C'è
una memoria che nulla e nessuno riuscirà a cancellare. È fatta di
esperienze vissute, di lotta per la democrazia e per le libertà che,
chi ha vissuto gli anni del fascismo, si porta dentro e a cui non è
disposto a rinunciare. Tina Anselmi aveva tra i quindici e i sedici
anni quando, da studentessa «modello», divenne staffetta
partigiana.
A
lei chiediamo di ricordare per noi a quale scuola, a quale cultura si
è formata, cosa si studiava a soprattutto cosa non si studiava negli
anni del fascismo e della guerra. Di scrivere insieme a noi, insomma,
una pagina del suo diario di adolescente in un periodo della recente
storia del nostro paese così cruento e devastante.
Ancora oggi, mentre ripercorre quegli anni, la sua voce si incrina, il tono si fa a volte aspro, a volte commosso. Ai severi giudizi politici in Tina Anselmi si sommano e si confondono i sentimenti, le emozioni, le paure di quei giorni. Ma ricordare, dice, è un diritto prima ancora che un dovere, perché il vuoto di conoscenza è devastante.
Ancora oggi, mentre ripercorre quegli anni, la sua voce si incrina, il tono si fa a volte aspro, a volte commosso. Ai severi giudizi politici in Tina Anselmi si sommano e si confondono i sentimenti, le emozioni, le paure di quei giorni. Ma ricordare, dice, è un diritto prima ancora che un dovere, perché il vuoto di conoscenza è devastante.
«Bisogna
partire da una considerazione difficile da capire per i giovani,
oggi, e cioè che durante il periodo fascista noi vivevamo in un
clima culturale molto diverso da quello in cui loro vivono. Anzitutto
non eravamo a contatto con la cultura di altri paesi che erano
ritenuti barbari o comunque non all’altezza di offrire dei
contributi. Alcuni autori erano proibiti, penso ad esempio a Remarque
con All’Ovest niente di nuovo,
portatore di una concezione pacifista che denunciava non solo
l’inutilità di qualunque guerra ma anche l’aggravamento dei
problemi che la guerra porta con sé. Non parliamo, poi,
dell’assoluta ignoranza in cui eravamo tenuti sui partiti, il loro
ruolo, le loro idee. Chi studiava aveva un’area culturale molto
limitata in cui dominava la dottrina fascista. Tutti noi eravamo
obbligati, il sabato pomeriggio, ad andare al ‘sabato fascista’
perché chi non ci andava non era ammesso a scuola il lunedì
mattina. Così il sabato pomeriggio ci veniva spiegata la dottrina di
Benito Mussolini e noi ragazzi l’assorbivamo come fosse la
normalità perché, tranne per chi aveva una famiglia con idee
diverse, non esistevano anticorpi: non c’era la televisione,
pochissime le famiglie che avevano la radio, pochissimi i giornali
che entravano nelle case. Il primo articolo della dottrina fascista
così recitava:‘lo stato è il valore assoluto, niente fuori dallo
stato, niente contro lo stato, niente al di sopra dello stato. Lo
stato è fonte di eticità'.
Quando
è che a me e a tanti altri della mia età è scoppiata la crisi?
Quando abbiamo visto questa dottrina tradotta in leggi e le leggi
diventare operanti per cui dei ragazzi presi come ostaggi, messi in
carcere, al primo atto di guerra furono uccisi per rappresaglia. La
rappresaglia era giustificata da quella dottrina. Lo stato è fonte
di eticità, quindi qualunque legge lo stato promulghi è di per se
stessa, perché legge, morale. Non c’è niente al di sopra dello
stato, quindi, per un credente, nemmeno la legge di Dio. Così, il
giorno in cui a Bassano del Grappa tutti gli studenti di tutte le
scuole vennero obbligati ad andare a vedere i ragazzi impiccati per
rappresaglia agli alberi di un viale, oltre al dramma, all’orrore -
io avevo fra gli impiccati il fratello della mia compagna di banco -
si aggiunsero gli interrogativi: era giusto, era possibile, era
ammesso che tutto questo avvenisse? Quella dottrina imparata così a
memoria poteva ancora essere accettata? E qui è avvenuta la prima
spaccatura perché il preside, un sacerdote, appena rientrati a
scuola, accese l’altoparlante e disse: ‘Qualcuno di voi mi
denuncerà, ma io ho il dovere in nome della chiesa di dirvi che
quello a cui avete assistito è un delitto. Chi è innocente non può
essere ucciso al posto di chi ha fatto una scelta sotto la sua
responsabilità. Non può esserci una legge al di sopra della legge
divina’.
Cominciammo
a discutere tra noi studentesse, non tutte accettavano questa visione
e così per la prima volta ci trovammo politicamente divise. Su di me
le parole del preside ebbero un effetto immediato: cercai subito tra
i giovani che conoscevo qualcuno collegato con le formazioni
partigiane e dichiarai la mia disponibilità a fare quel che era
possibile a 16 anni e mezzo in una guerra come quella che stavamo
vivendo. Continuavo ad andare a scuola e contemporaneamente facevo la
staffetta e nessuno sapeva della mia doppia vita anche perché
nessuno a scuola se ne accorgeva dal momento che gli orari scolatici
si rispettavano per modo di dire. Io abitavo a Castelfranco e per
raggiungere Bassano - il treno non funziona - andavo in bicicletta ma
c’erano i bombardamenti, i mitragliamenti. Quindi non c’era
severità negli orari. Sia per la scuola che per la mia famiglia
potevo mascherare questa attività. Il rapporto con le mie compagne
di scuola era molto cambiato: vivevo con disagio il fatto che molte
fossero favorevoli al regime. Disagio che aumentava a mano a mano che
la guerra mostrava il volto più crudele del fascismo e del nazismo.
Ci fu il rastrellamento del Monte Grappa, decine e decine di giovani
uccisi, ragazzi bruciati vivi, ci furono episodi terribili nei nostri
paesi. Se a scuola le cose andavano così, nella mia attività di
staffetta sapevo che potevo chiedere di nascondermi presso qualsiasi
famiglia perché le famiglie che stavano dalla parte dei tedeschi e
dei fascisti erano così poche che le avevamo individuate, tutte le
altre erano disponibili. E’ stata questa solidarietà dei
contadini, delle famiglie operaie, dei parroci, è stata questa
solidarietà della grande parte delle popolazione che ha permesso
alla mia brigata, che operava in territorio controllato dai tedeschi
e dai fascisti, di poter lottare. Se non avessimo avuto questo
retroterra che ci proteggeva, che ci nascondeva e ci aiutava,
difficilmente avemmo potuto svolgere la nostra attività di
sabotaggio dei treni e dei trasporti che impediva ai tedeschi e ai
fascisti di mandare in Germania i giovani e i macchinari delle
fabbriche. Voglio ancora oggi dire un grazie enorme a tutta quella
gente semplice e umile che ha rischiato la vita sapendo che per quel
che faceva non avrebbe ricevuto né riconoscimenti né encomi ma
semplicemente perché riteneva del tutto naturale farlo”.
Pensa
che oggi si possa verificare il pericolo, se non di fascismo, di
elementi di forte condizionamento
culturale nelle scuole? “In questo periodo sono stata invitata a
discutere in molte scuole e devo dire che la cosa che più temo è il
vuoto, la non conoscenza. Qui il discorso va oltre il dato politico,
ma temo questa cultura dell’evasione che nel vuoto di conoscenza
può essere più devastante di quanto all’apparenza non sembri”.
Cosa
pensa della manifestazione nazionale in difesa della scuola pubblica
che si sta organizzando per il 29 maggio? Esiste a suo giudizio il
pericolo che la scuola diventi un fatto mercantile, non più un
diritto di tutti?
"Mi
auguro di no. La mia esperienza come studentessa è stata in parte
nella scuola pubblica in parte nella scuola privata. Riesco a
recepire con difficoltà l’antinomia, la contrapposizione. Ma sono
certa che ci sia l’obbligo per lo stato di garantire la scuola a
tutti i giovani: è questa una funzione, un ruolo e una
responsabilità a cui non è possibile rinunciare. Quando penso
all’attuale rilettura dello stato dentro la cultura della
privatizzazione che sta venendo avanti, se ho due certezze sono
queste: la scuola, cioè la cultura e la sanità devono essere
garantiti a tutti i cittadini, sono beni essenziali. Che poi esista
anche il privato, che gli sia dato dello spazio, lo ritengo giusto ma
deve avvenire avendo affermato prima questo principio".
Da
Lezioni di storia. La scuola da giovanni Gentile a
Francesco D'Onofrio. Supplemento
a “il manifesto”, senza data, ma aprile 1994
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