Enzo Siciliano |
Enzo Siciliano in genere non mi piaceva. Era colto e raffinato, per carità, ma mi è sempre apparso soprattutto un uomo di potere, il manovratore più abile in una rete di “amici”, una specie di loggia o di clientela letteraria ed editoriale. E mi sembrava un controsenso che in due punti di quella rete, quella degli amici di Siciliano e di Moravia, si collocassero Leonardo Sciascia e Pier Paolo Pasolini.
La spiegazione c'è. “Contraddisse e si contraddisse” - si legge nell’epigrafe che Sciascia pensò per se stesso. Vale anche per Pasolini.
Il testo che segue produce anche in me una contraddizione: stavolta Siciliano mi piace. Il brano è parte di un più lungo articolo che nel 2004 (non trovo nel ritaglio la data precisa) Siciliano scrisse per “alias”, il magazine culturale del “manifesto”, in concomitanza con l’uscita di una nuova traduzione del Conte di Montecristo. Mi pare una lettura profonda anche sul piano storico, mi pare integrare felicemente l’impeccabile caratterizzazione, più specificamente letteraria, che si ritrova nella nuova introduzione di Lanfranco Binni al Montecristo dei Grandi Libri Garzanti.
Ma forse la contraddizione in Siciliano non c’è: la sua acutezza nasce da simpatia. Forse quando parla di “voluttà dell’intrigo”, di “amicizie di qualità a unico profitto personale”, di “equilibrio tra Empireo e boulevard”, quando discorre dell’“oro, diamanti, rubini” che affascinano Dumas e distraggono il suo “superuomo”, a se stesso e al suo milieu in qualche modo allude. De te fabula narratur. (S.L.L.)
Alexandre Dumas |
In Dumas la vita ha un sapore di totalizzante voluttà - è la voluttà dell'intrigo a farlo inesausto regista di romanzo. E si può capire come il paesaggio romano, scrutato col suo cannocchiale, lo stregasse. Come lo stregava ovviamente Parigi in quel voltarsi d'ordini sociali, finanziari, politici fra barbarie ed eleganza che la città, trascinando con sé tutta la Francia, fra caduta di Napoleone, Restaurazione e Rivoluzione borghese in crescita, inscenava.
Il quadro socio-storico, nel Conte di Montecristo, forse è la componente di maggiore rilievo: la facilità del guadagno, dello sperpero di danaro, delle corse irrefrenabili su per la scala sociale di affaristi spregiudicati e funzionari di mezza tacca che sapevano sfruttare la politica, le amicizie di qualità a unico profitto personale; quindi il precipizio in cui tante improvvise fortune finanziarie piombavano a terra con la velocità del suono, e travestimenti conseguenti, lacrime per alcuni e per altri gioie: questa la vera sostanza del romanzo. La storia era lo scenario dentro cui Dumas metteva in fusione la propria industria feuillettoniste, come sappiamo - lo fu per I tre moschettieri, lo fu per La Sanfelice. Ma nel Conte di Montecristo lui insegue la contemporaneità, quella contemporaneità canaille di cui conosceva tutto, tanto vi era immerso dentro, tanto se ne nutriva.
Il grande romanzo europeo lo hanno inventato nelle sue figurazioni propulsive dei marginali, gente che sarebbe stata disposta a correre ogni avventura, disposta a mettere a soqquadro tutte le righe dei comportamenti sociali, e che a tante velleità diede volto con l'inchiostro. Dumas, mulatto per via di madre, garibaldino (fornì una partita di moschetti ai Mille), con la sua albagia di spendaccione privo di ogni remora, nella crapula, nel sesso, di quei primitivi - artisti senza dubbio - seppe cantare, con note di trionfo, ma da scrittore per niente eccelso, l'epicedio. Del romanzo fece la slot machine del guadagno, per sé e i suoi aiutanti (fra cui Nerval). E nel Conte di Montecristo inventò il ritorno del vendicatore che vuole assaporare il più en ralenti possibile la propria vendetta per un sopruso ricevuto - una galera ingiustamente comminata e durissimamente scontata.
Nell'epos del romanzo europeo il protagonista del libro, il giovane Edmond Dantès e l'abate Faria, suo mentore imprevisto e ancora più imprevisto benefattore, costituiscono una leggenda. La galera che i due scontano in parallelo, il cunicolo che riescono a scavare congiungendosi per caso nelle viscere del Castello d'If dove sono ai ferri, il progetto di fuga che elaborano e che il solo Dantès riesce a mettere in atto ma usando il sacco-bara in cui l'altro, morto di vecchiaia, dovrebbe venir cucito, sono topoi d'eccezione nel romanzesco. Dopo questo evento ultimo - decisivo per il resto -, quanto accade, agnizioni inclassificabili, morti presunte, assassinii che torturano l'anima e che in effetti non sono mai avvenuti, sdoppiamenti di persona anche comici, avvelenatrici subdole, paralitici che dal proprio letto sventano delitti, giovani lesbiche in fuga d'amore, un armamentario rocambolesco che a riassumerlo nei suoi incastri si tinge di ridicolo, per le mani di Dumas, quelle mani che sanno come trovare il giusto equilibrio fra empireo e boulevard, guadagnano spazio nelle rubriche del credibile.
Sono convinto, però, che tutto non andrebbe così al segno se al romanziere non riuscisse il colpo di vero genio che è l’invenzione di quel sacco-bara dentro cui è andato a farsi cucire Edmond al posto del povero abate Faria scambiandosi a lui con una mossa tanto astuta quanto pericolosa.
Dumas, a quel punto, ci racconta la seconda nascita del suo gagliardo protagonista. Quel sacco di tela, che dovrebbe essergli bara - perché a tanto sarebbe destinato se contenesse il cadavere del vecchio -, lanciato in mare, gli è, invece che sepolcro, vivificante sacco placentario…
Nel romanzo, dopo quel tuffo, si verifica una metamorfosi decisiva. Edmond, fatto accorto dai suggerimenti e dalla filosofia del saggio Faria - gli ha consegnato in mano la sua eredità, la mappa di un tesoro... -, lo ritroveremo, più in là negli anni, non più ragazzo soggetto alle ondate del destino, non più indifeso davanti alle invidie e alle perfidie altrui, non più piagato nella sua intimità: lo ritroveremo pari a un Proteo tenebroso e irresistibile, insindacabile regista degli eventi i più azzardati. Dapprima il romanzo gli veniva tessuto da altri sulla pelle: Edmond lo avevamo visto maciullato dalle mani del caso, straziato fino all'afasia. Adesso è lui a imporre, pure con ferocia, caso e destino a chiunque lo abbia incrociato o torni a incrociarlo. Lui il vero autore del proprio romanzo.
Il conte di Montecristo è la vicenda di una vendetta lungamente meditata e attuata a distanza di anni. È un prototipo saccheggiato da una schiera foltissima di imitatori, fra cui non ultimi Salgari e Carolina Invemizio; e saccheggiato con disinvoltura levantina anche da una caterva di sceneggiatori cinematografici. All'origine del topos è possibile intravedervi la figurazione esemplare del ritomo di Ulisse a Itaca, dell'ignoto giustiziere che fa man bassa, con un arco e frecce infallibili, di chi ha cercato di strappargli la donna e distruggergli il patrimonio. Quello che conta in Dumas è la complessità della costruzione …
Che leggesse avidamente Stendhal e Balzac, e che per certi versi ne volesse apparire, senza alcuna esitazione, il replicante è alla sostanza indubbio. Poi, va per conto suo. E la calibratura, alla sua costruzione, la dà attraverso la pittura d'una società - quella francese del 1830 - dove ragionare di morale era finanche delittuoso, e contro la quale oppone la forza d'un ricordo e d'una nostalgia Basti un nome per capaci: Napoleone. Figlio di un generale della grande armata Dumas coltiva romanzescamente la memoria di un tempo generoso, già calato nel marmo della gloria e in essa contro un presente devastato ma vitale, imprime un bisogno di verità e, diciamolo, di vendetta
Ecco quindi il tema della vendetta - quasi un sogno bonapartista - situarsi né troppo in atto né troppo in basso fra i valori uni ani: di sicuro momento passionale, ma estremamente razionale poiché per essere attuato fino in fondo necessita di una strategia militare attentamente meditata L'uomo che la può realizzare ha da essere un individuo superiore, capace di freddezza e lungimiranza: - Dumas disegna il suo Dantès adulto con le tinte presaghe del superuomo, del cavaliere senza macchia e senza paura, calando un profilo di dignità cavalleresca fra il letame della società dei borghesi arricchiti. È un cavaliere che ha perduto l'aureola sacrale di un Lancillotto, e certamente non è un puro folle come Parsifal, ma unisce in sé, quasi con kantiano rigore, imperativi etici e determinazione individuale - la sua vendetta è segno e realizzazione del bene, il suo fine non è il sangue ma la rimessa in sesto di quel che nella vita è andato fuori asse.
Diciamo che Dumas vorrebbe che il suo superuomo vivesse la libertà incontaminata di Zarathustra - ma ancora non sa chi sia Zarathustra, perciò abbandona la propria creatura nel cerchio di un'esistenza dove sono accumulati oggetti d'oro, diamanti, rubini miracolosamente scampati all'oblio del tempo; e il narghilè come panacea contro l'angoscia della vivere vi è vissuto come un miraggio da rinviare a poi, a un dopo che vediamo scivolare fino alle ultime pagine del romanzo, alle ultime righe…
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