Solunto, Hotel Zagarella, 1963. Dall'alto in basso sono
riconoscibili Gaia Servadio, Edoardo Sanguineti, Alberto Arbasino.
L’Hotel Zagarella di Solunto, non lontano dall’Aspra, sulle coste del Palermitano ha una triste fama. I cugini Salvo, che ne furono proprietari, vi ospitarono illustri latitanti di mafia e, forse, vi incontrarono anche Andreotti. Senza queste presenze, inquietanti, l’albergo poteva forse godere di una diversa, positiva, rinomanza. Per esempio ci trascorsi anch’io qualche ora, con Carmela, per il pranzo nuziale di Giovanni Intorre, il 12 settembre del 1970. Ma la sua maggiore gloria dovrebbe essere quella di aver ospitato tra il 3 e il 6 ottobre 1963 un convegno di giovani scrittori che proprio in quella sede decisero di chiamarsi “Gruppo 63”, animati da uno spirito di gruppo e da un’ansia di intervento che ricordava le avanguardie protonovecentesche.
Chi erano? Riferimento teorico del gruppo era il critico Luciano Anceschi, direttore della rivista milanese “Il Verri”, l’organo semiufficiale del movimento. Fra gli scrittori c’erano Alberto Arbasino, Nanni Balestrini, Renato Barilli, Gianni Celati, Fausto Curi, Umberto Eco, Enrico Filippini, Alfredo Giuliani, Angelo Guglielmi, Giorgio Manganelli, Elio Pagliarani, Antonio Porta, Edoardo Sanguineti. L’età media non superava i trent’anni. Fra gli organizzatori ebbe un ruolo importante l’editore Feltrinelli, ma non mancarono apporti finanziari di vari assessorati siculi (“L’Espresso” parlò di ben 18 milioni): Eco esercitò la sua ironia ed autoironia parlando di “un’avanguardia che viaggia in vagone letto”. Primo nucleo del gruppo erano stati, due o tre anni prima, i cosiddetti poeti “novissimi” (Sanguineti, Giuliani, Pagliarani).
Il gruppo riprendeva tematiche vittoriniane, dal “Politecnico” e dal “Menabò”, in primo luogo l’esigenza di una letteratura non consolatoria, impegnata a conoscere il mondo e socialmente attiva, ma le integrava con nuovi principi ed interessi: la considerazione dell’opera d’arte come oggetto di consumo, della creatività come frutto di un lavoro di équipe, dell’opera “aperta” come luogo di scambio fra produttore e fruitore della letteratura. Sullo sfondo era il rapporto con il cosiddetto “neocapitalismo”, con il suo consumismo e i suoi specifici processi di massificazione e integrazione, attraverso i media e la pubblicità.
Del neocapitalismo gli scrittori del gruppo 63 pensavano di poter utilizzare le tecniche più sofisticate, pur contrastando i rapporti di potere che lo caratterizzavano: “dentro e contro”, secondo lo slogan poi usato da Mario Tronti per proporre agli intellettuali “operaisti” l’uso di classe dei partiti di sinistra.
Del neocapitalismo gli scrittori del gruppo 63 pensavano di poter utilizzare le tecniche più sofisticate, pur contrastando i rapporti di potere che lo caratterizzavano: “dentro e contro”, secondo lo slogan poi usato da Mario Tronti per proporre agli intellettuali “operaisti” l’uso di classe dei partiti di sinistra.
L’operaismo dei “Quaderni rossi” e di “Classe operaia” e il neoavanguardismo del “Gruppo 63” erano, ovviamente, cose assai diverse, anche per i terreni d’intervento (da una parte la fabbrica, dall’altra le "belle" lettere), ma c’era più di una analogia nel tipo di approccio che si tendeva a stabilire con le modificazioni tecnologiche e produttive. L’una e l’altra esperienza vengono giustamente indicate tra le matrici del Sessantotto. Nel caso del gruppo 63 fu una sua propaggine, la rivista “Quindici”, a pubblicare i materiali della prima occupazione di Università nel fatidico anno, quella iniziata già nel '67, lunghissima, di Palazzo Campana, sede delle Facoltà umanistiche a Torino.
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