti sul tempo, più del provocatorio "romanaccio" e di
quel certo sguardo obliquo su Milano e sul Milan, ha reso
indecifrabile al critico colto, ma poco avvezzo alla fantascienza, la
comprensione delle loro commedie. Pensiamo a Morandini e a tutto il
gotha critico italiano, Ghezzi, Giusti, Della Casa, e pochi altri
esclusi. Film che erano invece profezie grottesche di immensa
importanza, raccontate con semplicità, come fossero facezie,
affinché le comprendesse anche l'ultimo della classe III C.
Anche se Spqr
rispetto all'energia da musical che il duo aveva trasmesso ai giovani
anni 80, per esempio con il fondamentale "quartetto di
Abatantuono" (il nostro libro di testo "Grease"),
contagiandoli perché si attivassero, segnava una battuta d'arresto
inquietante e misteriosa. Ai ragazzi storditi degli anni 90 arrivava
la cupa presa d'atto, troppo adulta e consapevole, ci parve, che
neppure Tangentopoli avrebbe mai modificato la decadenza del paese.
Neppure approfittando di
qualche varco che il nuovo codice di procedura penale - credo grazie
al ministro socialista Zagari - apriva per terrorizzare e far
cantare, una volta tanto, invece dei soliti detenuti poveracci,
alcuni papaveri politici, responsabili di appropriazione indebita di
soldi pubblici. Da Craxi a Bossi è stato lo sport più amato dal
Palazzo. Era quasi un invito alla diserzione. Alla fuga. All'esodo
per le giovani generazioni della Pantera, dei centri sociali, della
guerra alla globalizzazione. Forse ci aspettavano anni ancora più
bui di quelli di Craxi e Berlusconi. Avremmo rimpianto la Milano da
bere, come forse perfino la Dc. Sembrava questo il cupo messaggio del
Vanzin Show.
Ma torniamo indietro.
Si diceva, alla fine
degli anni 70, che i fratelli Vanzina rispetto ai comunisti di
Cinecittà, Scola, Monicelli & Co., erano un po' più
democristiani, facevano commedie divertenti e anche un po'
graffianti, ma giocondamente giovaniliste e centriste, senza nemici
precisi da colpire. Insomma film “da parrocchia”. O meglio si
scriveva che proseguivano la tradizione antica del nostro cinema,
post e prefascista, come se il sessantotto non avesse lasciato segni.
Già. Allora un film, senza la presenza di un prete e di un cane da
amare, almeno in qualche sequenza, mai avrebbe sperato di accedere ai
contributi ministeriali elargiti dalle stanze benedette di via della
Ferratella, belli e pronti solo per i prodotti nazionali
catto-cristiani doc. Chi faceva horror, chi faceva porno, chi faceva
Decameroni. Chi faceva ultraviolenza o satira politica veniva
investito in quelle stanze dalla scomunica e dall'anatema. Roba da
pazzi. Altro che rimpiangere Andreotti.
Però l'oratorio evocato
dai fratelli Vanzina, con la presenza fissa del prete giovanilista
scatenato e un po' osé, a cui Christian De Sica-Don Buro-Fra'
Rodolfo da Ceprano renderà perenne omaggio in Vacanze in America
(1984), era già piuttosto strano, da messa rock, un terreno di gioco
più simile a una discoteca per undicenni scatenati che a un campetto
di basket, spudoratamente misto, mai apartheid. Sconcertante. Donne
nello spogliatoio, insomma. Mai visto, e questo molti anni prima di
Espn, il canale sportivo via cavo made in Usa che invia
invariabilmente le reporter nelle docce, dopo ogni Superbowl.
E allora si diceva che i
film dei Vanzina erano un po' liberali, ma non nel senso dei Kennedy,
ma di Malagodi. La metropoli, la fortuna, la lotta, la libera
impresa, la concorrenza, il merito, il sesso stile Samila, il
consumo, il “vogliamo tutto e subito” contro il pauperismo, il
patriarcato, il feudalesimo, la corruzione, la partitocrazia, le
borboniche leggi arcaiche, l'ascesi, l'astinenza e le vecchie idee.
Dentro il quartetto di
Abatantuono, dal 1981 al 193 (I fichissimi, Eccezzziunale
veramente, Viulentemente mai, Il ras del quariere)
o Sapore di Mare e Vacanze di Natale, emergevano i
piaceri cinefili di Carlo Vanzina, i costumi mutanti del paese e dei
referendum vinti sul divorzio e sull'aborto, la controcultura di Re
Nudo e di Fallo! e qualche speranza vera di cambiamento. In meglio.
Esplodevano però, ben al
di là del centrismo conservatore dell'Europa dell'Ovest, le
contraddizioni del socialismo autoritario e burocratico dell'Europa
dell'est che stava diventando pure anti-operaio, dopo le rivolte di
Berlino, Budapest e di Solidarnosc.
In quel momento i Vanzina
sembrarono comprendere meglio di altri i movimenti subcutanei delle
generazioni insorgenti. I sentimenti dominanti cambiavano. Non più
altruismo, solidarietà, generosità, voglia di cambiamento, le
pulsioni interiori delle grandi lotte studentesche e operaie nel
mondo. Dopo la sconfitta, dopo i licenziamenti e i robot in fabbrica,
ecco avanzare la nuova triade: "cinismo, opportunismo e paura",
come scrive il filosofo Paolo Virno in I sentimenti dell'aldiquà.
Senso di marcia invertito. È il detour del riflusso. Marx, Lenin e
Mao venivano sostituiti da Craxi-Berlusconi-Salvini. Eppure i
Vanzina, come Virno, non pensano di arrendersi. Vedevano in questi
sentimenti non solo materiale ghiotto da elaborare in film, ma uno
stimolo al cambiamento della vita. In linea con alcuni cineasti della
new hollywood come Dante, Landis, Zemeckis e Spielberg, che
cominciano a viaggiare a ritroso nel tempo, o molto in avanti, per
scavalcare i tempi bui del presente. Riattivando come antiche,
dimenticate e fertili.
Gli italiani dei Vanzina
non sono simili a quei quarteback dei 49ers nudi di Espn. Certo Raoul
Bova, l'alto Max Tortora e il poli-gender Christian De Sica fanno la
loro figura. Ma il baricentro è più “andreottiano” che moroteo.
Erano vivisezionati a lungo nei loro corpi slabbrati, denti
imprecisi, grasso di troppo, gesticolar maschio, un po' come dei
mostri, i nuovi comici (Boldi, Abatantuono, Pozzetto, Jerry Calà e i
loro maestri come Lino Banfi e Santo Bombolo...), perché fanno
ridere così il grande pubblico. Le donne, scelte da Carlo Vanzina
soprattutto, mai. Modelle. Perfette. Magrissime. More o Bionde. La
figlia di Paolo Ferrari, Isabella, o Carol Alt, leader di una genia
di adorate bellezze straniere algide ma mai idealizzate o messe sul
piedistallo. Ricordate Iside, sulla biga di Spqr? Già
riassume tutto Gola profonda in una replica sola: "No,
Non la faccio la pompa, sulla biga". Utopia di una Italia che
basandosi su quelle diete temperanti avrebbe potuto crescere almeno
moralmente. Imparando il rispetto degli altri. Migliorando il
panorama. Evitando di esibire quel consumismo da minorati fisici che
oggi ammiriamo nella parte tetra del nostro governo e soprattutto
nelle gambe, allargate fino a quasi a sconfinare all'estero, del
nostro ministro degli interni.
Da Antonio Pietrangeli e
da Billy Wilder, i figli di Steno avevano rubato il primo segreto
fondamentale della commedia moderna. I personaggi femminili non sono
lo sfondo insignificante, ma la sostanza stessa della comicità
seria, quella che non si compiace della propria volgarità, anzi la
bacchetta. E fin dentro il dettaglio più microscopico. Pochi
cineasti della loro generazione e di quella immediatamente
precedente, se ne accorsero. Alberto Grifi e Nanni Moretti, per
esempio, fini umoristi. Infatti il nostro cinema politico, quello più
indignato, nel senso di "occhi rossi sul pianeta Italia",
che ci ha restituito la scultura interiore di un popolo, è proprio
concentrato qui, in questo triangolo delle Bermude dell'immaginario
incandescente. Nelle increspature del racconto "incivile",
oltranzista, di cattivo gusto, tra controcultura, satira hard e
satira soft, piuttosto che nel cinema civile di Rosi, Petri e
Damiani. Che poi Moretti riempisse di sacerdoti i film e Grifi no,
non conta. Puntavano a mercati differenti. Ci sono utilitarie e fuori
serie. Artisti che vanno a stagioni e artisti che pensano ai secoli
venturi.
Carlo si occupava del
raccordo tra grande cinema classico hollyoodiano (e Lubitsch e Wilder
in particolare) e bellezze esotiche. Enrico di impreziosire il tutto
di sport e politica (è un giornalista del “Messaggero”, da quasi
trent'anni, oltre che romanziere di grande successo). Il binomio era
perfetto. Speriamo che continui, tanto la sintonia era automatica.
Anzi i loro 60 film e più sono diventati il terreno di saccheggio
del cinema d'autore. Anche se pochi riusciranno a rubarne il segreto
ritmico, fatto di contaminazioni magiche tra calcio, divismo,
frammenti di new Hollywood, cronaca rosa e nera, twitter dei politici
ante litteram, e jingle pubblicità. Hanno davvero gettato alle
ortiche il vecchio immaginario del ventennio Dc. Matteo Garrone
citerà perfino, con sorprendente afflato buonista Un matrimonio
da favola in Dogman (nella sequenza del piccolo cane schiacciato
dal cleptomane distratto Max Tortora). E Sorrentino quando pensa al
film su Berlusconi fa più la parodia delle loro satire, che del
"vero" ex Cavaliere decaduto. Soprattutto dopo la battuta
gridata dopo la festa romana antica super squallor di Non si ruba
in casa dei ladri: "Ah Maronaro, a te la Grande Bellezza ti
fa una pippa!".
Dal sito “Il Ciotta
Silvestri”, domenica 8 luglio 2018
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