13.5.10

«Discussioni» franche negli anni di Stalin (di A. Casalegno con una testimonianza di Vittorio Foa)

Nel gennaio 2000 la casa editrice Quodlibet, che cura il Fondo documentario intitolato a Franco Fortini, nel quale sono raccolti, insieme ai carteggi e ai manoscritti dello scrittore e poeta, recuperò e pubblicò integralmente gli scritti contenuti in un giornaletto semiclandestino che circolava a Milano tra il 1949 e il 1951, prima dattiloscritto e poi ciclostilato, a cura di Roberto Guiducci e Sergio Solmi. Vi scrivevano alcune delle più belle intelligenze della sinistra critica di quegli anni. In forma di recensione del volume, Discussioni" 1949-1953 appunto, Andrea Casalegno su «Il Sole 24 ore» del 20 febbraio 2000 ha ben delineato il clima in cui quelle discussioni si svolgevano con il concorso di una testimonianza di Vittorio Foa. Trovate l'articolo qui postato con i suoi sottotitoli (S.L.L.).
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Fortini, Cases, Ferrarotti tra gli autori che dal ’49 al ’53 fecero sentire le loro voci contro le «verità» di partito.

Fin dove può spingersi l'interesse politico: anche quello della propria parte, della parte "giusta", che si propone di migliorare la vita sociale, e forse ci riesce? Può prevalere sulla verità storica e scientifica? Può disporre della vita, della libertà, dell'onore degli individui?

Oggi sembra ovvio rispondere: no. Fino a ieri però questa risposta non era ovvia. Ci fu anzi un tempo, vicinissimo su scala storica, in cui era ovvio il contrario: l'interesse politico, quando è l'interesse del Partito, della Classe operaia, dello Stato socialista, non solo può ma deve subordinare a se stesso ogni altro valore. Anche la verità, anche la vita, anche la libertà e l'onore di chiunque, compresi, anzi, primi fra tutti i propri dirigenti, i militanti, gli Eroi della Rivoluzione.

È il tempo dominato, nel campo comunista, dalla figura di Stalin. Un tempo che crediamo di conoscere, ma che si sta allontanando così velocemente che rischia di diventare incomprensibile. Su quegli anni comincia a calare una nebbia che occupa ogni differenza sotto un'uniforme patina grigia. Capire le differenze è invece l'unica strada per conservare un'immagine viva, reale del passato.

Ci aiuta a farlo un bel libro. L'editore Quodlibet di Macerata (via Padre Matteo Ricci, 108), che cura tra l'altro le pubblicazioni del Centro studi Franco Fortini di Siena, ristampa integralmente «Discussioni», una rivistina diffusa a Milano in poche copie tra il 1949 e il '53. I primi numeri erano semplici fogli battuti a macchina in più copie con la carta carbone. Poi divenne un ciclostilato. Su di essa scrissero alcuni degli in­tellettuali di sinistra più seri e liberi di quelli e dei nostri anni. L'ideatore fu Delfino Insolera (1920-87), gli animatori, insieme a lui, soprattutto Roberto Guiducci (1923-97) e Renato Solmi. Vi scrissero, tra gli altri, Claudio Pavone e Giulio Preti, Luciano Amodio e Sergio Caprioglio, Fulvio Papi e Franco Momigliano. Alcuni, non certo dei minori, hanno scritto e scrivono sul Sole-24 Ore: Cesare Cases, Franco Ferrarotti, Franco Fortini (1917-94).

Ma non è questo il punto. Il punto è piuttosto che in quegli anni in cui per un intellettuale di sinistra dissentire dalla verità ufficiale di Par­tito era quasi impossibile - come testimonia Vittorio Foa - questi intellettuali affrontarono pubblicamente i problemi fondamentali, teorici e politici, della sinistra con spirito di libertà.

Le parole di Foa ci permettono di capire la dura sostanza di frasi apparentemente innocue. Come questa: «Non si può comprendere il nostro lavoro, se non si tiene conto della necessità di recupero, di ripensamento e di critica, a partire dal momento in cui fu ben chiaro che il dogmatismo ideologico dominante era irrimediabilmente in un vicolo cieco» (Roberto Guiducci, gennaio 1951). O questa: «La tesi della partitarietà della cultura va serenamente ma fermamente combattuta», perché «presuppone la più radicale diffidenza nei confronti dello sviluppo autonomo di una cultura progressiva, e quindi la necessità di guidarla, dirigerla, sorvegliarla a ogni passo» (Renato Solmi, maggio 1951).

«Discussioni» (edizione integrale a cura di Renato Solmi, pagg. 400, L. 48.000) inizia con una densa «Testimonianza personale in luogo di introduzione» di Solmi, prosegue con i primi dibattiti sulla violenza, la «storicità della scienza», la bomba atomica, continua con approfondite discussioni sui fondamenti teorici del marxismo, l'Urss, la Jugoslavia, la Spagna, l'utopia, il «metodo dialettico». Molti contributi sono d'interesse non solo storico ma attuale, di valore perenne. Come i due da cui sono tratte le frasi citate; «Politicità e partitarietà della cultura» di Solmi, un vero manifesto, e «Punto di vista» di Guiducci.

Nell'aprile 1953 Fortini denuncia, nel bellissimo «Chi non spiega è responsabile» (poi ripubblicato in Dieci inverni) il presunto «complotto dei medici a Mosca»; e anche l'«assenza di democrazia politica nei partiti del proletariato», la «sistematica mascheratura e soppressione della discussione politica», «la preordinata identificazione di opposizione e tradimento». Parole chiare e lungimiranti, che resteranno valide per i decenni a venire; fino al maoismo e oltre.

Cesare Cases - che polemizzò allora con Guiducci e Solmi su vari argomenti teorici, come il rapporto fra struttura e sovrastruttura, sostenendo l'ortodossia marxista con intelligenza e lucidità (in seguito avrebbe criticato Guiducci nel brillante pamphlet Marxismo e neopositivismo) - ricorda oggi con simpatia le loro posizioni «confuse»: «In politica avevano ragione loro. Nella teoria avevano le idee confuse, certo. Ma era giusto che lo fossero. Il loro disordine ideologico mi spaventava, ma mi piaceva polemizzare con loro. In anni in cui tutto era chiuso a "Discussioni" si respirava aria di libertà».

Rileggendo quei contributi un carattere emerge sopra ogni altro: la franchezza. Su quel foglio si poteva parlare di tutto con sincerità. Anche perché la sua diffusione era così scarsa? Certo. Lo leggevano, in fondo, gli stessi che lo scrivevano: «Un bollettino destinato a qualche decina di conoscenti» ricorda Fortini nella «testimonianza» che chiude il volume insieme a quelle di Guiducci, Amodio, Caprioglio e altri. Ma subito rivendica con orgoglio: «Ci erano chiare la necessità e l'inevitabilità di una crisi dello stalinismo». Era poco? Basterebbe la testimonianza di Foa a dimostrare che non è così.

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Foa: che dramma la cultura del sospetto.

Ricordo gli anni tra il 1949 e il ’51 come i più neri della sinistra, come il trionfo di uno stalinismo brutale, che pesava sul Partito socialista non meno che sul Partito comunista. L'allineamento alla politica e alle parole d'ordine dell'Urss era assoluto, le possibilità di dis­senso quasi nulle. Entrato nel Partito socialista nel '48, insieme a Riccardo Lombardi (entrambi venivamo dal Partito d'azione), su una linea politica di autonomia dal Partito comunista, fui subito spinto dal bieco dogmatismo che allora dominava il partito, diretto da Pietro Nenni, Rodolfo Morandi e Giusto Tolloi, a cercare spazio nel sindacato. La Cgil di Di Vittorio era un'altra cosa».

Chi parla è Vittorio Foa, uno dei grandi vecchi della sinistra, che ci appaiono di giorno in giorno più grandi. Ebreo torinese, intellettuale, militante antifascista condannato a lunghi anni di carcere, dirigente politico e sindacale, studioso della società e della storia italiana, testimone impareggiabile, Foa non fu lettore di «Discussioni». La rivista circolava (a Milano, tra l'altro, e non a Roma) in un numero troppo ristretto di copie. Ne ricorda però la presenza, ne conobbe personalmente quasi tutti i redattori e collaboratori, e soprattutto può rievocare fedelmente il clima politico e culturale in cui fu scritta, confermare quanto fosse difficile per un intellettuale che non intendesse farsi emarginare dai partiti della sinistra, né perdere contatto con la loro base sociale, manifestare apertamente il suo dissenso dalle posizioni staliniane. «Erano gli anni tragici della cultura del sospetto - continua Foa - che travolsero Lelio Basso, emarginato con l'accusa di "trotzkismo". Personalmente non credo di aver fatto concessioni esplicite allo stalinismo. Ma neppure presi una ,posi­zione esplicita contro. Perché? È difficile, forse, capirlo oggi per un giovane. Anche tra gli antistalinisti prevaleva il timore di essere risucchiati dal campo avverso, di essere "usati" dal nemico di classe, di finire arruo­lati tra le forte schierate con gli Stati Uniti contro la "patria del socialismo". Ancora di più contava il timore di essere separati dalla nostra base sociale, dagli operai e dai militanti che credevano nelle parole d'ordine dei partiti di sinistra».

Stalin stesso si presentava con un doppio volto: il dittatore colpevole di feroci delitti, in gran parte già noti, ma anche il capo di Stato che aveva cementato l'alleanza antifascista internazionale, avallato la svolta democratica dei comunisti italiani. «Tanto che quando, nel 1953, Stalin morì - ricorda Foa - non vivemmo quell'evento come una liberazione, ma con preoccupazione. Temevamo che venisse meno un elemento essenziale di stabilità. Stalin aveva pur detto, l’anno prima, che una nuova guerra mondiale "non era inevitabile"».

L'anno prima, il 1952, è anche l'anno della condanna a morte, im­posta personalmente da Stalin, di decine di intellettuali e medici ebrei, dopo un processo farsa che li accusò di un fantomatico «complotto». «La vissi con un'angoscia che non potevo esprimere. "Questa è l'anticamera di una nuova persecuzione" pensavo. Ma, se l'avessi detto, non sarei stato creduto. Si, la sinistra di quegli anni era prigioniera. Solo il sindacato riuscì a difendere un pluralismo sociale che, negli anni del Centro-sinistra, sarebbe finalmente diventato, anche pluralismo politico».

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