Saigon, soldati dell'esercito collaborazionista del Vietnam del Sud
rimuovono il cadavere di un vietcong ucciso dal tetto di un edificio
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Nelle rievocazioni del Sessantotto italiano spesso il Vietnam è poco più che un accenno e serve più che altro a “fare sfondo”. Sembrerebbe che fosse solo il Che, eroico ma sconfitto, il mito di quelli che nell’anno fatidico avevano vent’anni (o poco più o poco meno). È vero, nei cortei l’immagine del nostro barbuto compagno ampiamente prevaleva, ma il nome che si sentiva risuonare più spesso, talvolta anche a sorpresa, era quello di Ho Chi Min, emblema di quel piccolo popolo di contadini che resisteva alla potenza imperiale Usa, ai suoi bombardamenti, ai suoi gas, al suo napalm distruttivo, ai suoi addestratissimi marines, di quel piccolo popolo che resisteva e vinceva.
Leggo oggi su una vecchia rivista (“Storia illustrata” del gennaio 1988) una rievocazione della grande offensiva del Tet, il capodanno lunare, la grande festa dei vietnamiti e di altri indocinesi, che cade il 31 gennaio. Nel gennaio del 1968 accadde, infatti, un evento sconvolgente, tale da incrinare fortemente l’immagine degli Stati Uniti invincibili.
Saigon (oggi Città Ho Chi Min) era al tempo la capitale del Vietnam del Sud, lo stato fantoccio creato alla fine degli anni Cinquanta dagli Stati Uniti con un forte sostegno di armi e risorse, quando il segretario di stato americano Foster Dalles aveva negato ai vietnamiti la riunificazione del paese e le elezioni politiche generali sanzionate nel 1954 dagli accordi di Ginevra perché – diceva – “il voto consegnerebbe il paese ai comunisti”. Nel Nord del Vietnam, infatti, dopo la grande battaglia di Dien Bien Phu, vinta nel maggio 1954 dall’esercito rivoluzionario del Viet Minh guidato da Giap contro l’esercito coloniale francese, si era costituita una Repubblica governata dai comunisti e presieduta da Ho Chi Min, il leggendario e saggio “bag Ho” (lo zio Ho).
Ma i sostegni esterni non bastarono a consolidare quello che appariva non solo uno stato fantoccio, ma anche un regime crudele e corrotto. Gli americani stessi avevano incoraggiato il colpo di stato militare che abbatté e condusse a morte nel 1963 il feroce dittatore Diem, il cui potere capriccioso e nepotistico aveva catalizzato un’ampia opposizione popolare comprensiva dei monaci buddisti; ma i nuovi capi militari, guidati dal “generale” Van Thieu, non erano molto meglio e già con Kennedy cominciò l’intervento militare diretto. Al Sud infatti si era costituito il Fronte di Liberazione del Vietnam che nelle campagne dava vita ad un guerra di guerriglia e controllava villaggi e interi territori, sostenuto da armi e rifornimenti che giungevano dal Nord attraverso il cosiddetto “sentiero di Ho Chi Min” e attraverso una fitta rete di cunicoli e gallerie. Nel 1964, nonostante il “concorso” statunitense ammontasse a 20 mila uomini e la guerra costasse un miliardo di dollari l’anno (cifra al tempo ingentissima) i “vietcong” (con questo nome, di “vietnamiti comunisti”, erano individuati i guerriglieri del Fronte) erano sempre più numerosi e attivi. Da allora ci sarà una vera e propria escalation (così venne chiamata) della guerra americana. Si arriverà ad un massimo di 450 mila militari americani presenti con spese enormi e verrà sistematicamente bombardato il Nord.
La strategia militare era stata quella di consolidare il potere e la sicurezza dell’esercito Usa a Saigon, anche attraverso una dura repressione del dissenso, e di partire da quella zona sicura per “bonificare dai comunisti” le campagne con grandi operazioni (“Cedar Falls” fu il nome della più importante), anche se, cessato il massimo sforzo, i comunisti si reinfiltravano. Sul finire del 1967 tuttavia la strategia americana sembrava aver conseguito un relativo successo. Saigon, che oramai viveva nell’occupazione e di occupazione come grandissimo bordello e mercato di droga per i soldati americani, sembrava assolutamente sicura. Così tra l’altro ce la raccontava la nostra tv, mentre il nostro governo, il governo di centrosinistra guidato da Moro, pur invocando trattative, mostrava “comprensione” per la guerra americana. Il Pci, in un manifesto contro i bombardamenti e i gas incendiari, aveva recuperato una frase di Tacito, originariamente riferita ai Romani antichi: “Hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace”.
Per comprendere ciò che accadde a Saigon alla fine di gennaio del 1968 è utile leggere la testimonianza del generale Franco Pisano, che al momento era addetto militare per l’aeronautica nell’ambasciata. Racconta come nel pomeriggio del 30 si svolgesse nella città lo spettacolo dei mortaretti, rammenta che c’era una gran folla per le strade e i negozi erano illuminati: gli americani avevano addirittura abolito il coprifuoco per cui i festeggiamenti del Capodanno lunare si protrassero oltre la mezzanotte. “Tutto cambiò improvvisamente verso le quattro del mattino. Rombi di cannoni e crepitio continuo di armi automatiche”.
Era, imprevista ed improvvisa, l’offensiva dei vietcong che, contemporaneamente, attaccarono Huè, l’antica capitale imperiale, e Saigon, la capitale coloniale e neocoloniale. Arrivarono a penetrare nel quartiere generale del generale Westmoreland, il capo dell’esercito più potente del mondo.
Raccontano le storie militari che l’offensiva del Tet fu una sconfitta e che dopo lo sconcerto e la sorpresa per la presenza di questi guerriglieri che sbucavano da tutte le parti gli americani si riorganizzarono e respinsero i vietcong sia a Saigon che a Hué. Aggiungono che il FLV perse sessantamila dei 120 mila combattenti e che le perdite umane degli americani e dell’esercito collaborazionista furono cinque o sei volte minori. Insinuano che i vietcong fallirono l’obiettivo politico dell’insurrezione della città: i pacifici abitanti di Saigon, anche quelli che non vivevano di occupazione e si opponevano agli americani, si limitarono a fuggire dalle zone del combattimento.
E’ tutto probabilmente vero, ma non calcola l’impatto sull’opinione pubblica mondiale di quell’offensiva.
In Usa, ove c’era ancora la coscrizione obbligatoria, s’impennarono le diserzioni: i ragazzi in massa scappavano in Canada o altrove dalla sporca guerra. In Francia nel maggio i ragazzi di Nanterre e della Sorbona resistevano alla Polizia inneggiando a Ho Chi Min. In Italia occupavamo le facoltà pensando a quei piccoletti male armati che atterrivano il gigante americano e vincevano (o così ci pareva).
Alle elezioni di primavera il Pci diffuse un disco di canzoni da mandare in giro con gli altoparlanti in attesa dei comizi; se non ricordo male le cantava il Canzoniere delle Lame, di Bologna. La più bella s’intitolava La vita cambierà: protestava contro lo sfruttamento e contro la guerra imperialistica. Una strofe faceva “chi non vuol piegar la testa è comunista”, un’altra “nel Vietnam i partigiani col fucile nelle mani / costruiscono anche il tuo domani”. Un milione di voti in più! (S.L.L.)
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