“Niente è stato più sfavorevole allo sviluppo della mia mente quanto la scuola del dottor Butler, che era esclusivamente a indirizzo classico, e nella quale non s’insegnava nient’altro che un po’ di storia e di geografia antiche. Tale scuola fu per me assolutamente priva di valore educativo”.
Chi scrive è Charles Darwin, narrando nella sua autobiografia come nacque la sua passione per la scienza: fuori dalla scuola e a dispetto della scuola. “La parte migliore della mia educazione nel periodo scolastico” – dice il fondatore della teoria dell’evoluzione, avvenne col fratello maggiore, che “aveva messo su un discreto laboratorio con gli apparecchi adatti, nella rimessa degli attrezzi, in giardino”. “A scuola giunse in qualche modo la notizia che mio fratello e io facevamo esperimenti di chimica, e poiché il fatto mera straordinario e senza precedenti, fui soprannominato gas. Fui anche rimproverato pubblicamente dal direttore, il sullodato dottor Butler, perché ‘perdevo tempo dietro a questioni inutili’”.
Un laboratorio chimico questa volta non “nella rimessa degli attrezzi”, ma nel solaio della villa del padre ricco di un suo amico, viene istallato circa un secolo dopo dal futuro chimico Robert Havemann (1910-1982) quando aveva più o meno dodici anni. Fu l’approdo di tutta una serie di esperimenti di ogni genere: costruzione di un ‘piccolo amperometro’, di un primo “piccolo apparecchio radio, un ricevitore a cristallo”. “e’ quasi un miracolo che la villa non sia andata a fuoco, benché mi sia trovato più volte sull’orlo dei più gravi pericoli… In quegli anni non mi interessava proprio nient’altro che la natura e le scienze naturali. Non mi preoccupavo invece quasi per nulla di politica”. Di politica invece si occuperà negli anni seguenti, dapprima cospirando contro il nazismo (salvandosi dalla morte, a cui era stato condannato dall’arrivo delle forze sovietiche) poi come coraggioso rappresentante, in Germania Orientale, di una opposizione socialista democratica al socialismo autoritario.
Restiamo in Germania, ma passiamo da una autobiografia a un’altra, da un secolo all’altro: dalla autobiografia di Robert Havemann (Un comunista tedesco) a quella di Wolfgang Goethe (Poesia e verità). Goethe, vissuto tra il 1749 e il 1832, fu uno degli ultimi geni universali, di tipo rinascimentale. L’autore del Faust, sommo poeta, drammaturgo, scrittore di romanzi, fu anche scienziato di valore. Alcune sue scoperte furono importanti: ebbe per esempio una prima intuizione della evoluzione naturale delle specie. “Sin dai miei primi anni – ci racconta Goethe – io sentii un impulso a investigare le cose della natura”. “La virtù misteriosa di un magnete dentro un’armatura, cucito con molta eleganza dentro un panno scarlatto” spinse Goethe fanciullo a smontarlo pezzo per pezzo: strappando prima l’involucro, poi togliendo l’armatura, restando infine con la ‘nuda pietra’. “Non bisogna giudicare male i bambini perché, dopo aver giocato un poco di tempo con un oggetto, alla fine lo fanno a pezzi, lo strappano, lo lacerano. (…) Perfino i naturalisti credono di istruirsi più col dividere e separare che non con l’unire e collegare, più uccidendo che non animando”.
Altro genio universale fu il tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716), che appartiene tanto alla grande storia della filosofia quanto alla grande storia della matematica. Leibniz ci racconta di essere stato “quasi completamente autodidatta”. la sua curiosità non era naturalistica, ma intellettuale: “Non avevo pace fino a che non ero penetrato nelle cifre e radici di ogni disciplina, e fino ache non ero pervenuto ai principi stessi, a partire dai quali mi adoperavo ad estrarre con le mie proprie forze tutto ciò con cui avevo a che fare”:
Enrico Fermi giovinetto non fu “completamente autodidatta”, trovò però un maestro fuori dalla scuola, in un collega del padre, l’ingegnere Amidei. Nel 1914 Fermi aveva 13 anni, e aveva preso l’abitudine di recarsi a incontrare il babbo all’uscita dell’ufficio, così coglieva l’occasione per rivolgere domande all’ingegnere Amidei, di farsi imprestare libri. Suo compagno era un altro futuro fisico, Enrico Persico, con il quale faceva lunghe passeggiate da un capo all’altro di Roma, acquistava libri usati di matematica e di fisica che trovava a Campo dei Fiori; nello stesso tempo i due giovani si cimentavano in indagini sperimentali, come l’accelerazione di gravità a Roma, la misura della densità dell’acqua Marcia, il campo magnetico terrestre.
Continuando la mia indagine su come i futuri scienziati cominciarono da ragazzi a esplorare la natura o il pensiero, ho trovato anche che Blaise Pascal (1623-1662) da piccolo costruì una prima, elementare, macchina calcolatrice, la pascaline, per aiutare il padre, pubblico amministratore. Ricostruì anche, da solo, buona parte degli Elementi di Euclide dopo che il padre glieli aveva sottratti per impedirgli di studiare troppo.
Già dai pochi esempi esposti, risulta chiaramente, mi pare, che per diventare non dico grandi ma buoni ricercatori occorre prendere l’abitudine, sin da ragazzi, di lavorare molto con le proprie mani e con la propria testa, non importa se “pasticciando”, oppure… scoprendo il cavallo, arrivando a risultati già noti.
Voglio terminare ricordando il mio insegnante liceale di matematica e fisica di mezzo secolo fa, Pietro Pagani, che queste cose le sapeva benissimo: egli mi interrogava su cose che non avevo studiato, ma che potevo dedurre, come avrebbe fatto, qualche anno dopo, all’Università, un grande maestro di metodo scientifico che ebbi la fortuna di frequentare come allievo, Federigo Enriques.
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