Banchieri di fine Ottocento |
«Noi crediamo che tutte
le informazioni siano correttamente riportate in bilancio». Così
rispondeva l’amministratore delegato di Unicredit, Federico
Ghizzoni, a un piccolo azionista che, durante l’assemblea dei soci
convocata in una giornata di metà aprile nell’imponente sede
dell’Eur, chiedeva maggiore trasparenza sulle partecipazioni
offshore della banca. Entrambi avevano le loro buone ragioni per
pronunciarsi in quegli esatti termini. Da documenti rilasciati dalla
stessa Unicredit, che “pagina99” ha potuto consultare, risulta
infatti che al 31 dicembre 2015 il gruppo di piazza Gae Aulenti ha
partecipazioni in almeno una trentina di società basate in località
considerate paradisi fiscali extra Ue. Ma è in buona compagnia. Tra
i primi cinque gruppi bancari italiani tutti hanno controllate in
Delaware, lo Stato americano con le leggi fiscali più vantaggiose e
meno obblighi giuridici, dove sono basate il 60% delle aziende
quotate nel Fortune500 di Wall Street e dove esiste una forma di
società, la Limited liabilities company (Llc), che delega
quasi tutta la regolamentazione di impresa a un accordo tra le parti
e a un unico indirizzo possono essere ricondotte centinaia di società
anonime.
Solo a guardare gli albi
e gli elenchi della vigilanza, nello Stato americano hanno sede
undici società di Unicredit, sei di Mps, due di Intesa, e
altrettante di Banco popolare e Mediobanca. L’offshore is the
new normal, direbbero dall’altra parte dell’Atlantico, e
l’opacità è connaturata ad alcune delle architetture finanziarie
più comuni.
Dalle Canarie a
Jersey
Ma per Unicredit, il
secondo gruppo bancario italiano, i documenti interni dicono qualcosa
di più: elencano diciannove società a Wilmington, due a Dover, due
a Newark, per un totale di ventitre società in Delaware. E poi una
partecipata a Hong Kong, una a Taiwan, una immobiliare a Puerto della
Cruz , nelle Isole Canarie, una società messa in liquidazione nel
bailato di Jersey, paradiso fiscale dell’Isola della Manica e
ancora due alle Bermuda e cinque alle Isole Cayman.
Da quello che è stato
possibile ricostruire, l’elenco comprende hedge fund, cioè
fondi di investimento speculativi, trust o fondi fiduciari, società
di emissione di certificates create alla fine degli anni ‘90
e per lo più dipendenti dal ramo tedesco e austriaco di Unicredit;
alcune hanno un capitale sociale di appena mille dollari, sono in
sostanza dei semplici veicoli per investitori terzi, altre ancora si
occupano di operazioni immobiliari. Le ultime due nate – anno 2015
- sono società di gestione di patrimoni di lusso. Ma i rischi legati
a investimenti in Paesi con controlli laschi sono numerosi e spaziano
dall’eventuale elusione fiscale al celare il vero stato di salute
di una istituzione finanziaria fino ai veri e propri illeciti. La
stessa Unicredit, si può leggere nel bilancio 2015, e diverse sue
controllate dirette o indirette (la Pioneer Alternative
Investments Ltd con sede a Dublino e la controllata di Unicredit
Austria, BA Worldwide Fund Management Ltd, con sede nelle
Isole Vergini), «sono state soggette ad azioni legali o ad indagini
a seguito di uno schema di Ponzi messo in opera da Bernard L.
Madoff». E non a caso nella relazione del consiglio di sorveglianza
si raccomanda di innalzare «l’attenzione sulle entità legali
operanti in paesi periferici».
«UniCredit», risponde
il gruppo bancario interpellato sull’opportunità e la natura delle
sue partecipazioni offshore, «sia in materia fiscale che in ambito
regolamentare, applica le norme rispettandone la lettera e lo
spirito. Questo, ovviamente, anche quando opera in Paesi cosiddetti
periferici. È importante sottolineare che le società in questione
sono tutte segnalate al fisco italiano e tassate adeguatamente, con
imposte applicate in Italia. Le società furono costituite per
operatività in fondi di investimento, assicurazioni ed emissione di
strumenti finanziari in generale».
Così fan tutti
Del resto Ghizzoni aveva
ragione quando diceva che le informazioni sono a bilancio, perché le
controllate nei Paesi offshore sono tutte consolidate nei
conti della capogruppo. Ma solo alcune risultano nella struttura
societaria dell’istituto di credito e ancora meno – una sola
partecipata in Delaware - sono quelle che compaiono nella lista
allegata al bilancio. I regolamenti di Banca d'Italia, infatti,
obbligano a elencare solo le controllate in via esclusiva.
L’acquisto di
partecipazioni di controllo o influenza notevole (cioè
partecipazione diretta o indiretta superiore al 20%) «in banche,
imprese finanziarie, strumentali e assicurative» in Paesi
extracomunitari, precisa la stessa Bankitalia a “pagina99”, deve
essere autorizzato dall’autorità di vigilanza. Che può negare
l’autorizzazione laddove l’operazione sia in contrasto «con la
sana e prudente gestione della banca o del gruppo bancario». Ma solo
se si tratta di uno Stato extracomunitario «diverso da Stati Uniti,
Svizzera, Canada e Giappone». Quindi, le partecipazioni alle Bermuda
o alle Cayman hanno ricevuto il semaforo verde da via Nazionale.
Quelle in Delaware non ne hanno nemmeno bisogno.
Per un piccolo azionista
è difficile orientarsi in una tale mappa del tesoro e non porsi dei
dubbi sulla liceità di queste operazioni, ma non solo per lui. «Le
Bermuda non sono nella black list dell’Ocse, ma non hanno
nemmeno normative adeguate a quelle europee, le Cayman hanno norme
antiriciclaggio, ma la vigilanza è praticamente assente, ma anche
restando al Delaware che comunque è un paradiso giuridico, viene da
chiedersi: perché ho bisogno di controllare più di venti società?»,
osserva con “pagina99” Ranieri Razzante, direttore
dell’Osservatorio sul riciclaggio e il finanziamento del
terrorismo e docente di Legislazione antiriciclaggio
all’Università di Bologna, concludendo: «Mi sembra una questione
di opportunità». Ma la prospettiva cambia radicalmente mettendo la
lista in mano a un professionista del mondo bancario, una trentina di
anni di esperienza nel settore: «Non capisco cosa dovrei dire, cosa
c’è da dimostrare, che le banche aiutano le multinazionali e i
loro clienti a fare transfer pricing (cioè a delocalizzare i
loro profitti dove sono meno tassati, ndr), questo è noto e lo fanno
tutti».
Ecco, distillata in due
risposte, tutta l’ambiguità del fenomeno. Legalissimo fino a prova
contraria. Discutibile dal punto di vista dell’equità fiscale.
Banale per gli habitué della finanza, i detentori e i custodi
di patrimoni da far fruttare sfruttando la vastità del globo e la
varietà delle sue giurisdizioni, ma anche per i loro controllori.
Non servivano, insomma, i Panama Papers per scoprire il mondo
dell’offshore.
Società schermate
Ma i documenti rivelati
dall’International Consortium of investigative journalists
(Icij) hanno dimostrato un altro aspetto ancora: che gli istituti di
credito possono anche rivestire il semplice ruolo di intermediario,
aiutando i propri clienti a creare società schermate. Molte delle
consulenze e dei contatti con lo studio Mossack e Fonseca, secondo i
leaks, passavano infatti dai rami svizzeri e lussemburghesi degli
istituti di credito. Ubi Banca, che secondo i leaks ha
collaborato con lo studio per la creazione di 35 società offshore
basate a Panama e alle Seychelles, ha dichiarato di «non avere
controllate in quelle località». Ne ha invece tre in Lussemburgo,
la più rilevante e nominata nei papers è la Ubi
International Sa: il 28 aprile, nemmeno un mese dopo la pubblicazione
dell’inchiesta, la ex banca popolare ne ha annunciato la cessione
alla svizzera Efg International Ag. «L’operazione», hanno fatto
sapere dall'istituto di credito, «fa parte del programma di cessioni
del gruppo bancario che intende concentrarsi sulle attività core».
E il programma, a guardare i bilanci del gruppo, va avanti da anni.
Nel 2009 l’istituto bergamasco deteneva sei società in Delaware.
La lussemburghese Ubi International Sa controllava il 99% della Ubi
Trust Company Ltd nel Jersey e l’1% della Ubi management Company Sa
ancora in Lussemburgo. La società lussemburghese partecipava anche
in Centrobanca che controllava a sua volta Medinvest che verrà
assorbita da IwBank, la banca online del gruppo al centro di
un’inchiesta per riciclaggio perché dai suoi conti sarebbero
transitati 16 milioni di euro finiti in società basate alle Cayman e
alle Bahamas.
Nel 2010 compare invece
Ubi Leasing Spa, i cui ex dirigenti oggi sono indagati per le ipotesi
di truffa e riciclaggio per presunte vendite sottocosto di beni di
lusso, come per esempio il Cessna di Lele Mora, rivenduto a una
società del Delaware.
Fino al 2011, poi, il
terzo gruppo italiano controllava anche la svizzera Banque de
dépots e de gestion a sua volta proprietaria della Bdg Singapore
Pte Ltd che nel 2012 passa alla solita società lussemburghese Ubi
Banca international Sa. Nel 2013 la Banque de dépots non appare più
tra le controllate e vengono liquidate anche le sei società negli
Usa. Nel 2014 scompare anche la controllata a Singapore. Tanto che
nel bilancio di responsabilità sociale di quell'anno, l’istituto
di credito rivendicava di non avere controllate in località
offshore.
Interpellata
sull’opportunità delle sue partecipazioni anche in merito alle
indagini in corso, Ubi Banca risponde a “pagina99”: «Le
inchieste e i contenziosi sono riportati in modo trasparente in
bilancio, e sono in numero assolutamente contenuto».
“Pagina 99”, 14 maggio 2016
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