Alessandro Natta |
Un paio di settimane dopo
la morte di Alessandro Natta “l'Unità” pubblicò l'ampio
stralcio che qui riprendo di un'intervista di Marcello Rossi,
direttore de “Il Ponte”, l'ultima rilasciata dall'ex segretario
del Pci. L'intervista comparve nella sua forma integrale sul numero
5/2001 della rivista fiorentina, fondata da Piero Calamandrei.
(S.L.L.)
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Marcello Rossi |
Alessandro Natta lo
avevo incontrato, con Piero Belleggia e Roberto Passini, il 24
febbraio di quest'anno a Imperia o, come diceva lui, a One-glia.
Siamo stati insieme tutto il giorno e lui ha parlato, per quanto
affaticato dall'enfisema che l'opprimeva, in continuazione. Ci ha
detto di Oneglia e di Buonarroti, dei giacobini e delle ricerche che
aveva fatto in tal senso; della sua vita in Normale, del suo primo
avvicinarsi alla politica e al Partito comunista; della prigionia e
poi della piena militanza politica. Questo al ristorante, tra una
portata e l'altra, ma lui ha molto più parlato che mangiato. A casa
sua, poi, abbiamo registrato l'intervista. Ci siamo lasciati con il
proposito di reincontrarci per commentare le elezioni politiche: non
c'è stato il tempo. C'eravamo sentiti per telefono ai primi di
maggio, quando gli avevo inviato per posta questa intervista per
avere il suo placet e lui si era rallegrato con me per l'ottimo
lavoro che, mi disse, rifletteva a pieno il suo pensiero. Non gli era
mai capitato, aggiunse, di non dover mettere le mani su
un'intervista. «Non t'immagini -disse - cosa talvolta mi hanno fatto
dire!». Proprio in quella telefonata avevamo riconfermato l'impegno
di incontrarci subito dopo le elezioni. Stavo programmando una nuova
gita a Oneglia, quando la radio ha dato la notizia della sua morte.
(Marcello Rossi)
On. Natta, il
trapasso dal Pci al Pds si poteva fare in altro modo, usando proprio
della specificità del Partito comunista?
Specificità non solo del
Partito comunista, ma italiana. E introduco subito in questa
riflessione sul passato dei comunisti - ma anche dei socialisti e
della sinistra italiana - questo elemento della specificità. Vi sono
state una, due, tre Internazionali, vi sono stati partiti socialisti,
socialdemocratici, comunisti, ma guai a dimenticare che in questo
universo, che intendeva coniugare libertà ed eguaglianza, vi sono
state identità e differenze. Ogni paese, pur partecipando a un
movimento con caratteristiche internazionali, ha avuto una sua
storia. Il Partito socialista italiano, per esempio, non è stato il
Partito socialista francese o il Partito socialdemocratico tedesco.
Non lo è stato nella prima fase - nell'Ottocento - non lo è stato
di fronte a una questione cruciale quale la Prima guerra mondiale.
Voglio dire che proprio di fronte al problema della guerra le
differenze si sono fatte evidenti e sono divenute costitutive delle
identità dei diversi partiti. I due maggiori partiti della
socialdemocrazia europea, quello francese e quello tedesco che sono
crollati - questo è il termine - di fronte alla guerra, hanno
sposato la causa - come si diceva allora - della borghesia del
proprio paese, hanno, cioè, accettato e combattuto la guerra. Ci
sono stati al loro interno i dissidenti, naturalmente, ma la
socialdemocrazia tedesca è andata in larga misura dietro ai governi
tedeschi, e i socialisti francesi si sono schierati dietro i governi
francesi e hanno fatto il possibile e l'impossibile, pur non
riuscendovi, per trascinarsi dietro anche il Partito socialista
italiano.
Così la posizione del
Partito socialista italiano, discutibile quanto si voglia, è stata
una singolarità. Si può anche fare dell'ironia sulla formula di
Lazzari (non di Serrati, che era piu radicale), ma il «non aderire,
non sabotare» rappresentava senza dubbio una singolarità. Il
Partito socialista italiano non era guerrafondaio e ha alzato la
bandiera del neutralismo e del pacifismo; il suo giornale,
"l'Avanti!", proprio in questo periodo e per queste
posizioni del partito è diventato un grande giornale. Vi sono state
quindi delle specificità sulle quali, forse, bisogna ancora oggi
riflettere.
Quando, dopo la guerra,
nasce il movimento suscitato dalla rivoluzione d'Ottobre - che, al di
là del bilancio sul comunismo sovietico, è un fatto epocale che
domina la storia del mondo per quasi un secolo - in quel momento
anche il Partito socialista italiano vive un dramma, ma in modo
italiano. Serrati rivendica, e ritengo giustamente, una propria
autonomia rispetto al partito russo che è vincente. Tutti aderiscono
all'Internazionale, anche Turati: sono tutti d'accordo per una
ripresa, una rinascita, un ricominciamento. Serrati vuole fare questo
nel rispetto di una tradizione e di un'identità. Penso che avesse
ragione. Quando a Livorno non vuole rompere e, di conseguenza, non
vuole cacciare Turati dal partito, fa un ragionamento ineccepibile.
Chi sbaglia è Bordiga, ma Bordiga, che non obbediva a Lenin - come
qualcuno potrebbe pensare - era uno che aveva una testa quadrata e
ragionava di testa sua.
Tornando al
presente, o al passato prossimo, si può affermare che l'operazione
della Bolognina non abbia tenuto conto di questa specificità
italiana e confuso il comunismo italiano col comunismo sovietico? Che
sia stato, in altre parole, un errore di cultura?
Secondo me, sì.
Evidentemente Occhetto non ha ripercorso con una visione storica il
nostro passato o non ha vissuto bene la nostra storia, che è stato
un tragitto difficile e travagliato, certo, ma non costellato solo di
errori. C'è chi dice: «nel '21 avete sbagliato». Si può essere
d'accordo, ma nel '45? Abbiamo sempre sbagliato? E come è possibile
che un partito, sbagliando sempre, riesca a costruire la forza che
abbiamo costruito e a essere un cardine della politica italiana,
nazionale e internazionale?
Un partito che ha
dato il maggior apporto, insieme al Partito d'Azione, alla Resistenza
e che, combattendo il fascismo, ha ripristinato in Italia la libertà.
Appunto. Che siamo stati
la forza più ostinata contro il fascismo, spero che non ci sarà
negato. È vero che qualcuno cerca di far credere che Gramsci sia
morto in prigione per volere di Togliatti e non di Mussolini, ma
queste sono amenità. Sta di fatto che l'apporto del Partito
comunista alla Resistenza non si può né negare né cancellare. E
che questo Partito comunista, uscito dalla lotta di Liberazione, sia
stato un cardine della costruzione del regime democratico in Italia
ri-mane un dato di fatto.
Si può dire che,
in questo senso, il Partito comunista in Italia è stato quello che
in Europa era la socialdemocrazia?
Su ciò non ho alcun
dubbio. Quando sono stato segretario del partito, e per ragioni
politiche sono andato in giro per il mondo, ho visitato anche i
grandi paesi socialdemocratici, dalla Svezia alla Finlandia. E ho
sempre detto: «Questo nostro partito comunista è un animale
singolare. È, come diceva Togliatti, una giraffa». Non una giraffa
rispetto agli altri partiti italiani - chi pensa questo fa finta di
non capire il pensiero di Togliatti -, ma una giraffa rispetto agli
altri partiti comunisti. Anche nel panorama della stampa comunista è
difficile trovare una rivista come "Rinascita".
A mio avviso, è quindi
addirittura evidente che in Italia noi siamo stati la forza
socialdemocratica più consistente, con le idee più chiare, con la
capacità di lotta maggiore.
E Saragat? E il
partito socialista?
Saragat, per quanto
ritengo che fosse un uomo in buona fede e di grande intelligenza, non
è mai riuscito a costruire qualcosa che avesse l'aspetto, la
consistenza, il richiamo di un partito vero. Quando, dopo il '56,
siamo arrivati alla crisi dei rapporti dell'unità a sinistra, i
socialisti hanno provato a creare in modo consistente, serio, una
forza di carattere socialdemocratico attraverso l'intesa tra il Psi e
il Psdi. Nenni e Saragat hanno avviato l'esperienza del
centrosinistra e Togliatti con intelligenza disse: «Volete sfidarci?
Accettiamo la sfida». E l'idea che era alla base del centrosinistra
- non dimentichiamolo - aveva un duplice scopo: fare un'intesa con la
Democrazia cristiana per diventare alternativi a questa e, nel
contempo, lanciare in Italia una grande forza socialdemocratica per
tagliare l'erba sotto i piedi al Partito comunista. Togliere ai
comunisti l'egemonia nella classe operaia, togliere alla Democrazia
cristiana il governo del paese. Progetto politicamente perfetto, che
però non è andato in porto. Bisogna chiedersi il perché, ma sul
serio, non con delle battute, non portando in campo Stalin e l'Unione
Sovietica.
Dunque, perché il
centrosinistra, con un progetto che doveva essere riformatore, un
riformismo al quale noi comunisti mai abbiamo messo i bastoni fra le
ruote, alle elezioni del '63 non ottenne i consensi che sperava e
addirittura andammo avanti noi comunisti? Forse la gente aveva capito
che eravamo noi a mirare a una soluzione socialista in termini di
gradualismo e riformismo. Non abbiamo perso la testa neppure
all'indomani della Liberazione, quando perfino qualcuno dei nostri
amici e alleati più cari - alludo a quel grande maestro che fu
Calamandrei - ci rimproverava di non aver saputo fare la rivoluzione.
E anche oggi, se si legge Bocca, che è il rappresentante più tipico
e piu onesto fra i giornalisti che derivano dall'azionismo, questo
rimprovero torna.
Togliatti sapeva
della divisione di Yalta.
Tutto il mondo sapeva che
qui c'era l'esercito anglo-americano, e bisogna riconoscere a
Togliatti il merito di avere avuto gli occhi aperti e di essersi reso
conto che in Italia, con la presenza degli alleati, una rivoluzione
era impossibile. Ma non è solo questo, perché Togliatti e il
partito comunista avevano alle spalle un'elaborazione che veniva
dall'esperienza delle sconfitte dell'Internazionale comunista. Ciò
troppo spesso viene dimenticato.(...) Togliatti, che è un realista,
non fa gli errori dei poveri comunisti greci, non dà la testa contro
il muro. Sa, e continuerà a saperlo, che l'Unione Sovietica non
avrebbe certo fatto una guerra per i comunisti italiani. Lo sa e si
muove di conseguenza. Ma, al di là di questo, che è realismo e buon
senso, c'è l'intelligenza di chi ha vissuto già una storia
drammatica, tragica; di chi sa anche che cos'è l'Unione Sovietica, e
per questo ricerca un proprio nucleo fondamentale di idee, staccato
dall'Unione Sovietica, nucleo che è quello dell'unità della
sinistra, del movimento operaio. Si delinea cosi il partito nuovo di
Togliatti: un partito in cui possono stare sia i comunisti sia i
socialisti.
Anche questo è qualcosa
che molti fingono di non aver mai capito, ma il partito nuovo di
Togliatti, che non piace a tutti i comunisti - non piace a Secchia,
per esempio - è la novità su cui si dipana la storia del partito
dal '45 all'89.
E la Bolognina ha
tradito questa storia?
Sì, l'ha tradita, perché
se un segretario non tiene conto di questa storia non tanto innova
quanto stravolge. Del resto, Occhetto è arrivato ad avere nel
partito una funzione importante quasi per caso. Berlinguer non lo
voleva nella segreteria - e aveva ragione lui e torto io - perché
riteneva che fosse un propagandista da strapazzo, uno che inventava
dei begli slogan e niente più, ma con gli slogan, belli o brutti che
siano, non si fa una politica seria, si fanno solo delle
improvvisazioni.
Allora la Bolognina
non è stata una critica all'Unione Sovietica.
Assolutamente no. Noi
siamo stati la forza socialista, socialdemocratica - chiamiamola come
si vuole - di maggior rilievo in Italia, siamo diventati via via più
forti per questo, e abbiamo assunto, cosa ancora più straordinaria,
una forza e un prestigio internazionali sfidando i comunisti russi.
Anche questo è un capitolo che molti fingono di non sapere. Certo,
noi non abbiamo mai fatto sceneggiate alla Occhetto. Berlinguer non è
mai uscito sul balcone di Botteghe Oscure per dire che avevamo
dichiarato «guerra» all'Unione Sovietica! Eppure poteva farlo! Al
congresso dei comunisti russi sostenne che la democrazia è un valore
universale. E anche questo non era una novità, perché già
Togliatti aveva scritto in quella sorta di promemoria, di testamento,
che non ci può essere socialismo senza libertà - e lo diceva a
Krusciov, poveretto, che, tra l'altro, stava perdendo il posto.
Dunque, il Partito
comunista italiano è stato questo. A un certo punto abbiamo «rotto»,
ma «rotto» cosa vuol dire? Mica abbiamo ritirato gli ambasciatori!
Abbiamo detto che la politica dell'Unione Sovietica era sbagliata:
era sbagliata in Afganistan, dove si è fatta una politica
imperialistica, era sbagliata in Polonia. Abbiamo messo i sovietici
alle corde e loro hanno hanno sostenuto che il socialismo reale era
quello sovietico, mentre noi avevamo solo delle fantasie.
Ecco perché con
Berlinguer abbiamo «inventato» l'eurocomunismo. L'abbiamo inventato
con le forze che avevamo. Non potevamo far scendere in terra Marx o
un qualche altro filosofo. Con le forze che avevamo abbiamo costruito
una serie di iniziative politiche tali che i dirigenti sovietici sono
stati costretti a sostenere che il socialismo reale era il loro e che
noi fantasticavamo. Ma queste nostre «fantasie» ci hanno dato nel
mondo un grande credito: abbiamo ripreso i rapporti con la Cina. E
questo non perché ci piacesse il comunismo cinese, ma perché
ritenevamo - e io lo ritengo ancora oggi - che anche con un partito
come quello cinese bisognava avere dei rapporti.
Quando, morto Berlinguer,
è venuto fuori il tentativo estremo, disperato, di Gorbaciov di
cambiare le cose, noi abbiamo cercato di dargli una mano. Io sono
stato criticato di essere stato troppo tiepido, di non aver dato
aiuto sufficiente a Gorbaciov, ma avevo capito che Gorbaciov non ce
la faceva. Ma non entriamo in questo problema.
Per tornare allo
«strappo», ritengo che noi dovessimo continuare, con più energia
se si vuole, la strada che avevamo intrapreso, una strada che, certo,
ci portava sempre piu lontano dai tentativi dell'Unione Sovietica.
Nel 1989 abbiamo fatto un
congresso. Io non ero più segretario, ma da persona per bene non me
ne sono andato subito. Mi son detto: obbedisco alla regola dei frati
francescani secondo cui, quando uno non è più priore, ritorna a
fare il frate semplice. Segretario era Occhetto, che proveniva dalla
sinistra del partito. Quando io, alla fine dell'87, decisi di
proporlo come vice, indicando quindi una prospettiva, spaccai in due
il comitato centrale perché Occhetto era gradito a Ingrao, ma era
osteggiato da Napolitano e da tutti i «miglioristi» e i
«riformisti».
Dunque, nel
gennaio-febbraio dell'89 io ho aperto il XVIII congresso del Pci e
Occhetto ha fatto una relazione tutta quanta fondata sull'idea che
bisognava fare un partito nuovo, aprire un nuovo corso - il «nuovo»
era speso a manciate nei suoi discorsi. L'unica cosa sulla quale,
secondo lui, il nuovo non andava era il nome del partito: fece una
tale difesa del nome che, quando alla fine della relazione mi si
avvicinò e mi chiese com'era andata, io gli dissi: «è andata bene,
ma sul nome potevi esagerare un po' meno».
Oggi mi viene da
sorridere perché, al di là del nome, avevamo problemi molto più
importanti da risolvere: i problemi della nostra collocazione e della
nostra funzione. Non eravamo degli sprovveduti e sapevamo che, per
andare avanti con l'intelligenza necessaria, era ormai difficile
continuare a stare in gruppo con altri partiti comunisti. Sapevamo
bene, nell'89, anche prima della caduta del Muro, che dovevamo
organizzarci un po' diversamente. All'indomani delle elezioni abbiamo
fatto una riunione della direzione in cui abbiamo discusso di questo
problema e io ho detto: «Non c'è dissidio fra di noi sul fatto che
il nostro approdo è al gruppo socialdemocratico europeo. Solo che
dobbiamo prima risolvere alcune questioni. Per esempio, non possiamo
approdare al gruppo socialdemocratico con l'atteggiamento dei
questuanti o magari perché ci siamo rivolti a Craxi».
Non ho mai avuto dubbi
sul fatto che dovessimo affrontare un cambiamento e che la cosa non
fosse un problema da poco. Il Muro di Berlino, l'Unione Sovietica,
Gorbaciov, un crollo ormai annunciato, erano tutte realtà che
pesavano; solo che questo cambiamento avremmo dovuto farlo con più
intelligenza e anche con più serietà, non partendo dalla questione
meno importante, cioè dal nome e dall'inno. Se canti Bandiera
rossa non credo sia un delitto. Ho mandato gli auguri a Ingrao
per la fine e l'inizio di quest'anno divertendomi un po'. Gli ho
scritto: «Caro Pietro, non pensi che sia venuto il momento di levare
il vecchio grido "avanti popolo alla riscossa"? anzi, forse
è meglio "aux armes, citoyens"!».
Non sono cose
importanti, ma quando sono andati a scegliere il nome hanno scelto il
peggiore possibile. Si sono dimenticati di mettere un minimo di
accenno al socialismo: Partito democratico della sinistra non
significa niente.
Niente, sono d'accordo.
Ma tutto è stato giocato così in fretta da non permettere una
riflessione seria. Ammesso, e non concesso, che come segretario del
partito Occhetto ritenesse di non dover sentire il parere di nessuno,
di due persone però doveva almeno sentirlo: uno era il suo amico
Ingrao, che in quel momento era in Spagna; l'altro ero io, che ero
anche presidente del Comitato centrale e quindi avevo anche un
incarico istituzionale.
Noi non ne sapevamo
niente e lui fa la sua uscita alla Bolognina. Il giorno dopo ritorna
a Roma e viene nel mio ufficio a Botteghe Oscure. Gli dico: «Guarda
che hai fatto una stupidaggine, ora dobbiamo andare in direzione e
devi smentire». Risponde: «Ma allora devo dimettermi». Gli
replico: «Certo, ormai abbiamo superato la sacralità che uno si
dimette quando muore». Ma poi, non si può procedere nel cambiamento
solo abbandonando un nome, che oltretutto era un nome onorato. I
comunisti nella storia italiana -prima e dopo la Liberazione - sono
stati uccisi e non hanno ucciso nessuno. Allora, se si parla di
mostruosità, di crimini di cui dobbiamo pentirci, dico che questi
crimini non sono nostri, ma di altri. Se poi si parla di linea,
ricordo che al Congresso dell'86, a Firenze, ho detto, forse troppo
timidamente, che il nostro partito era parte integrante della
sinistra europea. Su questa linea ci dovevamo muovere, ma con un
progetto serio.
Se invece ci si lascia
andare alle idee del primo venuto si finisce per dire che il
comunismo, anche il nostro, è stato un disastro e non resta che
diventare socialdemocratici. Ma poi socialdemocratici come? Perché
gli anni ottanta hanno rappresentato l'affermazione di un nuovo
capitalismo aggressivo, forte, che ha dimostrato di avere delle carte
da giocare, e sono stati anni di sofferenza, di debolezza, non voglio
dire di ritirata, però d'inadeguatezza anche della socialdemocrazia.
Allora, o si riesce a impostare quello che avevamo detto con
Berlinguer, cioè la ricerca di una terza via, di nuove soluzioni, di
un ripensamento anche delle esperienze socialdemocratiche, oppure ci
si trova in balia del primo che esce, che ti dice che ti devi
pentire. E i nuovi dirigenti del partito con questa loro idea del
«pentirsi», in definitiva con questo loro complesso di inferiorità,
hanno fatto delle scelte disastrose in campo politico-istituzionale.
Nel '90, nell'ultimo congresso in cui ho parlato (ho parlato anche
nel '91 ma solo per portare un saluto) li ho messi in guardia. Ho
detto: «Non andate dietro a questo Segni. Il padre era un
reazionario convinto, ma forte, questi è un reazionario debole e
politicamente inconsistente. Non andate dietro ai referendum, al
collegio uninominale. L'Italia ha già sperimentato la vicenda del
collegio uninominale». Ma anche in questo i nostri dirigenti non
sanno la storia e ci hanno riportato alle origini del partito
socialista, quando Menotti Serrati voleva che il partito non fosse
del candidato del collegio.
Cosa prevedi? Come
si può ricostruire una sinistra?
Ritengo che le chances
e le possibilità vi siano sempre, anche se sono stati fatti errori
tali che sembrano rivelare un sorta di cupio dissolvi. Ritengo
che il problema del socialismo e della sinistra si riproponga in
pieno, in Italia e non solo in Italia, perché siamo di fronte a una
realtà che non è accettabile e quando una realtà non è
accettabile, gli uomini qualcosa inventano. Intendiamoci, io parto
dalla consapevolezza che stiamo vivendo un'esperienza da
privilegiati. Non sono uno di quelli che dicono: siamo sempre allo
stesso punto. Guardando l'economia, constato che siamo lontanissimi
da quello che era l'Italia nel '45, nel '50 o nel '60. Siamo oggi a
un livello alto, anzi, sproporzionato, rispetto al resto del mondo. E
qui si pone quel problema dello squilibrio delle condizioni dei
popoli che negli anni settanta Berlinguer aveva cercato di risolvere
con il concetto di austerità. Oggi questo problema è diventato
ancora piu acuto.
Nessuno ha in tasca la
ricetta magica, ma secondo me le idee guida sono ancora quelle che
hanno caratterizzato la «modernità». Sono le idee della libertà,
della giustizia, dell'uguaglianza. Bisogna ripartire dalle idee che
sono state a fondamento del movimento operaio. Qualcuno dice: non ci
sono più gli operai. Sarà anche così, ma le disparità sociali
esistono ancora e vi sono i ricchi e vi sono i poveri. E io continuo
a pensare che la molla dello sviluppo risieda nella disparità fra le
classi e nella conseguente lotta fra le classi.
Un Marx necessario,
ma non sufficiente?
Appunto, ma non credo che
questo si possa ottenere mercanteggiando qualche posto in parlamento
in più o in meno. Purtroppo la frammentazione di questa sinistra è
tale che oggi è difficile prevedere uno sviluppo del pensiero
marxista. Io sono uno che ha sognato, anche nei momenti piu
difficili, l'unità delle forze della sinistra. Qualcuno che non mi
conosce bene ogni tanto mi dice: «ma tu hai cacciato dal partito
quelli del "Manifesto"». Sì, ma li ho anche ripresi.
(...) In conclusione,
voglio sottolineare questo: abbiamo avuto mille difetti, certo, il
punto difficile per noi è stato il rapporto con l'Unione Sovietica,
ma abbiamo avuto sempre un'idea unitaria della sinistra e non
meritavamo di finire in mano a questi dirigenti che hanno distrutto
il partito senza ricostruire nulla di significativo. Si apre un
futuro oscuro. Speriamo solo che non duri molto.
“l'Unità”, 10 giugno
2001
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