1.6.16

Unicredit ha un piede in paradiso. Grandi banche e offshore (Giovanna Faggionato)

Banchieri di fine Ottocento
«Noi crediamo che tutte le informazioni siano correttamente riportate in bilancio». Così rispondeva l’amministratore delegato di Unicredit, Federico Ghizzoni, a un piccolo azionista che, durante l’assemblea dei soci convocata in una giornata di metà aprile nell’imponente sede dell’Eur, chiedeva maggiore trasparenza sulle partecipazioni offshore della banca. Entrambi avevano le loro buone ragioni per pronunciarsi in quegli esatti termini. Da documenti rilasciati dalla stessa Unicredit, che “pagina99” ha potuto consultare, risulta infatti che al 31 dicembre 2015 il gruppo di piazza Gae Aulenti ha partecipazioni in almeno una trentina di società basate in località considerate paradisi fiscali extra Ue. Ma è in buona compagnia. Tra i primi cinque gruppi bancari italiani tutti hanno controllate in Delaware, lo Stato americano con le leggi fiscali più vantaggiose e meno obblighi giuridici, dove sono basate il 60% delle aziende quotate nel Fortune500 di Wall Street e dove esiste una forma di società, la Limited liabilities company (Llc), che delega quasi tutta la regolamentazione di impresa a un accordo tra le parti e a un unico indirizzo possono essere ricondotte centinaia di società anonime.
Solo a guardare gli albi e gli elenchi della vigilanza, nello Stato americano hanno sede undici società di Unicredit, sei di Mps, due di Intesa, e altrettante di Banco popolare e Mediobanca. L’offshore is the new normal, direbbero dall’altra parte dell’Atlantico, e l’opacità è connaturata ad alcune delle architetture finanziarie più comuni.

Dalle Canarie a Jersey
Ma per Unicredit, il secondo gruppo bancario italiano, i documenti interni dicono qualcosa di più: elencano diciannove società a Wilmington, due a Dover, due a Newark, per un totale di ventitre società in Delaware. E poi una partecipata a Hong Kong, una a Taiwan, una immobiliare a Puerto della Cruz , nelle Isole Canarie, una società messa in liquidazione nel bailato di Jersey, paradiso fiscale dell’Isola della Manica e ancora due alle Bermuda e cinque alle Isole Cayman.
Da quello che è stato possibile ricostruire, l’elenco comprende hedge fund, cioè fondi di investimento speculativi, trust o fondi fiduciari, società di emissione di certificates create alla fine degli anni ‘90 e per lo più dipendenti dal ramo tedesco e austriaco di Unicredit; alcune hanno un capitale sociale di appena mille dollari, sono in sostanza dei semplici veicoli per investitori terzi, altre ancora si occupano di operazioni immobiliari. Le ultime due nate – anno 2015 - sono società di gestione di patrimoni di lusso. Ma i rischi legati a investimenti in Paesi con controlli laschi sono numerosi e spaziano dall’eventuale elusione fiscale al celare il vero stato di salute di una istituzione finanziaria fino ai veri e propri illeciti. La stessa Unicredit, si può leggere nel bilancio 2015, e diverse sue controllate dirette o indirette (la Pioneer Alternative Investments Ltd con sede a Dublino e la controllata di Unicredit Austria, BA Worldwide Fund Management Ltd, con sede nelle Isole Vergini), «sono state soggette ad azioni legali o ad indagini a seguito di uno schema di Ponzi messo in opera da Bernard L. Madoff». E non a caso nella relazione del consiglio di sorveglianza si raccomanda di innalzare «l’attenzione sulle entità legali operanti in paesi periferici».
«UniCredit», risponde il gruppo bancario interpellato sull’opportunità e la natura delle sue partecipazioni offshore, «sia in materia fiscale che in ambito regolamentare, applica le norme rispettandone la lettera e lo spirito. Questo, ovviamente, anche quando opera in Paesi cosiddetti periferici. È importante sottolineare che le società in questione sono tutte segnalate al fisco italiano e tassate adeguatamente, con imposte applicate in Italia. Le società furono costituite per operatività in fondi di investimento, assicurazioni ed emissione di strumenti finanziari in generale».

Così fan tutti
Del resto Ghizzoni aveva ragione quando diceva che le informazioni sono a bilancio, perché le controllate nei Paesi offshore sono tutte consolidate nei conti della capogruppo. Ma solo alcune risultano nella struttura societaria dell’istituto di credito e ancora meno – una sola partecipata in Delaware - sono quelle che compaiono nella lista allegata al bilancio. I regolamenti di Banca d'Italia, infatti, obbligano a elencare solo le controllate in via esclusiva.
L’acquisto di partecipazioni di controllo o influenza notevole (cioè partecipazione diretta o indiretta superiore al 20%) «in banche, imprese finanziarie, strumentali e assicurative» in Paesi extracomunitari, precisa la stessa Bankitalia a “pagina99”, deve essere autorizzato dall’autorità di vigilanza. Che può negare l’autorizzazione laddove l’operazione sia in contrasto «con la sana e prudente gestione della banca o del gruppo bancario». Ma solo se si tratta di uno Stato extracomunitario «diverso da Stati Uniti, Svizzera, Canada e Giappone». Quindi, le partecipazioni alle Bermuda o alle Cayman hanno ricevuto il semaforo verde da via Nazionale. Quelle in Delaware non ne hanno nemmeno bisogno.
Per un piccolo azionista è difficile orientarsi in una tale mappa del tesoro e non porsi dei dubbi sulla liceità di queste operazioni, ma non solo per lui. «Le Bermuda non sono nella black list dell’Ocse, ma non hanno nemmeno normative adeguate a quelle europee, le Cayman hanno norme antiriciclaggio, ma la vigilanza è praticamente assente, ma anche restando al Delaware che comunque è un paradiso giuridico, viene da chiedersi: perché ho bisogno di controllare più di venti società?», osserva con “pagina99” Ranieri Razzante, direttore dell’Osservatorio sul riciclaggio e il finanziamento del terrorismo e docente di Legislazione antiriciclaggio all’Università di Bologna, concludendo: «Mi sembra una questione di opportunità». Ma la prospettiva cambia radicalmente mettendo la lista in mano a un professionista del mondo bancario, una trentina di anni di esperienza nel settore: «Non capisco cosa dovrei dire, cosa c’è da dimostrare, che le banche aiutano le multinazionali e i loro clienti a fare transfer pricing (cioè a delocalizzare i loro profitti dove sono meno tassati, ndr), questo è noto e lo fanno tutti».
Ecco, distillata in due risposte, tutta l’ambiguità del fenomeno. Legalissimo fino a prova contraria. Discutibile dal punto di vista dell’equità fiscale. Banale per gli habitué della finanza, i detentori e i custodi di patrimoni da far fruttare sfruttando la vastità del globo e la varietà delle sue giurisdizioni, ma anche per i loro controllori. Non servivano, insomma, i Panama Papers per scoprire il mondo dell’offshore.

Società schermate
Ma i documenti rivelati dall’International Consortium of investigative journalists (Icij) hanno dimostrato un altro aspetto ancora: che gli istituti di credito possono anche rivestire il semplice ruolo di intermediario, aiutando i propri clienti a creare società schermate. Molte delle consulenze e dei contatti con lo studio Mossack e Fonseca, secondo i leaks, passavano infatti dai rami svizzeri e lussemburghesi degli istituti di credito. Ubi Banca, che secondo i leaks ha collaborato con lo studio per la creazione di 35 società offshore basate a Panama e alle Seychelles, ha dichiarato di «non avere controllate in quelle località». Ne ha invece tre in Lussemburgo, la più rilevante e nominata nei papers è la Ubi International Sa: il 28 aprile, nemmeno un mese dopo la pubblicazione dell’inchiesta, la ex banca popolare ne ha annunciato la cessione alla svizzera Efg International Ag. «L’operazione», hanno fatto sapere dall'istituto di credito, «fa parte del programma di cessioni del gruppo bancario che intende concentrarsi sulle attività core». E il programma, a guardare i bilanci del gruppo, va avanti da anni. Nel 2009 l’istituto bergamasco deteneva sei società in Delaware. La lussemburghese Ubi International Sa controllava il 99% della Ubi Trust Company Ltd nel Jersey e l’1% della Ubi management Company Sa ancora in Lussemburgo. La società lussemburghese partecipava anche in Centrobanca che controllava a sua volta Medinvest che verrà assorbita da IwBank, la banca online del gruppo al centro di un’inchiesta per riciclaggio perché dai suoi conti sarebbero transitati 16 milioni di euro finiti in società basate alle Cayman e alle Bahamas.
Nel 2010 compare invece Ubi Leasing Spa, i cui ex dirigenti oggi sono indagati per le ipotesi di truffa e riciclaggio per presunte vendite sottocosto di beni di lusso, come per esempio il Cessna di Lele Mora, rivenduto a una società del Delaware.
Fino al 2011, poi, il terzo gruppo italiano controllava anche la svizzera Banque de dépots e de gestion a sua volta proprietaria della Bdg Singapore Pte Ltd che nel 2012 passa alla solita società lussemburghese Ubi Banca international Sa. Nel 2013 la Banque de dépots non appare più tra le controllate e vengono liquidate anche le sei società negli Usa. Nel 2014 scompare anche la controllata a Singapore. Tanto che nel bilancio di responsabilità sociale di quell'anno, l’istituto di credito rivendicava di non avere controllate in località offshore.
Interpellata sull’opportunità delle sue partecipazioni anche in merito alle indagini in corso, Ubi Banca risponde a “pagina99”: «Le inchieste e i contenziosi sono riportati in modo trasparente in bilancio, e sono in numero assolutamente contenuto».


“Pagina 99”, 14 maggio 2016

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