14.6.16

Herbert Huncke colpevole di tutto (Bruno Ventavoli)

L'infanzia è più o meno quella di tutti. Due genitori separati. Un fratello che sembrava più benvoluto. Una istintiva vocazione alla marachella. Poi, però, Herbert Huncke bruciò le tappe di una vita sciagurata. Il primo «pompino» a 12 anni in automobile con uno sconosciuto che lo liquida con 10 dollari, la fuga da casa e l’inizio di una lunga odissea on the road (mai del tutto finita) nella vasta America del proibizionismo e del new deal che l’ha portato ad essere un tossico, uno spacciatore, un ladro, un carcerato, uno che vendeva sesso e buttava la propria vita.
Insomma un modello per la controcultura americana anni ’50. Perché, non solo coniò il termine «beat» (nel senso di povero cristo «bastonato» dal destino), ma iniziò alla droga Burroughs e compagni, divenendo loro sodale di eccessi nonché personaggio ispiratore. Entrò per esempio nell’Urlo di Ginsberg, fu Herbert nel primo libro dì Burroughs, e Hassel in Sulla strada di Kerouac.
Herbert Huncke fu anche uno straordinario raccontatore di storie in prima persona. Uno storyteller, come si direbbe oggi, capace di spremere in stile asciuttissimo gli abissi del nulla di chi stava ai margini della società per scelta o per dannazione. Scrisse molto. Ma pubblicò poco più che una ventina di racconti. E un capolavoro, Colpevole di tutto, che esce per la prima volta in Italia, con l'introduzione di William Burroughs che presentiamo qui accanto. Dieci capitoli per sintetizzare una lunga vita spericolata, criminogena, disperata, senz’altro baricentro che arrangiarsi per stare a galla e (stra)farsi di ogni droga. Huncke ne combina di tutti i colori, con un’amoralità talmente estrema da sfiorare la santità. Si prostituisce, ruba e inganna chiunque, persino chi gli ha dato una mano, spaccia, frequenta la feccia dell’umanità, ma anche i jazzisti e gli aspiranti artisti d’una creatività nuova e ribelle; entra ed esce di galera per quasi undici anni.
Nonostante quel che ha passato, rabbrividisce d’emozione quando su invito di Ginsberg sale su un palco per leggere ad alta voce un suo scritto. Quando il pubblico approva ne “ricava una certa fiducia in se stesso”.
Su tutto, però, prevale la droga. Una montagna di stupefacenti che dilaga come uno tsunami travolgendo tutti, artisti e prostitute, ricchi e derelitti. Lui racconta la grande confusione infetta della modernità, l’altra faccia dell’America. La sua prosa efferata, cinica fino all’ingenuità, vale forse più dei suoi colleghi beat perché ha sentito davvero il male di vivere sulla pelle, e non l’aveva scelto per posa estetica, anzi, i bohemien dei bar esistenzialisti, tutti chiacchiere e dolcevita nero, gli «stavano sulle palle».
Morì a 81 anni, dopo un reading con Patti Smith, chiedendo che gli portassero la luna in un recinto prima d’andare all’altro mondo. Con tutto quello che s’era iniettato in corpo, raggiungere quell’età è stato un miracolo. Evidentemente lassù qualcuno lo amava. Sicuramente, qualche musa. E deve averlo amato parecchio.

“Tuttolibri La Stampa”, 16 aprile 2016


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