Fritz Lang |
Quando Fritz Lang, nel 1933, abbandona la Germania è un autore indiscutibilmente maturo. Capolavori come Der Mude Tod (Destino, 1921), Dr. Mabuse, der Spiegel (Il dottor Mabuse, 1922), Spione (L'inafferrabile, 1928) e M (M. il mostro di Dusseldorf, 1931) l'hanno già promosso artista di fama internazionale. Si aggiunge inoltre il successo popolare di Die Nibelungen (I nibelunghi, 1924) e di Metropolis (idem, 1927), opere dagli esiti ambigui che furono apprezzate dallo stesso Hitler e che indussero Goebbels ad offrire al regista l'incarico di direttore dell'industria cinematografica tedesca. La rottura con il nazismo avviene proprio in concomitanza con questa offerta e fa si che il celebrato artista di prima si trasformi, subito dopo, in un fuorilegge a cui sono confiscati beni mobili ed immobili.
Dopo una breve parentesi francese che coincide con la realizzazione di Liliom (La leggenda di Liliom, 1934) comincia la stagione americana di Lang. Una stagione che per molti ha significato la fine del «vero» Lang e l'imporsi di un autore diverso, di volta in volta schiacciato dalle regole del mercato o, per contro, sensibile lui stesso a un'«estetica popolare» di facile consumo e di grande respiro narrativo.
Che questo sia un luogo comune di cui sono stati vittime molti registi non toglie nulla alla fastidiosa sensazione di tro varsi dinnanzi a una ciclica ottusità nei confronti del cinema e, più complessivamente, della cultura americana.
La Hollywood in cui Lang viene chiamato — David O. Selznick gli fa firmare un contratto per la MGM mentre è ancora in Europa — è un'industria in fase di espansione, affetta dalle tensioni eroiche e dalle rigidità tipiche del nucleo produttivo che non ha ancora conseguito — come accadrà negli anni quaranta — la piena consapevolezza delle proprie potenzialità tecniche e organizzative e al quale non è stata ancora riconosciuta l'identità di centro di cultura a tutti gli effetti. Fritz Lang, che pure non sarà tenero con i produttori con cui lavorerà, si getta nella mischia del continente «America» con un fervore e una curiosità che trova raramente riscontro in altri colleghi immigrati.
L'esperienza del film spettacolare non gli è estranea, né gli manca quella tensione verso un cinema supernazionale, destinato a un pubblico non stratificato che pure aveva tratto in inganno se stesso e il nazismo ai tempi di Metropolis e I nibelunghi. Gli è chiaro soprattutto un concetto: che la via americana al cinema popolare coincide sostanzialmente con l'America stessa, che Stati Uniti e cinema sono, in quest'ottica, pressoché sinonimi.
Nell'anno che precede il primo capolavoro realizzato fuori dall'Europa, Fury (Furia, 1936), Lang trova il tempo e l'opportunità di penetrare, con tenacia e determinazione, l'universo americano.
Ed è singolare come egli adotti, per farlo, modalità conoscitive non intellettuali, o comunque inconsuete per un uomo di cultura europea.
«Leggevo soltanto cose scritte in inglese, — dice nella celebre intervista resa a Peter Bogdanovich1. — Leggevo molti giornali, e i fumetti, da cui imparai moltissimo. Dicevo a me stesso: se della gente, un anno dopo l'altro, legge tanti fumetti, dovrà pur esserci qualcosa di interessante. E li trovai molto interessanti. Acquistai la capacità (e la possiedo ancora oggi) di comprendere il carattere americano; e imparai lo slang. Giravo per il paese in automobile cercando di parlare con tutti. Conversavo con ogni tassista, ogni benzinaio che incontravo, e guardavo i film. Naturalmente mi interessavo molto anche agli indiani, andai perciò in Arizona e vi rimasi per sei o sette settimane vivendo con i navajos. Fui il primo a fotografare la loro pittura su sabbia, cosa che, trattandosi di una cerimonia religiosa, di solito era proibita. In tal modo mi procurai, credo, una certa conoscenza, niente di più. E acquistai una certa sensibilità per ciò che chiamerei l'atmosfera americana.»
I «giornali», i «fumetti», i «film», il «tassista», gli «indiani» sono probabilmente molto di più di ciò che Lang chiama «atmosfera»: rappresentano la scoperta di una nuova materia di racconto e, insieme, il filtro capace di interpretarla, la dimensione «documentaria» del «social setting» e quella leggendaria che lo trasfigura, la varietà tipologica dell'eroe e, al contempo, l'unicità del «Joe Doe» (vale a dire dell'uomo comune) che la figura eroica, malvagia o buona che sia, deve adombrare.
II cinema di Fritz Lang, dal 1935 in poi, è contrassegnato dal continuo sforzo di far aderire la sostanza vitale delle giovani contraddizioni americane alla consapevolezza antica dell'intellettuale europeo.
Dalla Prefazione a Il colore dell'oro. Cinque storie per il cinema, Editori Riuniti, 1990
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