Shanghai
Di tanto in tanto, nelle
periferie delle metropoli cinesi, si ha notizia della confisca degli
strumenti necessari per una radio pirata e dell’arresto di persone
a essa legate. Queste radio non fanno controinformazione. Vendono
pubblicità del prodotto più falsificato al mondo: il viagra. Quello
vero costa tra i 7 e i 10 euro a dose, troppo per la gran parte dei
cinesi adulti. E abbassare il prezzo di base significa triplicare le
vendite. Il mercato esiste, ed è in espansione. Perché dopo gli
anni castigati del maoismo, quando alle masse non erano concesse
pulsioni altre che quelle rivoluzionarie, fare sesso per puro piacere
è tornato a essere accettato e praticato.
Anzi. Nonostante la
bigotta censura del Partito, negli ultimi vent’anni la relazione
dei cinesi con il sesso è completamente cambiata. Ed è forse più
vicina a quella che era nell’antichità.
«Ho compilato la prima
statistica nel 1989. Allora solo il 15% degli intervistati aveva
fatto sesso prima del matrimonio. Ho riproposto lo stesso
questionario un paio d’anni fa. La percentuale aveva superato il
70%». Con un passato di studi negli Stati Uniti e un’indole
personale naturalmente portata alla sperimentazione e alla
provocazione, l’ormai 64enne Li Yinhe è stata la prima sessuologa
ad affermarsi nella Repubblica popolare. La sua teoria è che la
politica che per trent’anni ha obbligato le coppie cinesi a un
unico erede, ha di fatto concorso a scindere il sesso dall’atto
della riproduzione.
«Il giallo e il nero (in
Cina colori associati rispettivamente al sesso e alla politica, ndr)
rimangono tutt’oggi i criteri guida della censura. Ma un tempo si
poteva essere condannati a morte per favoreggiamento della
prostituzione e oggi, il massimo che accade, è che impediscano agli
affari di proseguire. Solo negli anni Ottanta la pena capitale era
prevista anche per chi organizzava orge, festini e scambi di partner.
Oggi quasi la totalità dei giuristi e dei sociologi è convinta che
la politica debba rimuovere i crimini sessuali», sostiene.
La stessa Li parla di una
«rivoluzione». Si pensi che prima del 1997 la pornografia, la
prostituzione, lo scambismo e il sesso prima del matrimonio erano
considerati reati. Per non parlare dell’omosessualità, che è
stata comunque nella lista delle malattie mentali fino al 2001. Oggi
sono comunque punibili ma con pene spesso meno severe di quelle
riportate sulla carta e, cosa forse ancora più importante, nella
maggior parte dei casi non vengono denunciati. Le rare notizie di
questo tipo di reati ci fanno capire che si rischia al massimo
qualche mese di detenzione. E spesso sono più legate alla volontà
di ricatto che al sesso in sé.
Come nell’epoca
imperiale, infatti, a un uomo di potere non basta una sola moglie.
Mao che da bravo comunista voleva la parità dei sessi, aveva posto
fine alla pratica «decadente e borghese» delle concubine, ma nel
privato si divertiva non poco. E così continuano a fare i suoi
successori. Le concubine di oggi si chiamano ernai, che
letteralmente significa «seconda donna», e sono molte più di
quanto si pensi. Una ricerca di qualche anno fa dell’Università
del popolo di Pechino metteva in luce come il 95% dei funzionari
aveva avuto relazioni extraconiugali a pagamento e il 60% aveva
mantenuto almeno un’amante.
Di esempi ce ne sono a
non finire. Dal funzionario che nel 2002 ha indetto la prima (e
unica) competizione annuale per decidere quale delle sue 22 amanti
fosse la più piacevole, a Liu Zhijun ex ministro delle Ferrovie
condannato all’ergastolo per aver preso tangenti per un valore di
3,6 milioni di euro e per aver mantenuto 18 amanti. Anche nel
processo più sensazionale degli ultimi anni, quello all’ex
principino rosso Bo Xilai, condannato all’ergastolo per corruzione,
tangenti e abuso di potere, una delle accuse era quella di aver avuto
«rapporti sessuali impropri con un certo numero di donne». Una
frase tanto bigotta da essere divenuta immediatamente virale in rete.
La gente comune sa che i
politici di professione non finiscono in galera per una mazzetta o
per un’amante. Per gli uomini d’affari concludere una cena in un
bordello o viziare un cliente importante offrendogli belle donne è
più frequente di quanto si possa immaginare. E la popolazione è
ormai sempre più smaliziata. Se nel 1992 ha fatto notizia l’apertura
del primo sexy shop a Pechino, oggi i «negozi per adulti» sono
presenti a ogni angolo di strada. Il consumo di vibratori è così
alto che si trovano assieme ai preservativi alle casse dei
supermercati e nelle camere degli alberghi più forniti. Le grandi
metropoli organizzano fiere di sex toy da almeno dieci anni.
Quella a cui siamo andati la settimana scorsa a Shanghai era promossa
dall’Ufficio di panificazione famigliare del governo locale. Alla
«Fiera internazionale dei “giochi per adulti” per “una
riproduzione sana”», c’era di tutto: dalla realtà virtuale,
alle bambole, dai vibratori alle tute in lattice, dalle radici
afrodisiache ai calchi in silicone delle vagine delle pornostar
giapponesi, dai distributori automatici di sex toy alle
essenze per bloccare l’erezione. Si chiacchierava, si valutava la
merce, si prendevano contatti e si comprava. In soli tre giorni ci
sono stati circa 30 mila visitatori paganti: ragazzi e ragazze,
coppie attempate e uomini d’affari che curiosavano senza imbarazzo
tra gli oltre 240 stand. Al di là dei professionisti del settore,
sembrava un supermercato qualunque. «È paradossale», si confida Fu
Sinan, responsabile vendite dell’azienda produttrice di sex
machine, Leco. «Il nostro sito in Cina è censurato, ma questo è
senza dubbio il nostro mercato di riferimento».
Giornali e televisioni,
infatti, sono a tutt’oggi molto pudici sull’argomento e qualsiasi
forma di pornografia online è censurata. Il sesso può minare la
«moralità» dei cittadini e per questo non è mai esplicitato.
Nessun politico occidentale si sentirebbe minacciato da un libretto
stile Harmony che racconti le sue liaison sentimentali giovanili.
Eppure pare che sia proprio la minaccia di una pubblicazione sulla
vita privata del presidente Xi Jinping prima del matrimonio a portare
allo scandalo internazionale del “rapimento” dei cinque librai di
Hong Kong. I cinque, tutti legati alla casa editrice Mighty Current
specializzata in libri critici verso il Partito comunista cinese,
sono ricomparsi in custodia delle autorità cinesi nonostante non
fossero cittadini cinesi e nonostante due di loro si trovassero su un
territorio diverso da quello della Repubblica popolare al momento
della scomparsa.
C’è da scandalizzarsi,
ma non da stupirsi. Xi è a capo di uno Stato che non ammette storie
di una notte o scambi di coppia nei film e nelle serie tv. Nelle
sceneggiature una protagonista non può innamorarsi di più di un
uomo. Ancora l’anno scorso una serie tv ambientata all’epoca
della dinastia Tang è stata censurata perché il décolleté della
protagonista era troppo ampio.
«La gente comune è più
aperta ed educata del governo», si scalda subito Fan Popo in
un’intervista telefonica. Classe 1985, gay e attivista lgtb, è il
regista di Mama Rainbow, un documentario che esplora le relazioni tra
sei madri e i loro figli omosessuali. Il suo è un discorso amaro.
Aveva condiviso il suo
film su diversi portali cinesi nel 2012 e in circa due anni aveva
raggiunto un milione di visualizzazioni. In molti si erano messi in
contatto con lui per fargli sapere come il suo lavoro era stato utile
nel difficile percorso di outing all’interno della propria
famiglia. Ma a dicembre del 2014, il video è sparito dal web cinese.
I portali interessati hanno sostenuto di aver ricevuto l’ordine
dall’ufficio governativo che sovraintende ai contenuti che possono
andare online, in tv o nei film (Sarft) ma quest’ultimo, portato in
tribunale dal regista, ha negato di aver dato qualsivoglia ordine in
merito. Il regista sostiene di aver vinto la causa, ma il film non è
mai stato rimesso online. «Ciò non toglie che la società civile ha
fatto passi da gigante negli ultimi anni. Ancora nei primi anni 2000,
lgbt era una sigla sconosciuta alla maggior parte dei cinesi. Oggi
c’è persino una seguitissima serie tv sui rapporti gay tra
adolescenti». Addiction, così si chiama la serie in
questione, è stata vista da dieci milioni di persone prima che, lo
scorso febbraio, il governo la censurasse a tre episodi dalla fine.
Se è chiaro che la
società cinese si sta liberando da molte sovrastrutture nei
confronti di tutto ciò che attiene alla sfera sessuale dei singoli,
più difficile è comprendere fino in fondo l’atteggiamento del
Partito e del governo. Come spiega il professor Federico Masini
nell’introduzione di una raccolta di antiche e inedite pitture
erotiche cinesi (Il palazzo di primavera, L’Asino d’Oro,
2015), «con la scusa di una sacrosanta battaglia contro lo
sfruttamento sessuale delle donne, la Repubblica popolare ha voluto
cancellare ogni memoria della tradizione letteraria e artistica
dell’erotismo cinese». Ne è esempio l’unico museo del sesso
della Cina. I suoi 1.400 artefatti «archeo-erotici» coprono quattro
millenni di storia. Nel 1999 sono stati raccolti in uno spazio al
centro di Shanghai. Nel 2001 sono stati traslocati alla periferia
della città e nel 2009 in un paesino, Tongli, a un paio d’ore di
macchina di distanza. Quando arriviamo ci dicono che il museo ha
chiuso nel 2013 per essere trasferito a Hainan, un’isola
all’estremo sud della Cina, dove però non ha ancora riaperto.
Forse il Partito pensa che un dildo antico può portare sulla
cattiva strada più di uno moderno.
Pagina 99, 30 aprile 2016
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