L'infanzia è più o meno
quella di tutti. Due genitori separati. Un fratello che sembrava più
benvoluto. Una istintiva vocazione alla marachella. Poi, però,
Herbert Huncke bruciò le tappe di una vita sciagurata. Il primo
«pompino» a 12 anni in automobile con uno sconosciuto che lo
liquida con 10 dollari, la fuga da casa e l’inizio di una lunga
odissea on the road (mai del
tutto finita) nella vasta America del proibizionismo e del new
deal che l’ha portato ad essere un tossico, uno spacciatore,
un ladro, un carcerato, uno che vendeva sesso e buttava la propria
vita.
Insomma un modello per la
controcultura americana anni ’50. Perché, non solo coniò il
termine «beat» (nel senso di povero cristo «bastonato» dal
destino), ma iniziò alla droga Burroughs e compagni, divenendo loro
sodale di eccessi nonché personaggio ispiratore. Entrò per esempio
nell’Urlo di Ginsberg, fu Herbert nel primo libro dì
Burroughs, e Hassel in Sulla strada di Kerouac.
Herbert Huncke fu anche
uno straordinario raccontatore di storie in prima persona. Uno
storyteller, come si direbbe oggi, capace di spremere in stile
asciuttissimo gli abissi del nulla di chi stava ai margini della
società per scelta o per dannazione. Scrisse molto. Ma pubblicò
poco più che una ventina di racconti. E un capolavoro, Colpevole
di tutto, che esce per la prima volta in Italia, con
l'introduzione di William Burroughs che presentiamo qui accanto.
Dieci capitoli per sintetizzare una lunga vita spericolata,
criminogena, disperata, senz’altro baricentro che arrangiarsi per
stare a galla e (stra)farsi di ogni droga. Huncke ne combina di tutti
i colori, con un’amoralità talmente estrema da sfiorare la
santità. Si prostituisce, ruba e inganna chiunque, persino chi gli
ha dato una mano, spaccia, frequenta la feccia dell’umanità, ma
anche i jazzisti e gli aspiranti artisti d’una creatività nuova e
ribelle; entra ed esce di galera per quasi undici anni.
Nonostante quel che ha
passato, rabbrividisce d’emozione quando su invito di Ginsberg sale
su un palco per leggere ad alta voce un suo scritto. Quando il
pubblico approva ne “ricava una certa fiducia in se stesso”.
Su tutto, però, prevale
la droga. Una montagna di stupefacenti che dilaga come uno tsunami
travolgendo tutti, artisti e prostitute, ricchi e derelitti. Lui
racconta la grande confusione infetta della modernità, l’altra
faccia dell’America. La sua prosa efferata, cinica fino
all’ingenuità, vale forse più dei suoi colleghi beat
perché ha sentito davvero il male di vivere sulla pelle, e non
l’aveva scelto per posa estetica, anzi, i bohemien dei bar
esistenzialisti, tutti chiacchiere e dolcevita nero, gli «stavano
sulle palle».
Morì a 81 anni, dopo un reading con Patti Smith, chiedendo che gli portassero la luna in un recinto prima d’andare all’altro mondo. Con tutto quello che s’era iniettato in corpo, raggiungere quell’età è stato un miracolo. Evidentemente lassù qualcuno lo amava. Sicuramente, qualche musa. E deve averlo amato parecchio.
Morì a 81 anni, dopo un reading con Patti Smith, chiedendo che gli portassero la luna in un recinto prima d’andare all’altro mondo. Con tutto quello che s’era iniettato in corpo, raggiungere quell’età è stato un miracolo. Evidentemente lassù qualcuno lo amava. Sicuramente, qualche musa. E deve averlo amato parecchio.
“Tuttolibri La Stampa”,
16 aprile 2016
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