La figura di Antonio
Gramsci sembra resistere all’oblio e/o alla damnatio memoriae
a cui appare destinata l’intera elaborazione teorico-politica della
sinistra novecentesca. Anzi, dopo la parziale eclissi negli anni
della dissoluzione del comunismo e del Pci, l’opera del dirigente
comunista riscuote un nuovo interesse, tanto sul piano filologico
quanto su quello interpretativo.
Naturalmente Gramsci non
sfugge al filone delle rivelazioni su “quanto erano cattivi i
comunisti”: solo dal 2011 a oggi abbiamo saputo che a) Gramsci era
un intollerante e totalitario che impedì alla sinistra di essere
guidata dal riformista Turati; b) si convertì in punto di morte
guardando un’immagine sacra; c) negli ultimi anni era uscito dal
Pcd’I e il Quaderno che lo rivela è stato distrutto dal diabolico
Togliatti; d) il quale, insieme a Stalin, era il vero carceriere di
Gramsci. Tuttavia, anche in questi casi si può scorgere la vitalità
di una presenza, poiché in certe improvvisate avversioni ritornano
in forma “volgare” contrasti interpretativi che accompagnano da
sempre la discussione sul grande sardo.
Della storia della
ricezione di Gramsci dà conto approfonditamente la ricchissima
ricostruzione di Guido Liguori (Gramsci conteso. Interpretazioni
dibattiti e polemiche, Editori Riuniti, Roma 2012). Lo studioso,
già coautore con Pasquale Voza del Dizionario Gramsciano
1926-1937 (Carocci, Roma 2009), mette in evidenza le ragioni
molteplici della fortuna di Gramsci, cui hanno cooperato
un’attenzione filologica costante (la storia delle due edizioni dei
Quaderni meriterebbe una trattazione a parte) e la tenacia di
un articolato gruppo di studiosi militanti.
Da un lato il dibattito
su Gramsci è un prisma che consente di leggere la storia della
cultura italiana del secondo dopoguerra, con implicazioni politiche
vaste e ramificate; parafrasando lo stesso autore sardo, i quaderni
sono una storia d’Italia in un’ottica monografica. Dall’altro
Gramsci ha una vasta eco internazionale, e certi suoi concetti e
termini hanno innervato esperienze di studio in molteplici direzioni
anche fuori dal contesto del marxismo. È impossibile immaginare
tutto ciò che Gramsci ha significato senza tenere conto dei modi e
delle forme in cui la sua opera è stata divulgata, ovvero senza il
lavoro approfondito e accurato, sempre sorvegliato politicamente ma
solo marginalmente censorio, compiuto da Togliatti. Già esaltato
come “capo della classe operaia italiana” subito dopo la morte,
Gramsci diventa il punto di riferimento teorico politico e culturale
del Pci nel momento della fondazione del “partito nuovo”. Nella
pubblicazione delle Lettere nel 1947 e della prima edizione -
quella tematica - dei Quaderni del carcere (1949), Togliatti
utilizza la lezione di Gramsci come linea genealogica di un partito
popolare e nazionale, erede di una tradizione democratica, in grado
di fare da punto di riferimento per l’opinione progressista e in
particolare per il ceto degli intellettuali. Su questa linea, che
privilegia il “grande italiano” e l’uomo di cultura rispetto al
dirigente politico (che però non viene mai misconosciuto), vi sono
forzature e omissioni, e d’altra parte l’operazione è comunque
di grande respiro e fondata su alcuni elementi di fatto, come
l’attenzione specifica di Gramsci alla situazione italiana e il suo
approccio prevalentemente storico-letterario. In ogni caso attraverso
questa mediazione Gramsci diviene uno dei punti di riferimento
dell’identità del Pci. Da questo momento ogni discussione, ogni
svolta, ogni approccio diverso si avvarranno di rimandi,
reinterpretazioni, riletture della sua opera. Ciò è evidente dopo
il 1956, con il rilancio della “via nazionale al socialismo”, che
Togliatti ricollega direttamente al Gramsci di Lione e del carcere,
mettendo in secondo piano il periodo dell’Ordine Nuovo e gli esordi
del Pcd’I. Ma il riferimento si ritrova anche nel dibattito su
arretratezza/sviluppo del capitalismo italiano, sul rapporto
egemonia-democrazia e sul problema della “conquista dello stato”.
A queste tematiche si aggiungono negli anni ‘70 e ‘80 i nodi
della storia del partito e del legame col comunismo sovietico, mentre
l’approfondimento filologico, culminato nell’edizione critica dei
Quaderni del 1975, offre materiali sempre più ampi alla
ricerca e alla discussione. Nelle fasi finali del Pci, tra la caduta
del muro e lo scioglimento del partito, anche se l’atteggiamento
prevalente è quello di disfarsi dell’intera propria storia, non
mancano i riferimenti a Gramsci come teorico della democrazia tout
court, fin quasi a negarne l’effettiva militanza comunista.
Gramsci esprime una forte
attrazione anche fuori dal Pci. Fin dall’immediato dopoguerra si
apre la strada della linea interpretativa liberal-democratica, che
tende a valutare l’opera di Gramsci a prescindere (o nonostante) la
sua militanza politica: la frase di Croce “come uomo di cultura,
Gramsci fu uno dei nostri”, è l’apertura di una tendenza che
avrà in Bobbio un fondamentale sostenitore, sia pure con posizioni
oscillanti: a tratti si sosterrà l’incompatibilità tra la nozione
di egemonia e l’adesione alla democrazia, a tratti quella tra
Gramsci e il materialismo storico. Nell’area culturale del Psi
craxiano questa linea interpretativa assume la definitiva curvatura
anticomunista che arriva fino ad oggi, con due varianti: a) il Pci
non può rifarsi a Gramsci, teorico democratico estraneo al marxismo;
b) Gramsci è un pensatore totalitario, da buttare con tutta la sua
cultura politica. Nella sinistra marxista “eterodossa” molto
varia è la ricezione di Gramsci; al rigetto del filone operaista -
che ne critica l’organicismo e il produttivismo - fa da riscontro
da parte di altre tendenze la valorizzazione del Gramsci
“consiliarista” dell’1919-20, giocato in opposizione
all’aggiustamento “nazional-popolare” della sinistra storica.
La fortuna di Gramsci è
ampia e articolata anche a livello internazionale. Gramsci è in
primo luogo un punto fermo del cosiddetto “marxismo occidentale”,
preso in considerazione soprattutto come teorico di un possibile
modello di socialismo alternativo a quello sovietico. Quando questo
filone tende a divenire marginale, l’importanza di Gramsci cresce
nell’ambito di tendenze di ricerca molto distanti, tra sociologia,
antropologia, cultura popolare, in particolare nelle dinamiche post
coloniali dei cosiddetti cultural studies.
L’internazionalizzazione di Gramsci si manifesta in una miriade di
riferimenti bibliografici, ma anche nel lavoro dell’Intemational
Gramsci Society, che conta diverse sezioni nazionali, compresa
quella italiana, che affianca la storica Fondazione Istituto Gramsci.
Se la presenza
scientifica ed editoriale di Gramsci arriva fino all’oggi, il suo
pensiero non è più oggetto di contesa nel dibattito politico,
nonostante l’evidente pregnanza di certe sue categorie, come la
rivoluzione passiva e il sovversivismo delle classi dirigenti. Non
c’è da stupirsi: della “crisi organica” che stiamo
attraversando fa parte - come ci ha insegnato Gramsci - anche
l’incapacità di tenere insieme politica e cultura, azione
contingente e strategia di lungo periodo.
“micropolis”, maggio
2013
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