7.6.16

Sindona e Gualino. Gli affari d’Italia in due vite (Giorgio Boatti)

Ascese repentine e rovinosi capitomboli, ma, anche, un alto tasso di incidenti professionali: nel ruolo che banchieri e big della finanza svolgono nella storia della nostra classe dirigente bisognare mettere in conto anche questo risvolto della medaglia, rammentato da certe drammatiche uscite di scena. Quelle, ad esempio, di Roberto Calvi (Banco Ambrosiano), di GianMario Roveraro (Opus Dei, l’uomo che porta Parmalat alla quotazione in Borsa) e di Michele Sindona.
Sindona se ne va
Il “salvatore della lira
Sul ruolo giocato da quest’ultimo in trent’anni di vicende italiane è uscito da Einaudi un documentato e puntiglioso affresco, Sindona. Biografia degli anni Settanta, dovuto a Marco Magnani, economista della Banca d’Italia. Il sottotitolo del saggio evidenzia l’aspetto fondamentale e prezioso di una ricostruzione che andando oltre la pur rilevante parabola sindoniana, la colloca dentro la complessa partita, non solo finanziaria ma politica, di un decennio tra i più difficili della storia repubblicana.
Certo, le tappe e le modalità dell’ascesa sindoniana nel saggio di Magnani ci sono tutte: a cominciare da quando, nell’immediato dopoguerra, il giovane commercialista di Patti (provincia di Messina) sbarca a Milano, e, a colpi di preziose consulenze fiscali, si conquista la fiducia dell’ala più tradizionalista dell’imprenditoria milanese, poco incline a frequentare l’ufficio tasse. Il successivo salto da Milano a Roma è poi benedetto da una parte della Curia pontificia che, decidendo di rendere liquido e portare fuori dagli orticelli italiani parte dell’immenso patrimonio amministrato dallo Ior, fa di Sindona il braccio finanziario del Vaticano, consentendogli di diventare l’azionista di controllo della Generale Immobiliare, protagonista assoluta della speculazione edilizia nella Roma del dopoguerra.
Acquisita grazie a un massiccio prestito dell’Hambros Bank di Londra, la Immobiliare è un caso da manuale, emblematico di come Sindona dispieghi la sua arte speculativa. Come? Semplice: appropriandosi - scrivono nei primi anni Settanta Scalfari e Turani - «delle spoglie dei vecchi potentati nel momento in cui il sistema economico tradizionale si sta sfasciando». Una volta che ha acquisito le sue prede Sindona ne ignora ogni implicazione produttiva. La sfida industriale non lo tocca. Le prede gli servono come trampolino per ulteriori scalate. In compenso, nelle interviste che rilascia, Sindona - loquacissimo, le mani che non cessano di modellare origami, soprattutto cigni e barchette, da fogli che ha sul tavolo - magnifica gli strumenti finanziari nuovi che sta utilizzando, quali l’opa (offerta pubblica azioni), che non avendo ancora in Italia adeguata regolamentazione gli consente di muoversi in una spregiudicata terra di nessuno.
Pochi anni dopo - quando, frenato in Italia da Cuccia, Cefis e dal governatore della Banca d’Italia Carli, rilancia la sfida e fa il grande salto che lo porta a rilevare a New York la Franklin National Bank, ventesima banca Usa - emerge come dietro lo scontro in corso tra finanza laica e cattolica, tra paladini e avversari di Sindona, ci sia un fitto intreccio filo-sindoniano che salda ambienti vaticani e centri massonici, spezzoni dello Stato deviato e vertici della politica.
Così, al culmine di una tempesta finanziaria internazionale, nei primi anni Settanta, Giulio Andreotti arriverà a definire Sindona un “salvatore della lira”. Non è affatto così e quando le razzie speculative non basteranno a reggere il castello di carte del banchiere e tutto crollerà, a cominciare dalla Franklin Bank, la sua determinazione criminale, alleandosi a settori mafiosi, giungerà a far assassinare Giorgio Ambrosoli, l’integerrimo liquidatore della Banca Privata Finanziaria, reo di aver respinto le pressioni politiche romane dirette a coprire con fondi pubblici le voragini scavate nei bilanci. Condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio, Sindona si suicida due giorni dopo la sentenza definitiva. Dietro di sé, a parte gli origami e lo “scandalo Sindona”, investigato per anni da una commissione parlamentare, solo cocci e voragini sparsi in tutto il sistema finanziario italiano.
Gualino ritratto da Casorati
Il “cagliostro della finanza”
Ma non tutte le discese ardite e le risalite dei banchieri finiscono così, anche se le morti (metaforiche) e le risurrezioni (negli indici borsistici) spesso fanno parte del copione. Ad esempio tre colossali tracolli e altrettante strabilianti rinascite scandiscono la traiettoria di un tycoon dell’Italia della prima metà del Novecento come Riccardo Gualino (Biella, 1879, Firenze, 1964), del quale ormai quasi nessuno si ricorda. Per rammentarne il viso (scavato e deciso) si vedano i ritratti che gli fece l’amico Felice Casorati quando assieme a un altro sodale, lo storico d’arte Lionello Venturi, faceva parte del suo “cerchio magico” torinese. Anni in cui Gualino - azionista alla pari con il senatore Agnelli della Fiat occupata dagli operai lettori dell’Ordine Nuovo di Gramsci - stava per acquisire il Credito Italiano e intanto, discretamente, finanziava l’avventura editoriale del giovanissimo Gobetti. Nel frattempo, convinto che il cioccolato dovesse diventare un consumo accessibile a tutti gli italiani, creava l’Unica, il principale polo dolciario del Paese (Talmone, etc).
Nel primo decennio del secolo Gualino aveva già fatto tempo a diventare un importante commerciante di legname tra l’Impero asburgico e l’Italia, per poi in società con la Hambros Bank di Londra (e rieccoli!) dedicarsi a edificare una sorta di Manhattan nel cuore di San Pietroburgo. La guerra, e la rivoluzione bolscevica, gli spazzano via tutto. Ma, arrivata la pace, lo si trova ben dritto su una montagna di soldi ramazzati con la sua Snia (Società Navigazione Italo-Americana) che ha monopolizzato i trasporti di rifornimenti militari dagli Usa all’Europa. Parte di quanto ha guadagnato lo investe in arte: Modigliani e capolavori (soprattutto fondi oro senesi) di varie epoche, poi donati e che ora si possono vedere alla Galleria Sabauda di Torino. Pochi anni dopo, fabbricando il rayon in decine di stabilimenti Snia Viscosa, Gualino fa dell’Italia la seconda produttrice mondiale di seta artificiale. Se Sindona è stato per Andreotti un “salvatore della lira”, Gualino, arrivata la crisi del 1929, diventa per Mussolini il “Cagliostro della finanza”: da additare quale capro espiatorio alle masse. Mandato nel 1931 al confino, a Lipari, scrive due romanzi - assai interessanti - in un anno. Tornato libero fonda, con discrezione, un colosso dei fertilizzanti, la Rumianca. Intanto riprende a costruire case bellissime per Cesarina, sua moglie: un castello neogotico a Cereseto, una villa sopra la baia di Sestri Levante, un palazzo (con teatro privato incorporato) a Torino. Poi - terza o quarta rinascita di Gualino - fonda a Roma la Lux, casa cinematografica che produce film di Soldati, Lattuada, Castellani, De Sanctis (Riso amaro), Comencini, Germi, Monicelli, Visconti (Senso). Insomma, dietro di sé Gualino, il “Cagliostro della finanza”, non lascia solo origami. Muore nel suo letto, a Firenze, nella villa al Giullarino, nome perfetto per lievi e fecondi commiati.


Pagina 99, 7 maggio 2016

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