Quante volte ormai è stato constatato che il contrasto tra conservatori e progressisti, tra destra e sinistra, investe ogni problema, non solo quelli immediati, non solo quelli politici e sociali. Oggi: come sempre nei grandi periodi di trapasso.
La classe che avanza, la classe che guida lo sforzo di sviluppo e di progresso dell’umanità, vuole, e deve, trasformare tutti i rapporti umani, non solo quelli di proprietà; e la classe che resiste non si difende solo con la forza economica o con lo strumento politico, ma anche conservando e facendo conservare abitudini di vita e di pensiero, convinzioni e timori, idee e istinti. Vecchie cose, che i più candidi tra i nostri vecchi socialisti avevano già compreso, cinquanta anni fa. Vecchie cose, che si sentono però come improvvisamente nuove (perché improvvisamente con una nuova lucidità si comprendono) quando si leggono libri come le Lettere dal carcere di Antonio Gramsci. L’eccezionalità di questo documento (forse anche rispetto a molte delle opere classiche e fondamentali del movimento operaio) è appunto, io credo, nel fatto che un unico pensiero moderno, innovatore, rivoluzionario, anima e illumina mille problemi, che non sono affatto problemi immediati di lotta politica e sociale, ma problemi di cultura, di psicologia, di costume, di educazione. Il centro di interessi dal quale quel pensiero nasce e al quale quei problemi sempre si ricollegano: la lotta rivoluzionaria operaia, è necessariamente implicito, nelle Lettere dal carcere; taciuto quasi sempre, o appena fugacemente accennato. Ma presente sempre: e nel legame, se pur non apparente o appariscente, tra l’impostazione di quel problema centrale della società moderna e tutti gli altri infiniti che Gramsci affronta, è la modernità, la vitalità del Suo pensiero. Nelle Lettere dal carcere noi troviamo sparsi un gran numero di pensieri e osservazioni sull’educazione. E non soltanto, direi, perché in lettere familiari, in lettere sottoposte alla più diffidente e malevola censura, l’educazione dei ragazzi si presenta come uno dei pochi argomenti degni di essere trattati che si possono senza difficoltà trattare; ma anche, e sopratutto, per la tendenza di Gramsci a fermare la sua attenzione sull’aspetto educativo di ogni rapporto umano. Tendenza che mi pare connaturata alla concretezza di Gramsci; perché il rapporto educativo è l’elemento ultimo, più concreto, di ogni azione che muova e unisca uomini. Già da qualcuna delle Lettere ci appare come Gramsci attribuisse una fondamentale importanza all’educazione dei compagni, intesa non in senso generico, ma sistematico (“una delle attività più importanti sarebbe quella di registrare, sviluppare e coordinare le esperienze e le osservazioni pedagogiche e didattiche” - nella lettera a Berti); e sappiamo poi per altre vie, da quanto Felice Platone ci ha preannunciato sui quaderni del carcere, da numerosissime testimonianze di compagni, come appunto l’interesse di Gramsci si portasse sistematicamente sui problemi didattici e pedagogici in ogni azione, in ogni riflessione.
Nelle Lettere una trattazione sistematica del problema educativo nel suo complesso non c’è: ma da una serie di spunti, di osservazioni, di giudizi ci pare si possano ricostruire linee principali del pensiero di Gramsci riguardo a quella parte importantissima del problema educativo che è l’educazione dei fanciulli. Cercheremo ora appunto di raccogliere e collegare quelli che ci sembrano gli spunti più significativi del pensiero di Gramsci su questo argomento, riportando il più possibile le parole stesse di Gramsci. Gramsci critica fortemente la concezione che egli definisce metafisica che “presuppone che nel bambino sia in potenza tutto l’uomo e che occorra aiutarlo a sviluppare ciò che già contiene di latente senza coercizioni, lasciando fare alle forze spontanee della natura o che so io. Io invece penso che l’uomo è tutta una formazione storica, ottenuta con la coercizione(intesa non solo nel senso brutale e di violenza esterna) e solo questo penso: che altrimenti si cadrebbe in una forma di trascendenza o di immanenza. Ciò che si crede forza latente non è, per lo più, che il complesso informe e indistinto delle immagini e delle sensazioni dei primi giorni, dei primi mesi, dei primi anni di vita, immagini e sensazioni che non sempre sono le migliori che si vuole immaginare. Questo modo di concepire l’educazione come sgomitolamento di un filo preesistente ha avuto la sua importanza quando si contrapponeva alla scuola gesuitica, cioè quando negava una filosofia ancora peggiore, ma oggi è altrettanto superato. Rinunziare a formare il bambino significa solo permettere che la sua personalità si sviluppi accogliendo caoticamente dall’ambiente generale tutti i motivi di vita”.
Il problema diviene a questo punto didattico: è infatti compito concreto del padre, della madre, dell’insegnante, cogliere le infinite occasioni per formare queste qualità fondamentali senza mortificare la spontaneità del fanciullo. E un sforzo didattico troviamo in alcune lettere di Gramsci a Giulia e a Teresina; e tale sforzo didattico anima tutte le lettere ai suoi bambini. (Giuliano che non ha mai conosciuto, Delio che ha lasciato quando il piccolo aveva due anni). Pure, naturalmente, da pensatore dialettico, Gramsci fa sua la grande conquista della concezione rousseauiana, quella grande conquista che la fa essere moderna, e valida rispetto alla scuola gesuitica: non mortificare la spontaneità del fanciullo. La spontaneità, intesa come fantasia, originalità, personalità del fanciullo, è una costante preoccupazione nei suoi rapporti con i figli. Chiede sempre alla madre se le letterine dei ragazzi sono originali, pensate da loro. Quando regala il meccano a Delio manifesta il timore che “la cultura moderna (tipo americano), della quale il meccano è l’espressione”, tolga al bambino “il suo spirito inventivo” e crei in lui “un’astrattezza determinata da intossicazione matematica”. E così via. Ma “quelli che guidano il bambino… senza mortificare la sua spontaneità… debbono sollecitare l’acquisizione di qualità solide e fondamentali per il suo avvenire:… la forza di volontà, l’amore per la disciplina ed il lavoro, la costanza nei propositi”.
Il problema diviene a questo punto didattico: è infatti compito concreto del padre, della madre, dell’insegnante, cogliere le infinite occasioni per formare queste qualità fondamentali senza mortificare la spontaneità del fanciullo. E un sforzo didattico troviamo in alcune lettere di Gramsci a Giulia e a Teresina; e tale sforzo didattico anima tutte le lettere ai suoi bambini. (Giuliano che non ha mai conosciuto, Delio che ha lasciato quando il piccolo aveva due anni). Antonio Gramsci continua ad essere, concretamente, padre, inserendosi quanto più può nella vita e negli interessi di ogni giorno dei suoi figliuoli, come compagno e guida insieme. I piccoli racconti che scrive per loro (L’albero del riccio), i giudizi e i consigli sui loro giuochi e la loro attività, le discussioni sulle loro letture e le loro idee, illuminano e concretano il suo pensiero educativo. Gramsci prende sempre sul serio i suoi ragazzi, in ogni giuoco, in ogni fantasia: ma nella fantasia e nel giuoco interviene; non per distruggerli, ma per portarli a una sfera di coscienza superiore, per trarne motivi di impegno e di interesse più completi, da uomini.
Odia il “bamboleggiare”, cioè il guardare estatici la spontaneità del fanciullo senza intervenire attivamente, quanto la pedanteria, cioè l’intervenire dall’esterno senza tenere conto della spontaneità infantile. Gramsci non crede all’educazione come sgomitolamento di un filo preesistente e non crede quindi neppure a inclinazioni generiche precoci. Di qui la sua ostilità a una precoce specializzazione della scuola, a un suo prematuro carattere di orientamento professionale. Chiedendo notizie alla moglie sulle “brigate d’assalto” e gli “angoletti specializzati” della scuola primaria sovietica frequentata dai suoi ragazzi dice: “Può nascere il dubbio che ciò acceleri artificialmente l’orientamento professionale e falsifichi le inclinazioni dei fanciulli, facendo perdere di vista lo scopo della scuola unica di condurre i fanciulli ad uno sviluppo armonico di tutte le attività, fino a quando la personalità formata metta in rilievo le inclinazioni più profonde e permanenti perché nate ad un livello più alto di sviluppo di tutte le forze vitali”.
L’inclinazione insomma è per Gramsci il punto di arrivo: nel suo ideale educativo la specializzazione deve avvenire a un alto grado di sviluppo della personalità nel suo complesso. “Credo che in ognuno di essi (i figli Delio e Giuliano) sussistano tutte le tendenze come in tutti i bambini sia verso la pratica che verso la teoria o la fantasia e che anzi sarebbe giusto guidarli in questo senso, ad un contemperamento armonioso di tutte le facoltà intellettuali e pratiche, che avranno modo di specializzarsi a suo tempo, sulla base di una personalità vigorosamente formata in senso totalitario e integrale. L’uomo moderno dovrebbe essere una sintesi di quelli che vengono ipostatizzati come caratteri nazionali: l’ingegnere americano, il filosofo tedesco, il politico francese, ricreando, per dir così, l’uomo italiano del Rinascimento, il tipo moderno di Leonardo da Vinci divenuto uomo-massa o uomo collettivo pur mantenendo la sua forte personalità e originalità individuale”.
Proprio nelle righe che abbiamo per ultime riportate ci sembra espresso nella forma più alta e completa l’ideale educativo di Antonio Gramsci. E’ l’ideale educativo della personalità umana completa e originale proprio degli uomini più avanzati della pedagogia moderna, della scuola attiva, della scuola serena, della educazione nuova, con la consapevolezza del combattente socialista che uomo completo può e deve diventare ogni uomo nello sviluppo di una società socialista.
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