Pranzo speciale alla mensa Caritas di San Costanzo, a Perugia. Sotto il gran quadro il sindaco Romizi versa da bere a un prelato |
Il
titolo, in verità, promette assai più di quanto il testo non dia:
non si tratta infatti – e i curatori lo riconoscono – di una
ricognizione sistematica ed esaustiva, ma dell'elaborazione, peraltro
abbastanza accurata, dei dati reperiti attraverso i Centri d'Ascolto
della Caritas operanti nell'ambito territoriale della diocesi. Il
tipo di povertà di cui prevalentemente si tratta – come è
spiegato in apertura – è la “povertà assoluta”, quella che,
secondo la definizione dell'Istat, “impedisce l'accesso ai beni
essenziali”, in aumento in molti paesi europei. In Italia il numero
di persone che si trova in questa condizione, secondo il Rapporto
2015 della Caritas nazionale, è
passato dal 2007 al 2014 da 1,8 a 4,1 milioni di persone, così come
è aumentata l'area del rischio di povertà e di esclusione
sociale, che ormai comprende
circa il 28% della popolazione italiana. Secondo la Caritas l'Umbria
e il perugino non si sottraggono a questa condizione, anche se
mancano dati specifici relativi alla povertà assoluta.
Il
rapporto della diocesi ha appunto l'ambizione di colmare,
parzialmente, una lacuna di conoscenza e di informazione pubblica.
Esso riguarda gli anni 2014 e 2015 ed è perciò più aggiornato
rispetto al rapporto nazionale che si ferma al 2014. Il campione a
cui si riferisce è abbastanza vasto: 987 sono state le persone che
hanno richiesto aiuto ai Centri d'Ascolto nel 2014 e 971 nel 2015, un
dato abbastanza stabile (ma nel 2013 erano state un po' meno di 900).
I richiedenti aiuto sono più donne (circa il 55%) che uomini, più
stranieri che italiani: 522 nel 2014 e 590 nel 2015. Le nazionalità
prevalenti sono Marocco (134), Albania (67) e Nigeria (62);
relativamente pochi (37) sono gli utenti romeni, i primi a livello
del dato globale delle Caritas italiane.
La
sezione dedicata dal rapporto alle caratteristiche personali e
familiari di chi chiede aiuto, oltre ai dati su sesso, età e
nazionalità, offre numeri, tabelle e percentuali sulla convivenza o
meno dei soggetti in coabitazioni familiari, sulla tipologia delle
abitazioni, sulla condizione professionale. Mancano di tutto ciò
convincenti chiavi di lettura; il commento spesso si ferma all'ovvio,
al generico o al banale e nessuna ipotesi di spiegazione si avanza
rispetto alle evidenze rilevate. L'unica valutazione meno generica
riguarda i “nuovi volti che la povertà si trova ad assumere”,
soprattutto tra i nativi: anziani autosufficienti non protetti dalle
pensioni, famiglie con tre o più figli minori, lavoratori con salari
insufficienti.
Più
dettagliata risulta la parte relativa ai problemi-bisogni più
avvertiti dagli utenti dei centri d'ascolto Caritas perugini.
Risultano centrali per tutti quelli della mancanza di lavoro, spesso
dopo un licenziamento, del disagio lavorativo legato a
sottoinquadramento, dei bassi redditi, delle conflittualità interne
alle famiglie, dell'abitazione, dell'istruzione. Alcune tra queste
criticità (l'abitazione per esempio) ed altre relative alla vita
quotidiana dei poveri sono, secondo gli estensori del rapporto,
sottostimate anche perché i problemi “vengono posti (se vengono
posti) in contesti diversi dai CdA, con richiesta di servizi
specifici”, nelle mense per esempio.
Un
breve capitolo è dedicato al tipo di intervento realizzato nei CdA
in risposta alle richieste. L'aiuto prevalente consiste in sussidi
economici per il pagamento di tasse e bollette, ma la tipologia
dell'assistenza è molto variegata e va dai sussidi per l'affitto, al
cibo, ai beni distribuiti nei cosiddetti “empori”, alla salute.
Il
testo prosegue con l'appello a un maggiore impegno, a tutti i
livelli, per il contrasto alla povertà. Vi si legge tra l'altro che,
tenendo conto delle esperienze compiute dalla Caritas nelle Unità
pastorali della Diocesi, la cosa più urgente sarebbe la “garanzia
di un reddito minimo di inclusione”, cui dovrebbe concorrere la
comunità locale, “in presenza di un contributo sostanziale (oggi
assente) dell'Amministrazione centrale”. Sarebbe interessante
capire se questo reddito di cui parla il caritatevole osservatorio
debba riguardare soltanto i cittadini italiani o anche i poveri di
nazionalità straniera, ma è tema su cui è difficile strappare un
pronunciamento chiaro a chicchessia.
Concludono
l'opuscoletto tre storie di vita, diverse, ma dello stesso segno, di
persone che dal limite estremo della povertà si sono rimesse in moto
e riaperte alla speranza grazie all'ascolto e all'aiuto della
“Caritas” perugina. È giusto: l'Osservatorio ci tiene a far
sapere che non di numeri o di “casi” si tratta, ma di persone in
carne ed ossa, con i loro drammi e i loro sogni. Va peraltro notato
che i compilatori dell'opuscolo mostrano di comprendere che le azioni
di solidarietà, per quanto positive, non hanno un carattere
risolutivo: in tutto il rapporto costantemente si sottolinea che la
povertà pur “essendo un fenomeno non privo di soluzioni” non scomparirà da sé ed ha bisogno dell'intervento pubblico.
Quello che invece manca del tutto è la consapevolezza del legame necessario tra povertà e modo di produzione capitalistico. In verità, da quando – con la fine ingloriosa dell'esperimento del comunismo novecentesco – sembra scomparsa dal campo del possibile un'alternativa di società, anche nelle aree avanzate del mondo, che - attraverso lo stato sociale - avevano conosciuto una forte riduzione delle povertà, tornano disoccupazione, esclusione, redditi bassi, ignoranza. Le previsioni del vecchio Marx sulla polarizzazione e sulla “miseria crescente”, che gli apologeti del capitalismo garantivano smentite dalla realtà dello sviluppo, sembrano trovare oggi, in forma nuova, conferma. Gli interventi caritativi vanno bene (e andrebbero anche meglio se non venissero, come in gran parte vengono, da denaro pubblico), ma, senza la consapevolezza che la povertà è figlia dello sfruttamento, possono perfino essere controproducenti, consolidando un sistema che produce povertà giorno dopo giorno. Non si combatte la povertà senza combattere la ricchezza, cioè il capitale e le sue logiche.
Quello che invece manca del tutto è la consapevolezza del legame necessario tra povertà e modo di produzione capitalistico. In verità, da quando – con la fine ingloriosa dell'esperimento del comunismo novecentesco – sembra scomparsa dal campo del possibile un'alternativa di società, anche nelle aree avanzate del mondo, che - attraverso lo stato sociale - avevano conosciuto una forte riduzione delle povertà, tornano disoccupazione, esclusione, redditi bassi, ignoranza. Le previsioni del vecchio Marx sulla polarizzazione e sulla “miseria crescente”, che gli apologeti del capitalismo garantivano smentite dalla realtà dello sviluppo, sembrano trovare oggi, in forma nuova, conferma. Gli interventi caritativi vanno bene (e andrebbero anche meglio se non venissero, come in gran parte vengono, da denaro pubblico), ma, senza la consapevolezza che la povertà è figlia dello sfruttamento, possono perfino essere controproducenti, consolidando un sistema che produce povertà giorno dopo giorno. Non si combatte la povertà senza combattere la ricchezza, cioè il capitale e le sue logiche.
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