Per chi aveva vent’anni
in Sicilia a cavallo degli Ottanta, lo scrittore di riferimento era
Leonardo Sciascia, con la sua passione razionale per i diritti e per
la giustizia, la sua prosa corrosiva del regime politico
democristiano e di quello culturale comunista. Invece Buttafuoco, di
una generazione più giovane, riscopre in una sua personalissima
antologia (Il mio Leo Longanesi) il giornalista, scrittore,
disegnatore, pittore, editore, ma soprattutto il geniale inventore di
aforismi cinici e veritieri, che ancor oggi mettono a nudo un certo
intramontabile carattere degli italiani. «La rivoluzione in Italia
non si può fare perché ci conosciamo tutti», scriveva il grande
Leo. Oppure: «Tutte le rivoluzioni cominciano per strada e finiscono
a tavola».
Romagnolo di Bagnacavallo
radicato a Bologna e poi a Roma e a Milano, nato nel 1905, cresciuto
durante il fascismo e morto giovane, a soli 52 anni, nell’Italia
anti e post-fascista, Longanesi viene scoperto da un Buttafuoco
adolescente nella soffitta della paterna casa familiare siciliana,
dov’è custodita una collezione de «Il Borghese», uno dei
giornali che aveva fondato e diretto e gli era sopravvissuto. Nasce
di lì l’idea di una scelta del meglio delle varie stagioni
longanesiane, con due obiettivi.
Il primo è dimostrare
l’assoluta superiorità della «fronda», cioè quella particolare
forma di presa in giro dall’interno del regime, che consentì a
Longanesi di essere il più acuto canzonatore del fascismo e insieme
il più strategico collaboratore di Mussolini nella comunicazione
(suoi slogan come «Taci, il nemico ti ascolta» o «Veterani si
nasce»), rispetto a qualsiasi tipo di critica e opposizione seria,
ragionata o trombonesca: tra l’altro, secondo Buttafuoco, le tre
categorie non si elidono, ed anzi molto spesso convivono. Il
fondamento di ciò sta nell’affermazione di Longanesi secondo cui i
regimi «non consentono la battuta di spirito, ma hanno il merito di
provocarla».
Il secondo obiettivo è
riconoscere l’assoluta insufficienza, per non dire l’inconsistenza,
della borghesia italiana di qualsiasi epoca e di qualsiasi ordine e
grado - piccola, media o grande -, di fronte ai compiti che le
competono e che gran parte delle borghesie del mondo sono in grado di
svolgere decentemente o con qualche limite, ma mai precipitando tanto
spesso nel ridicolo com’è accaduto e continua ad accadere alla
nostra. E qui l’antologia di Buttafuoco tocca l’apice del
divertimento con la raccolta delle migliori descrizioni dello
scrittore dell’Italietta dei tempi della «battaglia del grano»,
della «bonifica culturale» (tra l’altro Longanesi era convinto
che molto più dell’abolizione della libertà di stampa da parte
del fascismo, sulla qualità dell’informazione di quegli anni,
avesse giocato l’inveterata tendenza all’autocensura e alla
«versione ufficiale» dei giornalisti italiani), della retorica
sull’Antica Roma, per arrivare alle pagine deliziose sulla campagna
d’Africa e sulla nascita dell’Impero, seguita all’esagerata
enfatizzazione dello storico incidente di Ual Ual. L’Italia del
«posto al sole» e degli italiani che sognano «di sposarsi con le
negre», delle canzonette che celebrano i fidanzati che partono per
l’Africa Orientale, di quelli che fanno i conti delle convenienze
che ci saranno a diventare «reduci», e «se l’Africa si piglia si
fa tutta una famiglia».
Poi c’è il Longanesi
giornalista, amico di Montanelli, Moravia, Flaiano, Brancati,
Pannunzio, Benedetti, inventore di un settimanale come «Omnibus»
che sarà la fucina del nuovo modo di informare attraverso le
immagini, la scoperta delle foto, che i quotidiani impiegheranno
altri vent’anni prima di saper usare, e che il nostro trasforma in
un ingrandimento dei tic e tabù di uno Strapaese, l’Italia,
diventata nel frattempo «una democrazia in cui un terzo dei
cittadini rimpiange la passata dittatura, l’altro attende quella
sovietica e l’ultimo è disposto ad adattarsi alla prossima dei
democristiani».
Alla fine di una breve
vita, Longanesi morì circondato da pochi amici, tra cui lo stesso
Montanelli con cui era andato in giro nel ’48 con una macchina e un
altoparlante a fare comizi volanti anticomunisti contro il Fronte
popolare. Fu proprio Indro a ricordare che la figlia Virginia, per
ricordarlo, al funerale disse una frase che sarebbe piaciuta molto al
padre: «E dire che gli orfani mi sono sempre stati così
antipatici!».
La Stampa, 14 maggio 2016
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