Nel 1987, in occasione del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, una rivista specializzata, “Il giudice”, intervistò Leonardo Sciascia che diede, tra le altre, questa risposta. Mi pare che Sciascia si mostri capace di uscire dalle strettoie delle polemiche contingenti e di offrire un contributo al dibattito sulla giustizia sostanzioso e tuttora utile. (S.L.L.)
“Un giovane esce dall’Università con una laurea in giurisprudenza, senza alcuna pratica forense e con poca esperienza, direbbe Manzoni, del “cuore umano”, si presenta ad un concorso; lo supera svolgendo temi inerenti astrattamente al diritto e rispondendo a dei quesiti ugualmente astratti: e da quel momento entra nella sfera di un potere assolutamente indipendente da ogni altro: un potere che non somiglia a nessun altro che sia possibile conseguire attraverso un corso di studi di uguale durata, attraverso una uguale intelligenza e diligenza di studio, attraverso un concorso superato con uguale quantità di conoscenza dottrinaria e con uguale fatica.
Ne viene il problema che un tale potere – il potere di giudicare i propri simili – non può e non deve essere vissuto come potere. Per quanto possa apparire paradossale, la scelta della professione di giudicare dovrebbe avere radice nella ripugnanza a giudicare, nel precetto di non giudicare: dovrebbe cioè consistere nell’accedere al giudicare come ad una dolorosa necessità, nell’assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio.
Sappiamo, purtroppo, che non da questo sentimento e intendimento i più sono chiamati, vorremmo dire vocati, a scegliere la professione del giudicare. Tanti altri sono gli incentivi, e specialmente in un paese come il nostro. Ma il più pericoloso di tutti è il vagheggiare – e poi il praticare – il grande potere che la nostra società ha conferito al giudice come potere fine a se stesso o come potere finalizzato ad altro che non sia, caso per caso, quello della giustizia secondo legge, secondo lo spirito e la lettera della legge: spirito – si vorrebbe – mai disgiunto dalla lettera. E l’innegabile crisi in cui versa in Italia l’amministrazione della giustizia (e crisi è forse parola troppo leggera) deriva principalmente dal fatto che una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto a estrovertirlo, ad esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano, l’arbitrio. Quando i giudici godono il proprio potere invece di soffrirlo, la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli. E siamo a questo punto. Ma non che il referendum sulla responsabilità dei giudici possa risolvere il problema, anche se può apporvi qualche rimedio: il problema vero, assoluto, è di coscienza, è di “religione”.
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