Hans Küng (Sursee, 19
marzo 1928) è un teologo svizzero assai stimato, che a lungo rientrò
nella categoria del “dissenso cattolico”. Con il nuovo papa
argentino egli è tornato a sperare in una grande riforma della
Chiesa. L'ultima sua iniziativa (del febbraio scorso) è una lettera
a Bergoglio con la richiesta di aprire un confronto sul tema
dell'infallibilità. La risposta, a quanto lui stesso ha annunciato,
non è stata negativa; sembra anzi preannunciare un dibattito aperto.
Io qui riprendo una vecchia e bella intervista a “l'Unità” che
rievoca il 68 come occasione mancata ed argomentatamente enumera le
riforme ecclesiali che il teologo ritiene urgenti. Mi pare di grande
attualità, segno che con i papati di Wojtila e di Ratzinger nulla è
cambiato nella direzione che Küng avrebbe desiderato. (S.L.L.)
Professor Küng, cosa
sarebbe potuto cambiare e cosa cambiò nella Chiesa cattolica durante
gli anni della contestazione?
Sarebbe potuto cambiare
moltissimo. C'era stato il Concilio Vaticano II, tra il '62 e il '65:
e dunque non mancavano le premesse per cfambiamenti tanto importanti
quanto necessari... Taluni sostengono addirittura che il Concilio
avrebbe contribuito, indirettamente, al nascere della contestazione,
io non lo credo. Il Concilio fu ciò che permise alla Chiesa di non
ritrovarsi totalmente impreparata dinanzi agli avvenimenti che nel
’68 investirono l’università e la società in generale.
Purtroppo in quel periodo la Chiesa di Roma aveva ricominciato a
chiudersi ad ogni innovazione: Giovanni XXIII era già lontano. Cosi,
alla fine degli anni 60, mentre in tutta quanta la società si
assisteva a uno sviluppo nuovo - e indubbiamente molto profondo -,
nella Chiesa di Paolo VI si stava invece retrocedendo, tirava aria di
restaurazione. Basti pensare all’enciclica Humanae vitae,
che uscì appunto nel '68, e dalla quale risultava chiaro che il Papa
non comprendeva affatto la situazione. Ciò è tanto più grave se si
considerano le indicazioni importantissime che erano venute appunto
dal Concilio: come ad esempio l'idea del «popolo di Dio» - che ci
avrebbe potuto guidare verso una Chiesa davvero più popolare, più
vicina al popolo di quanto non lo era stata la Chiesa
istituzionalista preo-conciliare. Sarebbe stata, per i cattolici, una
grande possibilità di costruire una Chiesa dal basso, dalla base; e
questo allora l'avevano compreso in molti: proprio in quegli anni in
America latina stava prendendo forma la teologia della liberazione,
nascevano le «comunità di base». E c'erano fermenti analoghi anche
angli Stati Uniti, in Europa.
Stai parlando delle
«Chiese periferiche», ma a Roma come venne accolto questo moto?
Per il Vaticano fu
solamente uno shock le gerarchie romane vi scorsero soltanto un
motivo di scandalo, di sgomento, e non invece una chance, come
appunto sarebbe stato auspicabile. Fu così, per esempio, anche per
l'allora mio collega Joseph Ratzinger, a quel tempo insegnava anche
lui qui a Tübingen; eravamo anche amici: Ratzinger nel ’68 rimase
terribilmente scioccato quando gruppi di studenti - non di teologia -
cominciarono a entrare nelle aule e a interrompere le lezioni. Capitò
sia a lui sia a me; e certo anch'io lì per lì, me la presi:
protestai contro quelle violazioni della libertà accademica dei
docenti... Per me questo genere di incidenti furono un impulso a
ripensare in modo nuovo una quantità di questioni; per Ratzinger il
contrario: fu a partire da allora, probabilmente, che le sue
convinzioni cominciarono a prendere un orientamento nettamente
reazionario. Orientamento che poi, in capo a qualche anno, lo portò
alla carica che occupa ora: prefetto della Congregazione per la
Dottrina della Fede - ovverosia capo di quel che una volta si
chiamava Sant'Uffizio, e prima ancora Santa Inquisizione...
Sempre nel 68, insegnai
anche a New York; e proprio durante una mia lezione con duemila
persone in aula ci portarono la notizia dell’assassinio di Martin
Luther King. E vidi di persona quel che successe a Harlem, le immense
dimostrazioni di quella sera e di tutta quella notte. Fu una spinta
ulteriore: mi obbligò a rendermi conto con sempre maggiore chiarezza
della possibilità di un diverso concetto di religione. Luther King
per me era un simbolo; il simbolo di una religione non repressiva, di
una religione che sa essere non soltanto conservatrice ma anche
innovativa, liberatoria - diversa dalla religione tradizionale. Sia
chiaro, né la funzione innovativa né quella conservatrice debbono
intendersi come esclusive. La religione è e sarà sempre costituita
da entrambe, dal loro equilibrio. Ma sta di fatto che se la Chiesa
cattolica ha ancora una possibilità, la deve cercare precisamente
nel proprio potenziale innovativo e liberatorio: e questo ovunque,
dall'Africa del Sud fino alle Filippine e alla Corea. Non ha altra
via. E fu in quegli anni, tra ¡1 ’68 e il 70, che molti teologi se
ne resero conto, cosi come appunto me ne rendevo conto io. La
religione poteva avere -avrebbe potuto avere, e può ancora avere -
un impatto essenziale sulla società. In quegli anni, sempre a New
York, mi capitò di incontrare il celebre Premio Nobel Gunnar Myrdal,
il sociologo. E conversando gli domandai se nel guardare a posteriori
alle proprie analisi non si fosse accoro di aver trascurato un
qualche elemento importante. E lui appunto mi rispose «Sì, la
religione». Proprio cosi mi disse: «La religione. Non mi sono mai
reso conto - mi disse – che la religione potesse ancora avere una
qualche rilevanza sociale. Pensavo che la religione riuscisse al
massimo ad avere qualche effetto nell intimo dei singoli individui...
Oggi mi accorgo che c'è molto di più, che la religione può
realmente essere una forza sociale».
Oggi anche Giovami Pao lo
II dice queste cose, reclama questo diritto d'azione alla religione;
ma lo fa in maniera contraddittoria: parla e non realizza, non
concreta le proprie parole nella Chiesa. E quei cambiamenti che
sarebbero potuti avvenire vent’anni fa sono ancora lì che
aspettano. Nel ’68 io stesso elencai tutta una serie di proposte di
cambiamento, tutto un programma di riforma pratica, nel mio libro
Veracità. E non fu accolta nemmeno una di quelle proposte.
In Veracità. Per
il futuro della Chiesa (lo pubblicò in Italia Queriniana,
Brescia nel 1969), Küng proponeva alla Chiesa di Roma innanzitutto
un «esame di coscienza sincero», un'aperta ammissione di tutti gli
errori che il Vaticano aveva consapevolmente commesso per amore di
posizioni istituzionali (i cedimenti «nei confronti del fascismo,
del nazismo, degli ebrei, del problema razziale, della guerra,
ecc.»). Dopodiché, il programma di «riforma pratica» avrebbe
dovuto articolarsi, secondo Küng, nei seguenti termini: «...
discussione invece che denuncia, comprensione invece che
inquisizione, comunione invece che scomunica, espansione spirituale
invece che frustrazione spirituale. Dialogo invece che dettato
pontifìcio, critica invece che censura, apertura invece che segreto,
fiducia nella verità invece che condanna di eresia... Nella Chiesa
il potere gerarchico deve lasciare il posto al servizio
ecclesiastico, il dispotismo clericale alla guida spirituale, la
ristrettezza di vedute all’apertura nei confronti di ogni realtà,
la paura della libertà al coraggio dell'impegno, la sfiducia alla
collaborazione sincera». Sono cose che dopo d’allora Küng tornò
a ribadire in molte sue pubblicazioni.
Professor Küng, lei
crede che la Chiesa cattolica abbia imparato qualcosa da
quell'occasione mancata? Che le «sia servita di lezione”?
Non penso che il Vaticano
abbia imparato gran che, se non eventualmente a chiudersi sempre più
ermeticamente in se stesso. Prenda ii nuovo codice di diritto
canonico promulgato nel 1983: è un documento che dimostra nel modo
più evidente come le autorità vaticane non abbiano imparato nulla
da quel che avvenne ventanni fa. E questa chiusura, questo rifiuto di
comprendere divengono sempre più caparbi, per effetto di quella
forte polarizzazione che si ha oggi nella Chiesa cattolica tra
tendenze conservatrici e tendenze innovative. Una polarizzazione che
incominciò appunto Allora, nel '68...
Quali ne furono le
vere cause?
Paura e potere. Sono due
cose che vanno di pari passo, nella curia romana. Le autorità
vaticane avevano e hanno paura di movimenti come quelli che vi furono
allora, e ne hanno paura perché ciò che importa alle autorità
vaticane non è tanto ciò che farebbe Gesù oggi quanto piuttosto
ciò che esse possono ancora fare per conservare il proprio potere.
Questa è la loro preoccupazione fondamentale. E appunto perciò da
allora in avanti c’è stata, da parte della curia romana, soltanto
una continua controffensiva. Con la nomina di vescovi conservatori,
in America e altrove; questa «politica del personale» fu una delle
armi principali della restaurazione post-conciliare. Con il rifiuto
costante di concedere maggiori poteri ai vescovi in Europa. Con il
rifiuto di concedere ai sacerdoti la libertà di sposarsi. Con il
rifiuto di concedere alle donne maggiori possibilità d'azione nella
Chiesa. Con il rifiuto di ammettere ai sacramenti i divorziati. E
altro ancora. Tutte queste cose miravano soltanto a preservare la
struttura medievale, controriformista e antimodernista della Chiesa
di Roma. E il Papa attuale è in tutto e per tutto su questa linea. E
un Pio XIII, per così dire. Ed è inevitabile che con simili
presupposti la Chiesa continui a. trovarsi ingarbugliata in
contraddizioni interne: Giovanni Paolo II parla di rispetto per i
diritti dell'uomo; e intanto non li rispetta affatto, lui per primo,
dentro la sua Chiesa; reclama la lìbertà per la Polonia, e però
non vuole che vi sia libertà in Nicaragua.
Ed è altrettanto
inevitabile, oggi, che la religiosità contemporanea distolga lo
sguardo dalla Chiesa di Roma e si orienti verso altre forme
religiose: le sette, le religioni asiatiche. E che l'impegno di tanti
credenti trovi altre vie per esplicarsi, fuori dalla Chiesa: nei
movimenti per la liberazione delle donne, o nei movimenti ecologici e
via dicendo. Tutte queste energie potrebbero bensì trovar posto,
essere reintegrate in una Chiesa rinnovata e rinnovata appunto nella
direzione che indicò il Concilio: in una Chiesa aperta alla
discussione e all'azione; in una Chiesa in cui vi fosse una
collaborazione autentica costruttiva, tra il Papa, l'episcopato e una
collaborazione critica tra vescovi e teologi, per un superamento
delle tensioni e delle polarizzazioni... Non vedo perché non
dovremmo avere tutto ciò. Non c'è, oggi, una vera ragione per la
quale noi cattolici non possiamo incominciare a procedere tutti
insieme nel senso della teologia della liberazione adattata,
ovviamente, alle particolarità di ogni singolo paese...
Probabilmente ci riusciremo, prima o poi. Ma ci vuole un cambiamento.
L'Unità, Sabato 23
Aprile 1988
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