La trottola di legno in altri paesi la chiamano strummula o firrialoru e, a quanto leggo, in continente la chiamavano “ruzzola”, ma da noi era proprio trottola, tuortula per l’esattezza.
Era un pezzo di legno a forma di pera rotondeggiante, da cui, in luogo del peduncolo, sporgeva una sorta di grosso chiodo con la punta arrotondata, in ferro o in acciaio, lu pizzu. Ce n’era qualcuna a forma di mela, quasi sferica: era la tuortula a pallinu, o, più semplicemente, pallinu; ma si manovrava con più difficoltà e possederla era segno d’eccentricità, di sgricchiu.
La si faceva girare, lanciandola dall’alto in basso e, nello stesso tempo, svolgendo rapidamente lo spago che l’avvolgeva, lu lazzu. Qualcuno le lanciava in orizzontale, perché il loro moto rotatorio, sebbene meno lungo, fosse più regolare e controllabile, ma era preso in giro, si diceva che le lanciasse a la fimminina.
In paese le trottole migliori le produceva un carruzzieri d’opra grossa, vale a dire un carradore, tal Orlando, che le faceva sul momento, forse per concedersi una pausa dall’usato lavoro, e sembrava provasse gioia nel consegnare al ragazzino un prodotto ben fatto. Le si trovava anche da un certo Cavittuni, che era prevalentemente curdaru, cioè rivenditore di corde e liami (legàmi). Da lui era obbligatorio comprare lo spago, ma nel suo negozio sporco, disordinato, pieno delle cose più incredibili come gli spacci dei film western, le trottole si trovavano sempre, anche quando Orlando, pressato da altri lavori, non aveva il tempo o la voglia di fare una tuortula apposta per te.
Le ruzzole non riuscivano tutte uguali: ognuna, in base alle sue caratteristiche tecniche e, probabilmente, anche all’uso iniziale, aveva le sue prerogative, buone o cattive che fossero per il gioco che si faceva.
Esso prevedeva non solo che esse girassero sulle irregolari pavimentazioni o sullo sterrato di stradine (vaneddri) e cortili, ma che, senza fermarsi e cadere giù, si facessero condurre qua o là con lo spago, e che si facessero prendere sul palmo della mano e deporre nel luogo più conveniente senza smettere di roteare.
La trottola che si mostrava versatile e disponibile era una ‘ngiangiola, quella che si muoveva disordinatamente senza una regola era stracquera, quella che saltellava era ballarina; quella che sulla mano girava leggera era una frinnula, quella che, all’opposto, faceva sentire il suo peso, era gravusa.
Il gioco cominciava con una conta o con un toccu, per individuare chi era sutta (sotto), costretto a deporre il suo prezioso giocattolo in una piccola conca. Gli altri, a turno, facevano roteare la propria trottola, cercando di farle toccare quella che stava sotto, possibilmente spingendola verso una linea ideale ove si concludeva il gioco. Per sua fortuna non sempre chi stava “sotto” all’inizio vi restava fino alla fine: succedeva che a qualcuno la trottola non partisse, non girasse bene, si fermasse in un buco o in una fessura (ammurrava), che comunque non riuscisse ad urtare quella in punizione. In quel caso il giocatore scacava e spettava a lui mettere sotto la sua trottola, nel punto esatto ove si trovava quella non toccata. C’erano due modi di giocare, uno più fraterno ed amicale, chiamato a truzzari (“ad urtare”), ove non era in palio altra posta che l’onore, un altro più bellicoso e violento, a li pizzati. Qui non solo era permesso lanciare la propria trottola con la punta in basso addosso a quella "sotto" che si ammaccava e si frangeva, ma prevedeva alla fine del gioco una punizione.
La trottola del perdente, collocata in una predisposta buchetta, veniva colpita dieci volte da ogni giocatore con la punta della propria (era per l’appunto pigliata a pizzati). Le conseguenze potevano essere gravi: succedeva, ad esempio, che la punta rientrasse e ne rimanesse fuori la metà o anche meno, con forti ripercussioni sulla funzionalità (in tal caso la tuortula diventava pizzamezza). Accadeva di peggio: il giocattolo sottoposto a così feroce trattamento – i colpi erano più forti che si poteva – talora si spaccava in due. C’era però la possibilità di scampare dalla punizione le trottole di migliore qualità: se ne poteva esporre ai colpi un’altra, una qualunque purché intera e funzionante. E i più ricchi avevano sempre una ruzzola di riserva, lu turtuluni (o birduni) di li pizzati. L’espressione ha assunto anche un valore metaforico: birduni (in senso proprio la mandorla cresciuta in dimensioni ma non maturata, rimasta verde e priva di frutto commestibile) di li pizzati è chi assume il ruolo di capro espiatorio, quello su cui vengono scaricate tutte le colpe e prende le botte per tutti, di solito il più debole del gruppo.
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