Riprendo qui un ampio
stralcio memorialistico da un'intervista del 1997. (S.L.L.)
Vito Laterza |
Roma - Dal mese scorso,
rinunziando alla carica di consigliere delegato, Vito Laterza ha
deciso di ridimensionare la sua funzione al vertice della casa
editrice. Un vertice che occupava dal 1951. Quarantasei anni tutti da
raccontare. In quel 1951 si stava chiudendo, per la casa barese, una
lunga stagione impersonata da Benedetto Croce come suggeritore e
arbitro culturale: il filosofo sarebbe morto l'anno successivo.
Spettò al venticinquenne Vito cominciare da capo. Senza il grande
patriarca. Il primo passo consisté nel riprendere i rapporti con la
sinistra democratica che, negli ultimi tempi, il filosofo aveva
allentato. I "libri del tempo" furono la prima sigla del
nuovo corso. E non mancarono i personaggi simbolici. Uno fu Gaetano
Salvemini. "Lo incontrai nel 1950", racconta Laterza, "a
Firenze, dove studiavo. Abitava in via Sangallo, in una cameretta
d'affitto piena di ritagli di giornali buttati per terra: un tappeto
di carta stampata. Era rientrato di recente dall'esilio americano, e
teneva un corso universitario. Era, per noi giovani, un padre mitico
che tornava. Lavoravo, allora, a un saggio su Rousseau e Kant. Già
laureato, non ero ancora in casa editrice. Informai il vecchio
professore dei miei studi filosofici...". Parlare di filosofia
con Salvemini? Era come intrattenere Croce sulla matematica. "Lo
so bene. Ma allora non lo sapevo. Gli esposi le mie tesi su Rousseau
e Kant. Mi esibii in una specie di lezione. Mi parve d' aver fatto
colpo".
Com' era, il Salvemini
"retour d'Amérique"? "Meno mefistofelico di
come era apparso nelle foto giovanili. Gli si era imbiancata la
barba, il volto gli si era addolcito. L'accento di Molfetta aveva
resistito alla trasferta americana. Mentre io parlavo, era stato in
silenzio. Solo uscendo ricordai di aver letto di recente un suo
articolo sul Ponte. Si riferiva ai primi del Novecento. Era uscita
l'Estetica di Croce, subito celebrata come opera geniale. Lo
storico di Molfetta raccontava di essersi precipitato a comprare il
volume. Dopo dieci pagine non ne poteva più. Chiuse il libro. La sua
separazione dalla filosofia, da ogni filosofia, era stata definitiva.
Per non reagire alla mia lezione su Kant, mezzo secolo più tardi,
compì, dunque, uno sforzo di benevolenza. Non gli interessava quello
che gli dicevo, ma la passione che ci mettevo dentro. Capii allora
com'è fatto un vero maestro". Poi vennero i rapporti editoriali
fra Salvemini e la Laterza. "Nel 1952 pubblicai il Mussolini
diplomatico. Era già apparso in inglese, concepito per i lettori
americani. Salvemini mi affidò il dattiloscritto originale e mi
diede carta bianca per il lavoro di editing che lo rendesse
adatto ai lettori di casa nostra. Non interferì mai. Questa sua
mancanza di prosopopea accademica è per me restata memorabile.
Pubblicai poi La rivoluzione francese e le Lettere
dall'America. Quando mi mandò, pensando di riunirli in volume,
una serie di articoli usciti sul “Mondo” in difesa della
cosiddetta 'legge truffa' del 1953, io gli dissi di no. Ero in
disaccordo sulla tesi e forse (se ci ripenso oggi) sbagliavo. Quel
rifiuto mi costò molto in termini emotivi. Ma Salvemini reagì
benissimo. Conservo ancora una lettera in cui mi ringraziava del
consiglio: hai ragione, è meglio non farne nulla". Un Salvemini
inedito. Travestito da nonno benevolo... "Conservava, all'
occorrenza, le sue asprezze. Tenne a Bari una conferenza su Giovanni
Giolitti, in cui addolcì i giudizi feroci che gli aveva dedicato da
giovane. Ma dopo la conferenza, a cena, Salvemini attaccò con
violenza Tommaso Fiore, meridionalista e latinista, che, essendo
iscritto al partito di Nenni, aveva aderito al Fronte popolare. Poi
si passò a parlare di Benedetto Croce. E qui una requisitoria
anti-crociana di Salvemini. Impetuosa, clamorosa, veemente. La scena
si svolgeva in una vecchia villa di famiglia, in cui noi Laterza
accoglievamo i visitatori illustri, Croce prima di ogni altro. Era
come parlar male di Cristo in chiesa".
Ernesto Rossi |
Ernesto Rossi, allievo
prediletto di Salvemini, divenne un "laterziano" fra i più
autorevoli. "Ho pubblicato nove suoi libri. Il più fortunato fu
I padroni del vapore, cui seguì uno storico dibattito fra l'
autore e il presidente della Confindustria Angelo Costa. Con Rossi ci
vedevamo spesso, sia a casa sua in piazza Jacini, sia nella sede del
“Mondo”. Era molto legato a Luigi Einaudi, alla cui lezione
accoppiava la passione polemica di Salvemini. Fu lui a curare il
volume di Einaudi Il Buongoverno, che pubblicammo nel 1954.
Einaudi diede una scorsa al testo e lo approvò. Gli portammo la
prima copia al Quirinale. Con me e Rossi c' erano le nostre mogli,
Ada e Antonella. Restammo a cena. Ricordo gli occhi azzurri e un po'
gelidi di donna Ida, gentildonna compitissima e distaccata: una vera
presidentessa. Lui era rimasto un professore. Esaminò il libro con
la devozione che si riserva a un classico. Gli piacque. Seppe
metterci a nostro agio".
Laterza editore
meridionale. Fra gli scrittori del Sud e sul Sud i personaggi
pittoreschi non dovevano mancare. "Il più sorprendente era
Carlo Levi, torinese e meridionalista. Affascinante. Travolgente.
Sorprendente anche negli abiti, sempre mezzo soffocato da enormi
cravatte di lana d'angora. Lo rivedo a bordo della barca di San
Nicola, durante l'omonima festa barese. Si divertiva come un ragazzo.
Non era un nostro autore, legato com'era alla Einaudi, ma fu lui -
insieme con Manlio Rossi Doria - a rendere possibile il 'caso
Scotellaro' , narratore contadino. Rocco Scotellaro era stato sindaco
di Tricarico, ma restava un ragazzo del popolo, con una sua singolare
eleganza plebea. Studiava alla scuola di agraria, a Portici, con
Rossi Doria, appunto. Il suo primo libro, Contadini del Sud,
ebbe un buon successo. Dopo la sua morte improvvisa (causata, sembra,
da esalazioni di carbonella nella sua stanzetta di studente a
Portici), pubblicammo un abbozzo di romanzo, L'uva puttanella.
Era una letteratura priva di mediazione. Levi ne era entusiasta, io
stesso confidavo in quel 'filone' . Ma i letterati più avvertiti
scuotevano il capo. Ricordo che Calvino mi disse: è una via senza
uscita. Forse, aveva visto giusto".
Fra gli autori della
Laterza ce n'è uno un po' sorprendente: Brancati. "Aveva
scritto per Anna Proclemer una commedia, La governante. Protagonista
era una lesbica. L'editore di Brancati, Valentino Bompiani, non volle
pubblicarla, e lo scrittore si rivolse a me. Gli risposi che non
stampavo opere di fiction. Avrei potuto pubblicarlo se avesse
accompagnato a quel copione un saggio sulla censura democristiana".
Il libro s' intitola,
infatti, Ritorno alla censura. E di veramente memorabile c'è
il saggio iniziale. Caustico, sferzante, pessimistico. Di quel
pessimismo che connota gli illuministi siciliani. Che si ritrova in
Sciascia. "Nel 1956 Leonardo Sciascia venne a Bari a tenere una
conferenza. Aveva pubblicato su “Nuovi Argomenti” un racconto sul
suo paese, Racalmuto. Un ritratto d' ambiente. Ci accordammo perché
ne ricavasse un libro. Si chiamò Le parrocchie di Regalpetra. Ebbe
una buona accoglienza. Eravamo d' accordo che, in avvenire, Sciascia
ci avrebbe dato tutti i libri di argomento saggistico. In realtà non
se ne fece nulla, benché conservassimo rapporti di grande
cordialità. L' uomo era schivo, modesto, ombroso. Io non sono mai
andato a trovarlo a Palermo. Forse non feci abbastanza per vincere la
chiusura del suo carattere".
“la Repubblica", 8
agosto 1997
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