Era il 146 a.C. Cartagine stava per essere distrutta. Scipione Emiliano, che aveva nello storico greco un maestro fidato, prese allora la destra di Polibio e disse: “E’ un grande momento, ma, non so come, ho la terribile impressione che un giorno qualcun altro darà questo stesso ordine riguardo alla mia patria” (Polibio, Storie, XXXIX 5, 3). Appiano, riassumendo due secoli dopo lo stesso Polibio, raccontò poi che Scipione era scoppiato in lacrime davanti alla distruzione di Cartagine e aveva ricordato che la stessa sorte aveva colpito Ilio e gli imperi di Assiria, Media e Persia. Per Polibio non si poteva sfuggire all’“anaciclosi”, vale a dire all’evoluzione che comportava il degenerare di tutti gli ordinamenti. Si aveva infatti a che fare con un fenomeno cosmico, con una visione ciclica della storia e con la successione necessaria, per tutti gli organismi, di nascita, crescita, decadenza e morte. Le lacrime anticipatrici di Scipione non sembrarono del resto essere state versate invano. Il declino del futuro dell’impero romano divenne infatti, a partire già dal secondo secolo dopo Cristo, un problema ritenuto sempre di immenso rilievo sotto il profilo storiografico, filosofico, etnosociale, economico-strutturale e teologico. E’ anzi forse stato, fino a quando si è presentata la Rivoluzione francese, che gli ha fatto una bella concorrenza, il problema storiografico per eccellenza. Si erano infatti manifestati un semplice declino politico ed economico o lafine di una civiltà, addirittura di un tempo storico? O anche il declino di un certo tipo d’uomo, di un modo di produzione, di un’omogeneità razziale? O il segno della presenza, o dell’assenza, di Dio nella storia? Su tutti questi interrogativi, e sul loro riprodursi nei secoli, resta ancora utilissimo l’agile e straordinario libretto di Santo Mazzarino, La fine del mondo antico (Garzanti, 1959).
Pur affondando le proprie radici nella concezione degli antichi e nella catastrofe di Roma (ragione di angoscia retrospettiva per gli stessi cristiani, che pure furono i protagonisti della civiltà nata sulla cenere dell’impero), il termine “decadenza” comparve solo nel latino medievale. E nel 1413 in francese. Significò il passeggio da uno stato ad un altro inferiore. La concezione lineare della storia dei cristiani non riuscì tuttavia, neppure quando si secolarizzò nell’idea di progresso con gli illuministi e i positivisti, a eliminare del tutto la morfologia clinica della decadenza. Il concetto fu presente a Machiavelli. Ma, soprattutto i Montesquieu (si vedano le Considérations sur les causes de la grandeur des romains et de leur décadence, 1734), in Voltaire (l’Essai sur les moeurs, 1756) e in Gibbon (che preferì nel 1776 il termine decline). Per Montesquieu e Gibbon la cause della decadenza di Roma furono endogene (le eccessive ingovernabili dimensioni).Per Voltaire esogene (il cristianesimo e i barbari). Il concetto riemerse poi con Burckardt, con Nietzsche, con il temuto prevalere della civilizzazione sulla civiltà, con Spengler e il tramonto inevitabile della terra della sera (l’Occidente). Antidoti, di per sé non duraturi, contro la decadenza – estetizzata con il decadentismo – vennero proposti da Bergson, Freud, Simmell, Mann, Schmitt, Evola. La letteratura del Kulturpessimismus parve però venir meno nel 1945.
Ora davanti al risveglio aggressivo dell’islam (e alla globalizzazione che lo diffonde), si riaffaccia lo spettro della decadenza. E si suggerisce, per contrastarlo, il culto pagano di Marte rafforzato da un de spiritualizzato cristianesimo combattente. La fine della storia di Fukuyama si ribalta dodici anni dopo nel timore di una decadenza dell’impero americano (anch’esso troppo ampio?) e, per l’ennesima volta, di un Occidente ormai indefinibile.
Nota
Questo testo, densissimo, fu pubblicato da “L’Indice” di gennaio 2005 come “lemma” della rubrica Babele. Osservatorio sulla proliferazione semantica. Dopo gli anni della crisi finanziaria ed economica meriterebbe un arricchimento.
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