Alla metà di marzo,
appena prima dell’inizio di quest’altra guerra maledetta, ad una
festa per il tesseramento di Rifondazione a Casa del Diavolo abbiamo
potuto riascoltare la chitarra e la voce (e altri strumenti di
“improvvisazione povera”) di Paolo Ciarchi.
Paolo Ciarchi è stato
uno dei migliori esponenti della nuova canzone politica tra gli anni
sessanta e settanta: un pezzo della nostra storia culturale su cui
davvero varrebbe la pena ormai di tornare a lavorare più a fondo.
L’esibizione di Casa del Diavolo, generosa e coinvolgente, ha
riproposto diversi “classici”, compresi alcuni canti della
tradizione antimilitarista e pacifista più che mai dolorosamente
attuali. Ma il momento più emozionante è stata l’esecuzione
dell’Internazionale di Fortini, un pezzo insieme antico e
nuovissimo (dato che il testo di Franco Fortini, nella sua stesura
definitiva, è del 1994). Si conosce la storia di questa versione, a
cui il poeta aveva lavorato a partire dal 1969 (e qualche parte di
quel primo progetto si ritrova in una Internazionale proletaria
fatta propria da Lotta Continua) fino ad arrivare alla lezione
completa realizzata appena prima della morte e consegnata poi dalla
vedova, Ruth, a Ivan della Mea, che la incise nella variante “ad
una sola voce”. E in questa forma, voce e chitarra, l’abbiamo
riascoltata da Paolo Ciarchi, riproposta direi con rigore filologico.
La prima cosa che
colpisce è il nuovo ritornello: “Questo pugno che sale / questo
canto che va / è l’internazionale, / un’altra umanità. / Questa
lotta che uguale / l’uomo all’uomo farà / è l’internazionale
/ fu vinta e vincerà”. Colpisce la distanza dall’impostazione
teorica e sentimentale della vecchia versione del Bergeret (quella
che conosciamo tutti): al posto del “futura umanità”, che ci
torna automaticamente alla memoria, qui c’è “un’altra
umanità”: che significa, da una parte la radicale, irriducibile
alterità di questa umanità che si riconosce nell’internazionale;
dall’altra, che questa umanità è già qui ora (se la sottrazione
dell’attributo “futura” vuol dire qualcosa; in poesia anche la
sottrazione ha importanza, almeno quanto l’aggiunta): non è “un
ideale al quale la realtà dovrà conformarsi”, un futuro da
conquistare, mettendo magari il mondo a ferro e fuoco... E colpisce
la forte sottolineatura dialettica: “fu vinta e vincerà”, che
richiama il Brecht amato (e tradotto) da Fortini: “Chi ancora è
vivo non dica mai! (...) Chi è perduto, combatta! (...) Perché i
vinti di oggi sono i vincitori di domani...”. (Parole che si
rileggono volentieri, in tempi, come questi, disperanti). Il senso è:
l’internazionale potrà vincere, proprio perché ha perduto (nelle
sue forme fino ad ora storicamente date). Ma il punto più nuovo e
più alto mi pare che sia nell’ultima strofa: “Noi non vogliamo
sperare niente / il nostro sogno è la realtà / da continente a
continente / questa terra ci basterà...”.
In questi versi severi,
che rifiutano il sogno e ogni illusoria speranza, ogni inganno e
auto-inganno, circola qualcosa che richiama alla mente la grande
Ginestra di Leopardi (per la quale il poeta Gianni D’Elia ha
riformulato l’espressione “comunismo reale”, dove è chiaro che
l’aggettivo non ha proprio niente a che fare con quello che la
nostra pigrizia continua a pensare): c’è aria, c’è acqua per
tutti (è possibile); c’è da mangiare per tutti (è possibile);
c’è forse anche un po’ di gioia, da prendere, per tutti (è
possibile). Credo che con le parole nuove di Franco Fortini questo
canto antico “che va”, così leopardianamente libero da ogni
novecentesca volontà di potenza, ci potrà accompagnare ancora.
“micropolis”, aprile
2003
Nessun commento:
Posta un commento