E' l'ultima manifestazione del '68, dissero i suoi amici quando Jean-Paul Sartre morì trent'anni fa, a Parigi il 15 aprile 1980. Aveva 75 anni e versava in cattive condizioni a causa dell'uremia. Simone de Beauvoir, la compagna di tre anni più giovane, raccontò che Sartre aveva previsto, in base a oscuri calcoli sulla longevità dei suoi antenati, di riuscire a superare gli ottant'anni. I funerali furono effettivamente un evento: oltre cinquantamila persone facevano ala al corteo funebre tenendosi per mano. Scompariva il più celebre intellettuale francese, l'autore della Nausea, il massimo filosofo dell'esistenzialismo nel dopoguerra con L'essere e il nulla, ma soprattutto il personaggio che più di ogni altro aveva incarnato la figura dello scrittore engagé.
Era una figura tipicamente francese. Non si può non ricordare Albert Camus, con le Lettere a un amico tedesco, la Lettera a un militante algerino e l'intensa attività pubblicistica. Intellettuali engagé sono stati il ribelle André Malraux, l'antipsichiatra Michel Foucault, l'etnologa Germaine Tillion, o i nouveaux philosophes. La differenza è che Sartre mette in gioco il nome e la fama, schierandosi, dichiarandosi, battendosi, scandalizzando. Già nel 1945 fonda, con Maurice Merleau-Ponty, la rivista “Temps modernes”, strumento di dibattito con posizioni critiche nei confronti del Pcf. Un testo chiave è il dramma Le mani sporche (1948), dove un dirigente comunista spiega a un giovane militante (incaricato di ucciderlo) che per conseguire i fini rivoluzionari bisogna «sporcarsi le mani». Questa produzione si accompagna con gesti come il rifiuto del Nobel nel 1964. O il rifiuto di apparire in televisione «per non avallare un organo dello Stato».
Ma sono il maggio '68 e gli anni 70 a fare da acceleratori: il filosofo partecipa alla fondazione del movimento «Soccorso rosso», e accetta di dirigere prima il giornale maoista “La Cause du peuple” quindi il foglio radicale “Libération”. Firma appelli, muove denunce, prende posizione, non si risparmia nell'azione. Nel febbraio 1971 tiene a Bruxelles una conferenza sulla giustizia di classe davanti a un pubblico borghese, che secondo la Beauvoir se ne esce in battute tipo: «Non valeva la pena di vestirsi eleganti». Un anno dopo entra clandestinamente alla Renault di Billancourt per parlare con gli operai, viene brutalmente estromesso dai sorveglianti e in una conferenza stampa accusa la casa automobilistica di fascismo. A metà degli anni 70 solleva un caso perché non gli permettono di verificare, con Cohn Bendit, le condizioni carcerarie del terrorista tedesco Andreas Baader. Una esposizione a 360 gradi.
E in Italia? Calvino scrive nel 1957 che la letteratura del secolo si divide in due fasi: le avanguardie e l'engagement. Ma da noi lo scrittore engagé deve confrontarsi con un Partito comunista che fa della cultura una questione egemonica e che elabora la nozione di intellettuale organico. Elio Vittorini, direttore del Politecnico, si scontra con Togliatti che non trova la rivista abbastanza allineata. L'autore di Uomini e no rivendica il diritto di non suonare il piffero alla rivoluzione. È un dialogo tra sordi che si conclude con la chiusura del giornale nel 1947. Vittorini rompe col partito e il Migliore gli dedica una sprezzante battuta: «Vittorini se n'è ghiuto e soli ci ha lasciato!».
Tra gli scrittori impegnati, si devono ricordare altri due casi di attrito col Partito comunista. Nel 1968 Pasolini, dopo gli scontri di Valle Giulia tra studenti e polizia, scrive l'ode Il Pci ai giovani in cui manifesta solidarietà al proletariato e rancore per la borghesia, per cui dichiara «Io simpatizzavo coi poliziotti». Per Eugenio Montale la poesia non è né bella né brutta ma solo «sfogo personale». Dieci anni dopo, durante il sequestro Moro, uno dei nostri grandi scrittori, Leonardo Sciascia, analizza pubblicamente le lettere dello statista democristiano dal carcere delle Brigate rosse, contestando la posizione della fermezza contro i terroristi e sposando invece la causa socialista del negoziato.
Oggi, da noi, engagement suona una nozione del passato. Come mai? Perché è scomparso lo scrittore engagé? «È una conseguenza della caduta delle ideologie», risponde Franco Ferrarotti, padre della sociologia italiana, a lungo impegnato nel movimento di Comunità di Adriano Olivetti, «che in molti casi erano libresche e facevano gli intellettuali megafoni del potere. Però, senza la loro spinta avveniristica e utopistica, si produce una totale liquefazione degli ideali. È allora che viene meno l'impegno. Perché non dobbiamo dimenticare che l'impegno è trascendenza e un po' utopia.
Quindi cosa abbiamo oggi? Bravi professionisti della carta stampata o dei talkshow televisivi, fini dicitori, specialisti raffinati, ma privi di motivazioni che li spingano oltre l'esperienza fattuale. Ecco, Sartre era invece il contrario della specializzazione, o meglio era lo specialista del generale. L'ultimo. Si dedicava al pensiero dell'essere e del mondo. Chi oggi in Italia può essere collocato su questo versante? Né si può pensare che non ci sia più bisogno di engagement. Io sono sconcertato dal fatto che si vivono situazioni difficili - si pensi al precariato giovanile - eppure non si vedono nascere movimenti di solidarietà, che vedano unirsi le forze in una lotta per idee sociali».
«Non sono stato un uomo politico», disse Sartre nelle conversazioni con Beauvoir del 1974, «ma ho avuto reazioni politiche a molti eventi politici; così la condizione di uomo politico in senso lato, ossia nel senso di uomo toccato dalla politica, compenetrato di politica, è una mia caratteristica».
“La Stampa”, Aprile 2010
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