“La più grande disgrazia di un uomo di lettere non è quella di essere oggetto dell’invidia dei suoi colleghi, vittima degli intrighi, disprezzato dai potenti; ma di essere giudicato dagli imbecilli. Gli imbecilli qualche volta superano ogni misura: soprattutto quando il fanatismo si unisce alla stupidità, e il gusto della vendetta al fanatismo. E un’altra grande sventura dell’uomo di lettere è, di solito, quella di non avere alcun appoggio”.
Questo giudizio di Voltaire, che per me è sperimentata verità, confesso che con l’andare degli anni ha quasi il potere – come dice uno scrittore napoletano a proposito degli influssi jettatori dei suoi colleghi – “di fermarmi la penna in mano”. Perché è inutile che diciate, con la chiarezza che gli intelligenti vi riconoscono, cose sensate ed oneste, che s’appartengono ai “destini generali” (e quindi anche a quelli degli imbecilli): gli imbecilli, e gli imbecilli fanatici, stanno lì, pronti a intendere o a farvi dire il contrario. Vi hanno già catalogato e sistemato, non potete sfuggire al pregiudizio; se poi vi attentate ad usare l’ironia siete del tutto perduti: le figure dell’ironia sono, per gli sciocchi di casa nostra, del tutto incomprensibili (e questa è forse la ragione stessa per cui I promessi sposi, libro da tutti gli italiani difeso come una bandiera, è in effetti uno dei libri più detestati della nostra storia letteraria).
Ma la parte più interessante del giudizio di Voltaire è quella che mette l’accento sulla mancanza di appoggi: l’uomo di lettere, dice, “è un po’ come i pesci volanti: se si innalza un poco, gli uccelli lo divorano; se si immerge sott’acqua, se lo mangiano i pesci”. Bellissima condizione, anche se tremenda. Ma quanti sono oggi, in Italia, gli uomini di lettere disposti ad accettarla e viverla?
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