3.10.12

Ovidio, le "Metamorfosi", il commento di Kenney (Roberto Andreotti)

Con la pubblicazione del quarto dei sei volumi previsti, l’edizione commentata delle Metamorfosi diretta da Alessandro Barchiesi per la Fondazione Valla conferma il suo profilo internazionale, contrassegnato sin dall’esordio (2005) dall’ampio saggio-lascito di Charles Segal, concepito praticamente in articulo mortis. Nella staffetta dei curatori, dopo Barchiesi e Rosati, la nuova frazione, che copre stavolta i libri centrali del poema, è stata affidata al decano dei latinisti di Cambridge, Edward J. Kenney, del quale si può parlare a buon diritto di lunga fedeltà ovidiana (le prime Notes on Ovid su «Classical Quarterly» risalgono al 1959). Già a una prima impressione di lettura – ma naturalmente saranno il tempo e l’uso della comunità a farlo crescere – il suo commento si staglia dalla cintola in su: puntuale e insieme spazioso, con un occhio di riguardo alla tradizione inglese che in questo campo ha la leadership, generosamente esposto sull’esegesi dei singoli passi, netto quando c’è da disboscare una bibliografia infinita, sempre pervaso da un apprezzabile sense of humour (Ovidio aiuta)…
Era, e rimane, parte integrante del programma addolcire quando è possibile le pareti di sesto grado senza rinunciare al rigore: per esempio segnalando a margine della versione italiana le «note indispensabili alla comprensione del testo», e fornendo sempre, nel corpo del commento, la traduzione dei passi greci e latini citati per esteso. Ma non va poi trascurato, venendo decisamente a questo volume, il fatto di poter leggere direttamente in italiano, grazie alla traduzione eccellente di Ilaria Marchesi, l’Ovidio di uno studioso della statura di Kenney…
Il tono del commento (bisognerebbe dire la tastiera dei toni) è significato dall’introduzione al volume, in cui Kenney sembra condensare un’intera carriera in compagnia di Ovidio a Cambridge. Essa è costruita come un poliedro solido che getta sul testo e sul corredo imminenti, degli squarci di luce molto promettenti per il lettore. Ci sono, come ci si aspetta, le sfaccettature dedicate a un’interpretazione del poema e alle sue ambizioni sia nella bruciante carriera del poeta sia nel sistema augusteo, a cominciare dal rapporto agonistico con la stella in assoluto più brillante, Virgilio, un match che prosegue sino ai giorni nostri nel derby tra scholarship inglesi (Virgilio/Oxford da una parte, Ovidio/Cambridge dall’altra).
Molto efficace risulta l’impiego da parte di Kenney degli scrittori moderni convocati con rapida intesa in chiave interpretativa... I loro nomi spuntano a sorpresa nella selva delle citazioni antiche: «il mondo delle Metamorfosi è una trasposizione in chiave fantastica del quotidiano, ma è una trasposizione che rimane fedele – si vorrebbe dire, à la Nabokov – all’originale, popolata di uomini e donne con le cui esperienze ci possiamo relazionare». Certi nomi contemporanei saranno meno familiari di Camus ai latinisti italiani (P.G. Wodehouse), mentre l’universalità scolastica di un popolare topos retorico culmina con una sprezzatura del tutto inattesa: «il motivo “tutto il mondo stava riposando, a eccezione di...” ha una lunga tradizione, che a partire da Omero, passando per Dryden, arriva all’“In the wee small hours of the morning” di Frank Sinatra» (p. 240). Viceversa campeggiano bene in evidenza nell’epigrafe al volume le Conversations of James Northcote di William Hazlitt, a scolpire non solo il programma di lavoro delle Metamorfosi ma persino del suo commentatore.
Il punto è la «commistione di ridicolo e patetico» che rendeva Goldsmith, come lo stesso Shakespeare, così «profondamente simile alla natura», alla «tragicommedia» della vita: «metti di stare andando ad assistere a un’esecuzione e di vedere, per caso, una fruttivendola che si dispera a morte perché il banchetto le è stato rovesciato: come fai a non sorridere?». Esattamente quello che fa Ovidio orchestrando i miti e ammiccando alle spalle dei suoi personaggi impegnati in dispendiose peripezie che hanno a che fare con l’amore, la violenza e la morte, anche a costo di rovesciare la tragedia in farsa (come nella caccia al cinghiale calidonio: lo vedremo) e il sublime in ‘commedia’ (nell’apoteosi di Ercole)…

La partita truccata di Medea
Ma entriamo finalmente, sia pure per prelievi istologici, nelle viscere di questo commento e, attraverso il set delle lenti utilizzate da Kenney, accostiamoci alle ‘favole’ delle Metamorfosi comprese nei libri VII, VIII e IX. Nell’apparato le più sottili osservazioni da ‘grammatico’ si trovano affiancate regolarmente ad annotazioni di compasso più largo inerenti le modalità ovidiane di tagliare i materiali mitografici a disposizione: il classico curriculum eroico di Teseo che si assottiglia divenendo puro pretesto per altri incastri narrativi; quello di Ercole che con la sua stazza biografica (e letteraria) domina tutta la prima parte del IX Libro, le cui dodici fatiche finiscono a catalogo nel retorizzante monologo – quando è ormai preda dei veleni infuocati di Nesso che gli stanno divorando le carni – in quanto l’angolo di narrazione scelto da Ovidio, da leggere costantemente contro lo sfondo delle Trachinie, è la contesa (con Acheloo) per Deianira, prima della morte lancinante dell’eroe già incorporato, all’epoca del poema, nel programma ideologico di Augusto.
Qualcosa del genere è già toccato a Medea (VII, 7-424) e alla sua saga resa canonica prima da Euripide poi dalle Argonautiche. Medea la straniera, la barbara, l’infanticida, ma qui soprattutto la maga torva che soggioga e incatena gli arcana mundi. Quando arriva nelle Metamorfosi, l’eroina ha già provato la cura-Ovidio: così per esempio il canonico dibattito interiore tra «amor» e «pudor» dopo il colpo di fulmine è in realtà «una partita truccata» dal poeta, in quanto «è chiaro che (Medea)
sa già cosa farà» (Kenney, 212).
Vale la pena di citare il commento di Ovidio a conclusione del suo monologo drammatico: «dixit, et ante oculos Rectum Pietasque Pudorque / constiterant et victa dabat iam terga Cupido» («Disse, e davanti agli occhi le s’eran parati Giustizia, Pietà, Pudore: Concupiscenza, vinta, già dava le spalle», 72-73); e Kenney: «i grilli parlanti di Medea si schierano, e il maximus deus (sc. Cupido), messo in minoranza, si ritira, almeno apparentemente ». Già sappiamo come andrà a finire. Medea e tutte le altre eroine innamorate che furoreggiano in questi libri delle Metamorfosi sono arrivate allo stadio del poema così letteraturizzate che i lettori (e le lettrici!) si trovano alle prese più che altro con delle consumate donne di picche che giocano alle adiuvanti sedotte e tradite, ma in realtà sono loro a muovere i fili dei partner, da Giasone a Meleagro, impegnati nelle virili imprese, dando alla spettacolare macchina scenica una coloritura manierista. Il lungo episodio di Medea è un’ottima scuola per apprendere in che modo Ovidio è solito rimontare i miti, col pretesto di una metamorfosi spesso periferica, manipolando i materiali consegnatigli da una già lunga tradizione greco-latina, che deve sempre essere sollecitata alla memoria di chi lo sta leggendo (soprattutto a questo serve un buon commento). Il livello esponenziale di questa sua corsa della morte è la gara con se stesso, dare un ulteriore giro di vite alle precedenti prove elegiache (le Eroidi soprattutto, dove si è potuto permettere, forzando il genere, le più inattese proposte concettuali).
Delle tre Medee ovidiane (la tragedia omonima è perduta) questa non è affatto «l’impotente vittima
d’amore che ci aspetteremmo, ma un essere che per la sua passione si trasforma in un tramite di forze primigenie, un conduttore di energia divina che gli uomini toccano a loro rischio e pericolo» (Kenney, 219). Perciò il fuoco del testo non è nelle prove di Giasone, protetto dagli incantesimi di Medea, per la conquista del vello d’oro (i tori «aeripedes» e dalle nari d’acciaio, i guerrieri nati dai denti seminati, il dragone che non s’addormenta mai). Su di esse Apollonio Rodio aveva speso dettagli ed esametri in quantità, qui vengono «condensate drasticamente», con il risultato di «togliere a questi episodi ogni drammaticità e suspense: alla fine è una passeggiata per Giasone, che non è chiamato nemmeno a simulare un po’ di sforzo o ansia» (Kenney, 229).
Il baricentro drammatico è piuttosto nella seconda parte del racconto dove Ovidio si concentra sulle arti prodigiose della maga portando in primo piano l’episodio, trascurato dallo stesso Apollonio, del miracoloso ringiovanimento di Esone – una metamorfosi «per grazia ricevuta» –, e poi quello, più noto, dell’assassinio di Pelia, in cui Medea diabolicamente trasforma le stesse figlie nelle ignare killer del padre. È un lungo brano intriso di malvagità e commentato dalla «macabra ironia» del ‘regista’, che culmina con le parole troncate della vittima: «“quid facitis, natae? quis vos in fata parentis / armat?”ait. cecidere illis animique manusque; / plura locuturo cum verbis guttura Colchis / abstulit et calidis laniatum mersit in undis» («“Che fate, figlie? Chi vi arma” dice “contro la vita di vostro padre?”. Cascano a quelle animo e mano. Direbbe di più, ma la donna di Colchide gli mozza gola e parole e così straziato lo immerge nell’acqua bollente»).
Scilla che per amore di Minosse – l’avvenente capo nemico studiato dall’alto delle mura come in una «teichoscopia» – tradirà in uno il padre e la patria, apre l’ottavo libro (vv. 6-151), quello in cui – come già aveva notato il Wilamowitz – «il lettore è esposto a continui cambi di tono e livello stilistico e a diverse combinazioni del registro patetico e comico, grandioso e basso». È la celebrata
polifonia delle Metamorfosi.
A differenza di Medea, Scilla non riuscirà a «tenere sotto controllo le conseguenze della sua infatuazione». Sedotta e frettolosamente rifiutata, grida a Minosse la cocente disperazione del copione, formulando con acuto gioco di parole una personale versione del suo stesso mito («...Giove non rapì tua madre sotto forma di toro: è falsa la storia della tua nascita: fu un toro, un toro vero a generarti») sottintendendo, annota maliziosamente Kenney, che per lei «il vero Minotauro» (il mostro nato dall’unione indecente della sposa di Minosse, Pasifae, con un toro) è Minosse!

Atalanta e la caccia finita in farsa
Spesso il trattamento operato da Ovidio sui miti va ascritto a quello che Kenney chiama «la svalutazione dell’eroico». Un eccellente esempio (VIII, 260-444) è l’episodio, ancora nel segno di Teseo, della caccia al terribile cinghiale calidonio, una storia ereditata da Omero e Bacchilide (oltre a un perduto Euripide) che a causa delle Metamorfosi intrigherà i pittori fiamminghi.
Qui la protagonista femminile è Atalanta dalla «facies, quam dicere vere / virginem in puero, puerilem in virgine possis» («l’aspetto, potevi a ragione dirlo di vergine in un fanciullo, o di fanciullo in una vergine»: ma quanti «fanciulli» dovremo ancora sopportare? ormai esistono solo nelle versioni dal latino e dal greco). Atalanta, esemplata sulla Camilla virgiliana, compare al culmine di un omerico catalogo maschile di cacciatori, e dal momento del suo ingresso in scena il registro del racconto, come aveva notato già Horsfall, cambia radicalmente: Ovidio (Kenney, 333) «spoglia la storia di qualsiasi traccia di dignità epica; la caccia diviene una scena di farsa chiassosa, in netto contrasto con il toccante epilogo» virato inaspettatamente «verso la rappresentazione tragica», dopo che il vincitore Meleagro, donato ad Atalanta il trofeo, scatena l’invidia degli altri maschi. In una sorta di «parodia del furor epico», allo straziante sterminio di consanguinei segue l’‘esecuzione’ dello stesso Meleagro da parte della madre Altea, previo un memorabile monologo che dobbiamo gustare, suggerisce Kenney, ripristinando la lettura ad alta voce.

Strizza l’occhio ai postumi
Dicevamo dell’abilità sorniona di Ovidio nel tagliare la stoffa mitica contando sulla complicità stilistica del lettore: lo sorprendiamo interessato alle minute varianti raramente accolte dalla tradizione che ha la leadership del mito, con il ricorso a fonti così erudite da rimanere sconosciute
persino ai lettori colti (Nicandro via-Antonino Liberale, l’Ornithogonia di Boio e poi di Emilio Macro) e soprattutto a quelle ‘edizioni’ alternative che gli consentono di aprire, all’interno della storia che sta raccontando, varchi in cui insinuare finti dubbi da filologo alessandrino e pungenti ironie. Talvolta ha persino l’aria di strizzare l’occhio agli editors postumi (non era certo immune dal preconizzare gloria imperitura al suo poema). Il risultato è che di fronte a tanta mole di erudizione anche il commentatore deve calibrare: lo spazio a disposizione non è illimitato. Ma difficilmente egli rinuncia a radunare e segnalare i vari dossier che stanno alle spalle della sprezzatura ovidiana nei confronti delle fonti, e che ogni lettore familiare ai miti classici è in grado di assorbire se non di anticipare.
Questo servitium non ha certo lo scopo di gravare la nostra lettura di fardelli superflui o trascurabili: è che dietro la ridda e la polifonia mozartiana delle Metamorfosi c’è sempre la sala macchine a reclamare la dovuta attenzione. Un buon esempio… è quello in cui il poeta gareggia con se stesso trattando il mito del labirinto e dell’impresa di Teseo. A proposito di Arianna crudelmente piantata in asso, Ovidio dice (VIII, 176-7) «desertae et multa querenti /amplexus et opem Liber tulit» («all’abbandonata, che a lungo si lamentava, Bacco portò amplessi e aiuto»). Commento di Kenney: «una delle migliori sillessi di Ovidio che condensa spiritosamente in quattro parole eventi che nell’Ars avevano richiesto cinque distici» (pp. 325-326). E su «multa querenti»: «una delle migliori battute intertestuali del poema. Le sue “lunghe” lamentele sono limitate a una singola parola perché Scilla gliele ha tolte tutte di bocca ... A lei Ovidio aveva comunque concesso di parlare quanto voleva nelle Heroides»…
Egli (Ovidio, n.d.r.) non è un poeta per lettori enigmisti, semmai per intenditori. Preferisce sempre alleggerire i tour de force stilistici e i pezzi di bravura (memorabile quello sulla peste di Egina après Tucidide e Lucrezio, VII 523-613, che «non coinvolge emotivamente») ricorrendo all’ironia: e si tratta di un’ironia sempre certificabile da chi, al pari di lui, possieda tutta quanta la letteratura antica. Certo, rispetto a noi egli ha il vantaggio di una biblioteca che nel frattempo abbiamo perduto in parte o interamente, a cominciare dalla tragedia greca e romana, Ennio, e così via; in compenso non ha potuto ancora leggere né Shakespeare né appunto Nabokov, ma neppure Seneca e Petronio, tutte chiavi a diverso titolo utilissime per comprendere a fondo certi aspetti delle Metamorfosi, un’opera destinata, in questo senso, ad aumentare.
Dal canto suo Edward J. Kenney mi sembra meno interessato (per esempio rispetto a Rosati) al registro puramente narratologico degli incastri e degli avvitamenti tra le storie, tuttavia se occorre occuparsi di cornici, inquadrature e architettura lo fa sempre con inglese parsimonia, e lascia il suo segno indelebile…

Piangere su Filemone e Bauci?
Risale agli anni del ginnasio, invece, quando l’orologio per forza di cose segnava ancora il tempo dell’apprendimento linguistico del latino attraverso le storie immortalate dalle Metamorfosi, lo struggimento per la pietas e il destino nell’episodio di Filemone e Bauci, che Kenney definisce un interludio idillico pieno di fascino e interesse umano (VIII, 611-724): Ovidio stavolta si commuoverà? Di sicuro non rinuncia a nessuna delle frecce letterarie offertegli da questa sorta di prezioso epillio di ambientazione frigia, in gran parte giocato sulla fresca descrizione domestica di una modestissima capanna agreste, in cui capitano in incognita gli dèi, accolti come viandanti dalla coppia armoniosa dei coniugi. La vedremo unita per sempre complice l’ennesima metamorfosi arborea, che offre al poeta il destro per uno dei suoi memorabili pezzi di bravura berniniana alle prese con l’incipiente corteccia.
Rileva giustamente Kenney che di certo sarà piaciuta ad Augusto questa diapositiva di Ovidio che allude senza possibilità di errori alla Casa Romuli sul Palatino e alle origini umili di Roma: è un aspetto, quello dell’ideologia del ‘primo’ destinatario, che non si deve mai trascurare quando si sprofonda nelle isoipse delle Metamorfosi.

da una recensione su “alias” 6 agosto 2011

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