Pietro Scarpellini |
Di Pietro Scarpellini
ogni tanto qualcuno si ricorda: una targa, un articolo, una
citazione. In più di un caso si tratta di “indebita
appropriazione”. Tale mi pare, per esempio, quella messa in atto
nella commemorazione fatta a novembre da “Italia Nostra”, la cui
sezione perugina egli aveva fondato e a lungo diretto. A ricordarlo
erano i suoi successori: un avvocato che ha usato le sue benemerenze
ambientaliste e protezioniste per diventare vicesindaco e che, da
vicesindaco, si distingue soprattutto per aver esasperato la
privatizzazione e il degrado degli spazi civici del centro cittadino,
ove ormai non è più possibile un tranquillo passeggiare data
l'invasione permanente dei tavolini e quella semipermanente dei
baracconi; un architetto che di fronte a tutto ciò (e a molto altro)
balbetta.
Altra tempra Scarpellini, che non fu solo un difensore
strenuo e disinteressato della bellezza e del bene comune di fronte a
cementificazioni e mercantilismi, ma fu grande studioso dell'arte
italiana e scrittore dalle doti non comuni.
Ne è testimonianza la
raccolta (in digitale) dei suoi articoli su “Il Mondo” e su “Il
Ponte”, curata nel 2012 dalla deputazione perugina di storia
patria, dei quali m'è accaduto di scrivere su “micropolis” (di
cui fu collaboratore assiduo nell'ultimo tratto della sua bella vita). Si tratta, in generale, di scritti civili,
collegati a battaglie che l'intellettuale Scarpellini sentiva di
dover fare o di scritti “professionali”,cioè di interventi su temi
d'attualità o recensioni di libri e di mostre da parte dello
studioso.
Quella che segue è però, nonostante
l'apparenza della recensione, una pagina diversa, di alta letteratura
illuministica, non dissimile da quelle che, con lo stesso tono basso
e senza tromboni, usava riempire Leonardo Sciascia, quando – da
erudito – si dedicava a figure del passato, ai più
semisconosciute. Nel testo di Scarpellini sul volume recensito (il
Ritratto dell'Umbria di
Cristiano Piccolpasso, edito in quel 1965 dall'Istituto Nazionale di
Archeologia e Storia dell'Arte) si danno informazioni attendibili e
utili, ma ancora di più viene costruito con affetto, ironia e grazia
il ritratto del suo autore, che ne risulta figura interessante e
simpatica. Ne scaturisce senza pedanteria una lezione
etica, l'etica della libertà. Il tutto in un magnifico eloquio,
aulico e leggibilissimo, nel quale non manca quello scarto
dall'ordinario che fa di un artista un artista. Grande Scarpellini.
(S.L.L.)
La Chiesa di S.Angelo della Pace a Porta Sole |
Il nome del gentiluomo
durantino Cipriano Piccolpasso è rimasto fin oggi legato ad una
operetta di notevole risonanza nel campo degli studi sulla ceramica.
I Tre libri dell’Arte del vasajo nei quali egli descrisse i
procedimenti delle officine cinquecentesche con particolare riguardo
per quelle della graziosa Castel Durante, oggi Urbania, che fu la sua
patria, sono stati più volte pubblicati, studiati e commentati in
questi ultimi due secoli. Tuttavia il Piccolpasso, se pur intrattenne
qualche diretto rapporto con la tradizione del paese, mettendo forse
a profitto dei ceramisti la sua abilità nel disegno e fornendo loro
modelli, non fu un uomo del mestiere. Ed anzi nella prefazione del
suo trattato (scritto intorno al 1548 quando era sui ventiquattro
anni) egli confessa di essere sostanzialmente un profano; mentre alla
fine del secondo libro dichiara di aver preso la penna soprattutto
con l’intenzione di cercare un diversivo ai pensieri ed alle pene
d’amore. Ove forse altro non è da vedere se non un vezzo
letterario per ingentilire e nobilitare il soggetto.
Ma le aspirazioni di
Cipriano dovevano andare ben oltre un’esistenza tranquilla tra i
figulinei in riva al Metauro, tra i negozi dell’amministrazione
locale e qualche sfizio letterario per passatempo e scarico d’estro.
Egli aveva un ingegno sveglio ed un carattere assai vivace; la sua
educazione era notevole per il luogo e per i tempi. A Padova, dove
era stato paggio del Patriarca alessandrino, aveva frequentato i
corsi dell’Università, con particolare attenzione per quelli
letterari e scientifici. Sembra dunque assai naturale che il giovane
cercasse di lasciare luoghi, i quali, per quanto a lui cari, non
potevano più dar soverchia soddisfazione alle sue ambizioni.
Tuttavia i documenti sulla sua attività e sulla sua vita tacciono
per circa un decennio. Solo nel 1558 lo ritroviamo a Perugia come
Provveditore di fortezza, ufficio di una certa importanza, cui era
connessa la direzione dei lavori pubblici in città ed in campagna.
Il momento in cui in
Nostro arrivava in Umbria non era davvero dei più favorevoli: il
governo del Papa vi si era installato dopo la guerra del sale e da
poco la Rocca Paolina gettava la sua ombra sui luoghi che avevano
visto insieme alla protervia dei Baglioni, anche le ultime confuse
aspirazioni alla grandezza e alla indipendenza. Per Perugia si
iniziava allora quello che lo storico Bonazzi chiama il «riposo
della servitù»; un riposo forzato, amaro, lunghissimo, che durerà
più di tre secoli. Ma specie in quegli anni di assuefazione al nuovo
regime, gravava sulla città un atmosfera torbida e inquieta: i
nobili, vinti ed avviliti, andavano rimuginando nelle sventure
recenti; i vincitori stessi mentre facevano le prove della loro
politica (nella quale alle blandizie si alternavano le repressioni
più severe) erano pieni di sospetti.
Quali furono, in quei
frangenti i pensieri del Nostro? Certo egli non doveva nutrire
soverchia simpatia per i nuovi padroni. Ma pure fu con loro
ossequiosissimo; mentre d’altro canto si rendeva ben accetto alla
società perugina riscuotendo successi in tutti gli ambienti, specie
in quelli della cultura e dell’arte. Quanto agli incarichi che gli
vennero attribuiti, egli li assolse con zelo e competenza, come
quando, nel 1565, fu spedito per espressa volontà di Pio IV, a far
ricognizione delle varie città e castelli dell’Umbria e trarne una
particolareggiata relazione storico-topologica: il Papa desiderava un
quadro il più preciso ed il più esatto possibile di quei suoi
dominii sempre così torbidi e così inquieti. Dette ordine, per
esempio, che si facesse ben attenzione «se gli uomini sono
industriosi o otiosi, se bellicosi o agricoltori, se fattiosi o
quieti» e principalmente «se affetionati alla Sede Apostolica o a
signori o a principi esterni o famiglie nobili».
Il viaggio si iniziò il
12 aprile 1565 e terminò il 21 giugno di quell’anno stesso.
Periodo di tempo troppo breve perché veramente si potesse eseguire
tutto il lavoro richiesto; riesce anzi sorprendente come il
Provveditore sia riuscito a visitare, a dorso di cavallo o di somaro,
quasi tutte le località più importanti della regione, prendendo
nota, sia pur sommariamente, del loro aspetto, del numero e carattere
degli abitanti, dell’economia del paese, misurando le mura, facendo
il computo dei materiali da guerra esistenti nelle rocche e fornendo
un buon numero di disegni, alcuni dei quali molto belli. Fatto sta
che dopo avervi aggiunti certi suoi ragionamenti tra i quali uno
assai notevole sulla battaglia del Trasimeno presentò il tutto a Sua
Santità, la quale, a quel che pare, ne rimase soddisfattissima.
Ma pel Piccolpasso
quell’indagine non fu un puro e semplice atto d’ufficio, una
pratica tra le molte del suo lavoro di sopraintendente. Il viaggio e
la relazione diventarono per lui un canovaccio sul quale poter poi
rielaborare il vario e vivo materiale di esperienze accumulate nei
diciassette anni della sua permanenza in Umbria. E difatti lasciata
Perugia e ritornato a Castel Durante (per le tristi vicende di cui
diremo tra poco) il Piccolpasso riprese negli ultimi anni di sua
vita, l’argomento, lo ampliò in altri due testi non solo assai più
estesi, ma anche diversi rispetto alla stesura primitiva.
Sono i due manoscritti
oggi nella Biblioteca Vaticana e nella Biblioteca Augusta di Perugia:
il qual ultimo è stato recentemente pubblicato con i disegni e con
la prima redazione (che si trova nella Vittorio Emanuele di Roma) in
un’ottima edizione critica (Cipriano Piccolpasso, Le piante e i
ritratti delle Città e terre dell’Umbria, a cura di Giovanni
Cecchini, Istituto Nazionale di Archeologia e Storia d’Arte, Roma,
Dicembre 1963, pp.307 con 65 tav.).
Si tratta di un libro
prezioso per le interessanti e spesso inedite notizie di storia, di
economia e d’arte; prezioso anche quale documento della Storia
dell’Umbria sulle soglie di una delicatissima fase di involuzione
politica-sociale. Ma non è possibile adesso entrare nei particolari
di un’opera così complessa (e per il lettore che ne volesse essere
informato segnaliamo l’eccellente saggio introduttivo del Cecchini
stesso). Converrà solo accennare che soprattutto nel codice
perugino, il Piccolpasso mise in piena luce la sua interessante
personalità. Difatti non più legato da precisi compiti
investigativi e dagli impegni di funzionario di governo egli poté
esprimersi con maggior libertà. Mescolò con gran disinvoltura gli
argomenti più disparati; le dissertazioni scientifiche di dati
economici, le note tecniche a quelle erudite, la storia alla cronaca.
Certo tra tanto affastellamento di cognizioni diverse è facile
coglierlo in fallo: notare le incertezze della sua preparazione
scientifica, lo scarso ordine mentale, la superficialità ed il
semplicismo con cui affronta spesso questioni difficili e complesse.
Ma in fondo tutto ciò non incide nel valore singolare che prende la
sua descrizione dell’Umbria. Una descrizione che non deriva (come
nelle consimili opere del tempo) delle fatiche di un letterato di
professione o dalle ricerche di un erudito: ma che nasce dall’ingegno
aperto di un geniale dilettante e di un vivace temperamento
d’artista.
Per questa ragione,
malgrado le divagazioni e l’eterogeneità stessa della materia, c’è
in queste pagine un carattere unitario e quasi un filo interno:
ravvisabile non solo nella diretta partecipazione dell’autore ad
ogni piccolo episodio, ma anche nel giudizio morale che movimenta e
colorisce, se pur con discrezione, tutto il racconto. In un contesto
del genere anche l’aneddoto più semplice può acquistare
un’importanza decisiva.
Come, ad esempio, nel
Discorso sopra le cose di Perugia, è il fatto del bastaio di
Porta Sole, il quale citato in giudizio dal suo principale, cominciò
a difendersi in latino: «et cum tanta facilità» dice il
Piccolpasso, «con uno stile tant’alto et tanto elegante, che tutti
quei dottori rimanevano stupidi... Riprendendo anche Monsignore a
costui che a servizio sì vile attendesse, offerendoli Monsignore la
casa, da vivere et honesta provvisione come facevano anco molti di
quei dottori, costui ringraziava tutti e diceva che la libertà era
troppo gran ricchezza et che servire era troppo gran peso...».
Libertà: questa parola
suona improvvisa, quasi drammatica nello sfondo di una Perugia così
grigia e malinconica. E nel mentre
usciva dalla penna dell’autore, acquistava un doloroso sapore
autobiografico. Il 23 Gennaio 1575, il Piccolpasso, uscito di
fortezza con due soldati, s’imbatté, per sua sfortuna, in un
giovane, tal Leandro Sori, il quale era solito dileggiarlo. Forse
quella mattina il Provveditore era d’umor nero: fatto si è che
preso «un bastoncello in una bottega di falegname lì vicina diede
due o tre baghettate» al fastidioso motteggiatore. Una cosa da
nulla. Ma essa bastò a far intervenire il Governatore, Monsignor
Valenti. Era costui uomo duro e sospettoso: per le rimostranze della
famiglia del giovane offeso e più ancora per la sua particolar
disposizione a veder dappertutto lo spirito di ribellione, avvertì
immediatamente Roma. E da Roma venne l’ordine di dare un esempio.
Fu così che al Provveditore vennero inflitti tre tratti di corda in
pubblico ed una multa di cinquecento scudi. E poiché non poté
pagarla fu bandito da Perugia e dall’Umbria.
Il povero Piccolpasso
cacciato così brutalmente dalla città che era diventata la sua
patria d’elezione, non si riprese più. Ricoperse, è vero, altri
pubblici uffici prima a Massa di Carrara, poi di nuovo a Castel
Durante, ove tornò definitivamente nel 1578; ma alla fine, avvilito
ed anche malandato di salute, lasciò tutti gli incarichi e ritornò,
nell’ultimo anno di sua vita, alle dilette carte perugine. Allora
la storiella del latinista bastaio piuttosto che servitore e famulo
del governo di Monsignore, prese il valore di un apologo, diventò
l’amara morale della sua esperienza di vita.
Il Mondo 29 giugno 65,
ora in Pietro Scarpellini (a
cura di Attilio Bartoli Langeli), Perugia, 2012
Nessun commento:
Posta un commento