3.10.12

La genesi di “Fiesta”. Hemingway e Scott Fitgerald (di Caterina Ricciardi)

Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald (1924)
“Questo è un romanzo su una signora. Il suo nome è Lady Ashley e quando la storia comincia lei vive a Parigi ed è primavera. Dovrebbe essere una buona ambientazione per una storia romantica e di grande significato morale. Come tutti sanno, Parigi è un posto molto romantico. La primavera a Parigi è una stagione molto felice e romantica. L’autunno a Parigi, anche se molto bello, può trasmettere una nota di tristezza o di malinconia che cercheremo di tener fuori da questa storia». Così iniziava Fiesta, o Il sole sorge ancora, il primo romanzo di Hemingway, pubblicato nel 1926, tutto pervaso da una struggente «nota di tristezza e malinconia». E più o meno con quel tono pedestre andava avanti per altre 16 pagine dattiloscritte per di più appesantite da una dettagliata biografia di Brett Ashley, ritratta come una postuma lady di Henry James (poi malignamente sbeffeggiato nel capitolo XII), prima di giungere alla presentazione di Robert Cohn che andrà a costituire l’inizio della versione definitiva: «Robert Cohn era stato un tempo campione di pugilato di Princeton, categoria dei pesi medi …». Finalmente, a quel punto, ebbe a dire F. Scott Fitzgerald, il romanzo «prende l’avvio», un avvio ora deviato su un influente personaggio di contorno.
Al di là dell’andatura fiacca e retrospettiva, nel leggere oggi quelle righe di esordio si ha l’impressione di una cattiva imitazione dello stile terso e paratattico che Hemingway apprese dal giornalismo e raffinò alla scuola parigina di Gertrude Stein e di Ezra Pound. C’è, sì, la stessa asciuttezza sintattica, e la ripetizione contigua di parole, una ripetizione che qui, tuttavia, non si traduce in un’energia metamorfica (come nello Hemingway migliore), impantanandosi piuttosto in una cadenza stentata, falsa. È evidente che, già maestro nella misura ellittica del racconto (nel ciclo di Nick Adams, 1924), Hemingway aveva ancora da imparare sull’architettura del romanzo, e del romanzo cosiddetto di «selezione» (o sottrazione) di quel primo Novecento.
Sulla forma lunga, invero, una sobrietà di costruzione e di dialogo perfettamente equilibrata gli riuscì poche volte: nel caso di questo capolavoro, solo in parte in Addio alle armi, e forse, molto più tardi, con Al di là dal fiume e tra gli alberi (1950), il romanzo veneziano bersagliato dalla critica proprio quando si andava preparando il Nobel. Ma nell’arte del racconto le sue straordinarie doti di composizione non subirono mai flessioni.
Diverso è il discorso su Fitzgerald. Il commercio con le riviste a alta tiratura – che Hemingway sentiva come uno «sputtanamento» del talento – gli permetteva – così Scott affermava – di guadagnare abbastanza per scrivere romanzi «decenti». Secondo Edmund Wilson, alla sua morte egli lasciò non «il diamante grande come il Ritz» (i racconti: un buon numero dei quali peraltro di altissima qualità) che mercenariamente perseguiva, ma «due smeraldi, verdi e lucenti, uno tagliato incompiutamente, / l’altro in maniera consumata», entrambi – Wilson aggiungeva nella sua «elegia» – «trovano posto / nell’astuccio delle Lettere più lussuoso di quelli di Cartier». Egli si riferiva all’incompiuto Gli ultimi fuochi, i cui frammenti stava ricomponendo in una forma pubblicabile, e al Grande Gatsby (1925). Tralasciava Tenera è la notte (1934), la perla più bella e sofferta, su cui, a suo tempo, aveva espresso riserve.
Tanto più difficile allora vedere un romanzo di Hemingway in un astuccio di Cartier, dove Wilson avrebbe esibito piuttosto uno qualsiasi dei suoi racconti. Fiesta, tuttavia, lo entusiasmò, pur non sapendo che, in filigrana, nascondeva lo zampino calibrato di Scott. Infatti, con quel preambolo ‘vecchio stile’, spolverato di giudizi autoriali ottocenteschi, Fiesta raggiunse Maxwell Perkins, l’editor di Scribner’s a New York, al quale Fitzgerald aveva raccomandato il nuovo amico. È il maggio del 1926, e un gruppo di espatriati che, nell’andirivieni, includeva John Dos Passos, Dorothy Parker, Archibald MacLeish, Isadora Duncan e i ricchissimi Gerald e Sara Murphy (i corruttori, secondo Hemingway, dell’innocente «povertà» degli scrittori della Lost Generation), trascorreva qualche settimana a Juan-les Pins sulla Riviera. Fu solo allora che Hemingway decise di dare in lettura a Fitzgerald la copia del dattiloscritto ormai congedato. Si vedevano tutte le sere per lunghe bevute che Ernest sopportava bene e Scott no. Diventava insopportabile, infantile e violento, adottando, insieme a Zelda, comportamenti avventati che lo portavano in gattabuia per la notte, oppure su un ring improvvisato a misurarsi con Hemingway in qualche round di pugilato fra pesi impari. Fu un’estate di sprechi, soprattutto ai fini della composizione di Tenera è la notte, il quarto romanzo di Scott, che stentava a decollare.
Hemingway poco dopo si spostò a Pamplona, alleviando le tensioni (anche nei rapporti matrimoniali) della comitiva. Ma prima di partire gli era ormai chiaro di avere problemi non risolti con il suo primo romanzo. La lettera che Scott gli aveva consegnato – con l’intento di preparare il terreno per una discussione a voce che sapeva scomoda – elencava difetti diffusi: l’avvio sbagliato, il ritmo zoppicante, la sciatta inefficacia, anche linguistica, di alcune parti, commenti in eccedenza di varia natura, sbavature da guida turistica sul Quartiere Latino. Quindi, consigliava concisione, precisione, e soprattutto l’omissione di ogni antecedente alla vicenda narrata: il glissando sul passato (su cui egli era grande esperto) che doveva riemergere distillato nel corso della storia. Una tecnica diversa rispetto a quella necessaria nell’arco concentrato e epifanico del racconto.
Dieci preziose pagine di correzioni che Hemingway conservò, non buttò mai via come forse sarebbe
stato tentato di fare. Esse sono la prova di un «taglio cesareo» simile a quello più celebre che Ezra Pound aveva compiuto quattro anni prima sulla Terra desolata di T.S. Eliot. Fitzgerald era allora l’autore del Grande Gatsby, e Hemingway lo ascoltò. Non aveva ancora affilato le sue frecce velenose.
In una lettera a Max Perkins del 5 giugno annunciava il suo piano di lavoro sulle bozze: «il libro comincerà a pagina 16. Non c’è nulla prima che non venga fuori, o non sia spiegato, o ribadito nel resto (…). Credo che così si muoverà molto più velocemente sin dall’inizio. Scott è d’accordo. Ha suggerito una serie di tagli in quei primi capitoli – che a me non sono mai piaciuti – ma credo che sia giusto sfrondare, e lui concorda». Scott «concorda», non ‘consiglia’. Ma così nasceva il suo capolavoro. «Maestro» («Cher maître», aveva scritto Eliot a Pound nel 1922), egli chiamerà l’amico qualche settimana dopo, esprimendogli riconoscenza: «ho tagliato tutta la prima parte. Ho fatto tutta una serie di tagli minori e un sacco di riscrittura e di prosciugamento». Quando a fine anno giunsero le recensioni rincarerà la dose di gratitudine: «i ragazzi sembrano divisi nell’avvertire
che ho copiato di più da te o da Michael Arlen e quindi sono molto grato a entrambi – e specialmente a te, Scott, perché mi stai simpatico e non conosco Arlen» (n.d.r.: un americano-armeno minore ma molto popolare). Un’ammissione di debito che presto dimenticherà.
Nell’inaffidabile Festa mobile racconterà tutt’altra storia, tralasciando di ricordare anche il prezioso contributo di tre anni più tardi su Addio alle armi, quando Fitzgerald si affrettò allarmato a esprimere le sue perplessità sul finale e soprattutto (con buone ragioni) sul personaggio un po’ artificioso di Catherine Barkley, di cui non approvava la parlata poco convincente, «stantia» (una lettera di 9 pagine). Ancora una volta Scott aveva visto giusto (come più tardi vedrà giusto Edmund Wilson). Hemingway, tuttavia, ormai cavalcava la cresta dell’onda che Scott aveva dominato da solo, e nella quale ora – in attesa di finire Tenera è la notte – sembrava annaspare. Ma, con bassa sprezzatura («Kiss my ass EH»), questa volta Ernest non volle dargli ascolto o, perlomeno, non lo ascoltò ufficialmente. È certo, infatti, che si pose subito all’opera sul finale del romanzo, un finale che riscrisse ben trentanove volte prima di ottenere la chiusa mirabile che oggi leggiamo.
Dell’amicizia fra questi due geniali talenti – uno con le «ali di farfalla» e l’altro con la pelle di leone – si conoscono pettegolezzi coloristici, aneddoti maliziosi a basso prezzo, messi in circolo (e ripresi ancora oggi con altrettanta leggerezza) per lo più da Hemingway. In realtà, il loro caso – come quello di Pound e Eliot, Pound e Joyce, Pound e Yeats – pone problemi di sostanza sull’arte – spesso di scambio, o di mutuo consiglio – dei Modernisti.
È una questione che si va via via chiarendo ma che, in termini generali, resterà aperta finché non saranno studiati (con i manoscritti) i numerosi carteggi intercorsi fra i tanti protagonisti, carteggi (per lo più ancora inediti, o pubblicati parzialmente) capaci di influire sulla storia dei testi come pure di modificare le biografie, pur accurate, che circolano. Pertanto, forse è bene diffidare delle memorie romanzate e postume di Festa mobile (pubblicate senza il controllo finale del loro autore). L’epistolario fra i due più grandi (ma si aggiunga Faulkner) e amati narratori del Novecento americano, ci narra un’altra storia.

“alias” 6 agosto 2011

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