22.6.16

Le rivoluzioni finiscono a tavola. Un'antologia di Longanesi (Marcello Sorgi)

Per chi aveva vent’anni in Sicilia a cavallo degli Ottanta, lo scrittore di riferimento era Leonardo Sciascia, con la sua passione razionale per i diritti e per la giustizia, la sua prosa corrosiva del regime politico democristiano e di quello culturale comunista. Invece Buttafuoco, di una generazione più giovane, riscopre in una sua personalissima antologia (Il mio Leo Longanesi) il giornalista, scrittore, disegnatore, pittore, editore, ma soprattutto il geniale inventore di aforismi cinici e veritieri, che ancor oggi mettono a nudo un certo intramontabile carattere degli italiani. «La rivoluzione in Italia non si può fare perché ci conosciamo tutti», scriveva il grande Leo. Oppure: «Tutte le rivoluzioni cominciano per strada e finiscono a tavola».
Romagnolo di Bagnacavallo radicato a Bologna e poi a Roma e a Milano, nato nel 1905, cresciuto durante il fascismo e morto giovane, a soli 52 anni, nell’Italia anti e post-fascista, Longanesi viene scoperto da un Buttafuoco adolescente nella soffitta della paterna casa familiare siciliana, dov’è custodita una collezione de «Il Borghese», uno dei giornali che aveva fondato e diretto e gli era sopravvissuto. Nasce di lì l’idea di una scelta del meglio delle varie stagioni longanesiane, con due obiettivi.
Il primo è dimostrare l’assoluta superiorità della «fronda», cioè quella particolare forma di presa in giro dall’interno del regime, che consentì a Longanesi di essere il più acuto canzonatore del fascismo e insieme il più strategico collaboratore di Mussolini nella comunicazione (suoi slogan come «Taci, il nemico ti ascolta» o «Veterani si nasce»), rispetto a qualsiasi tipo di critica e opposizione seria, ragionata o trombonesca: tra l’altro, secondo Buttafuoco, le tre categorie non si elidono, ed anzi molto spesso convivono. Il fondamento di ciò sta nell’affermazione di Longanesi secondo cui i regimi «non consentono la battuta di spirito, ma hanno il merito di provocarla».
Il secondo obiettivo è riconoscere l’assoluta insufficienza, per non dire l’inconsistenza, della borghesia italiana di qualsiasi epoca e di qualsiasi ordine e grado - piccola, media o grande -, di fronte ai compiti che le competono e che gran parte delle borghesie del mondo sono in grado di svolgere decentemente o con qualche limite, ma mai precipitando tanto spesso nel ridicolo com’è accaduto e continua ad accadere alla nostra. E qui l’antologia di Buttafuoco tocca l’apice del divertimento con la raccolta delle migliori descrizioni dello scrittore dell’Italietta dei tempi della «battaglia del grano», della «bonifica culturale» (tra l’altro Longanesi era convinto che molto più dell’abolizione della libertà di stampa da parte del fascismo, sulla qualità dell’informazione di quegli anni, avesse giocato l’inveterata tendenza all’autocensura e alla «versione ufficiale» dei giornalisti italiani), della retorica sull’Antica Roma, per arrivare alle pagine deliziose sulla campagna d’Africa e sulla nascita dell’Impero, seguita all’esagerata enfatizzazione dello storico incidente di Ual Ual. L’Italia del «posto al sole» e degli italiani che sognano «di sposarsi con le negre», delle canzonette che celebrano i fidanzati che partono per l’Africa Orientale, di quelli che fanno i conti delle convenienze che ci saranno a diventare «reduci», e «se l’Africa si piglia si fa tutta una famiglia».
Poi c’è il Longanesi giornalista, amico di Montanelli, Moravia, Flaiano, Brancati, Pannunzio, Benedetti, inventore di un settimanale come «Omnibus» che sarà la fucina del nuovo modo di informare attraverso le immagini, la scoperta delle foto, che i quotidiani impiegheranno altri vent’anni prima di saper usare, e che il nostro trasforma in un ingrandimento dei tic e tabù di uno Strapaese, l’Italia, diventata nel frattempo «una democrazia in cui un terzo dei cittadini rimpiange la passata dittatura, l’altro attende quella sovietica e l’ultimo è disposto ad adattarsi alla prossima dei democristiani».
Alla fine di una breve vita, Longanesi morì circondato da pochi amici, tra cui lo stesso Montanelli con cui era andato in giro nel ’48 con una macchina e un altoparlante a fare comizi volanti anticomunisti contro il Fronte popolare. Fu proprio Indro a ricordare che la figlia Virginia, per ricordarlo, al funerale disse una frase che sarebbe piaciuta molto al padre: «E dire che gli orfani mi sono sempre stati così antipatici!».


La Stampa, 14 maggio 2016

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