Un Robecchi di un paio di
mesi fa, profetico (S.L.L.)
E così venne il tempo di
Umberto Gavazza, personaggio memorabile che potrebbe restare
appiccicato al militante renzista, una bella nemesi per chi continua
ad agitare davanti agli avversari lo spettro di Tafazzi. Per gli
immemori, o i più giovani si sappia: Umberto Gavazza è lo splendido
Ugo Tognazzi de La marcia su Roma (insieme a un altrettanto
superbo Gassman, ovvio, Dino Risi, 1962), quello che ad ogni curva
del percorso, dal discorso di San Sepolcro all’ingresso a Roma,
cancella punti del programma, vedendoli miseramente crollare sotto i
colpi della realtà. Terra ai contadini. Riga sopra. Libere elezioni.
Riga sopra.
Fatte le debite
proporzioni, il militante renzista della prima ora, ascendente
Leopoldo, con la luna in Boschi, vive la stessa catena tragicomica di
delusioni. Promesse che si sfarinano, sorti luminose che si
appannano.
L’elenco sarebbe lungo:
dal Jobs act di cui cominciamo a capire costi (alti) e ricavi
(bassi), ai tagli alla sanità, alla moralità della politica, non
miglioratissima, alla cessione di diritti, alla manomissione della
Costituzione con inconfessabili patti annessi. Si aggiungano certe
cadute Berlusconi style (la stretta alle intercettazioni invocata e
poi smentita, l’ira contro i giudici, il piagnisteo contro i
giornali cattivi). Il Gavazza renzista vede vacillare anche dogmi di
fede come “il grande successo di Expo”: proprio nel 2015 l’Italia
è calata di una posizione (da settima a ottava) nella classifica
mondiale del turismo, ahi, ahi, ahi. (fonte: World Travel &
Tourism Council).
Sui dati si discuterà (e
molto, vista l’abitudine di fornirli di fantasia, à la Poletti),
ma un dato è sicuro: ciò che davvero è andato in mille pezzi, come
una palla di cristallo, è la narrazione renzista. Quell’impasto di
ottimismo da spogliatoio (dai, insieme possiamo farcela!), di
disprezzo nei confronti del predecessori, di apparente decisionismo,
di innovazione, di dinamismo euforico, di «adesso arriviamo noi e vi
facciamo vedere».
Qui sì il nostro Gavazza
leopoldo tira linee su linee e cancella, più che promesse, un intero
affresco, un sistema di valori, una costruzione teorica. Ad appena
due anni dall’innamoramento collettivo, ci sono parole che
addirittura puzzano: dire “Rottamazione” oggi che il governo è
sostenuto da Verdini, Montezemolo guida la corsa alle Olimpiadi,
Marchionne è il modello imprenditoriale e le lobby si spartiscono
emendamenti per telefono è quasi struggente. Quanto alla
#buonapolitica, hashtag programmatico brillante di suadenti
promesse, s’è visto: padri forse bancarottieri (Renzi e Boschi),
ministri pasticcioni che, per cavarli d’impiccio, si è dovuti
descrivere come succubi in un rapporto sado-maso-confindustriale col
fidanzato; oppure giglio magico e nomine toscane, con affari toscani,
banche toscane, eccetera, eccetera. E Gavazza, giù a tirare righe.
Ora qui c’è un
problemino non da poco, anzi due. Il primo: chi si disamora, poi
difficilmente si ri-innamora, e questa è una legge di natura in cui
l’elettorato non fa eccezione. Il secondo: lo storytellig
tanto accurato si rivela un discreto boomerang. Basta googlare le
principali parole d’ordine del renzismo per constatare che sono
ormai quasi tutte usate in dispregio e disdoro e presa per il culo di
chi le ha lanciate.
Ai commenti ironici per
le gaffes del Principe seguono puntuali, come per sberleffo aggiunto,
gli hashtag della propaganda. Se chiude una fabbrica: #italiariparte.
Se Renzi va dalla D’Urso: #grandepotenzaculturale. Se ne
arrestano, o indagano o intercettano uno: #labuonapolitica.
Una narrazione troppo trionfalistica si presta ad essere ribaltata
dal sarcasmo quando ci si accorge che non si sta trionfando per
niente. La contro-narrazione, insomma, è facile e feconda. Si
ricordi, esempio cristallino, il ridicolo hashtag
#classedirigentemaddeché, che certi guru renzisti
indirizzavano ai Cinque Stelle. Ecco, alla luce delle recenti
scoperte in campo di etica e petrolio, l’autogol è così evidente
e conclamato da fare tenerezza: #classedirigentemaddeché.
Appunto.
Eppure narratori così
attenti ai nuovi media dovrebbero sapere che le costruzioni
estetico-ideologiche passano in fretta (cfr. il loden di Monti
dopo anni di mutande di Berlusconi). L’innamoramento per il tipo
casual, in camicia bianca, riunioni alle sette del mattino, panini di
Eataly e gelati di Grom, quello che girava in smart e che twittava
“arrivo arrivo” dallo studio del Presidente Napolitano, si è
come dissolto. Sarà l’affaire Guidi, o l’appannamento del
mito Boschi, o il fatto che la ripresa non arriva e le grida di hurrà
sembrano un po’ surreali e mascalzone. Ma la narrazione prevedeva
che a rimorchio di quei simboli e segni e segnali e suggestioni
venisse del nuovo, che invece non è venuto, non si vede, non c’è.
Gavazza scuote la testa:
un pochino, in fondo, ci aveva creduto. Lo storytelling del
nuovo che avanza e poi trama al telefono tra interessi e sottogoverno
come ai tempi di Forlani potrebbe suonargli, ora, addirittura
fastidioso.
Pagina 99, 16 aprile 2016
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