Le statue di George Washington e Thomas Jefferson nel Washington Jefferson College |
Della rivoluzione
americana si parla relativamente poco: in termini sacrali, per
ricordare la nascita di un grande paese; in termini istituzionali,
come processo di formazione di un nuovo stato; qualche volta, in
termini polemici, per sottolineare la tensione sociale, gli aspetti
in qualche modo classisti, che la attraversarono. Molto spesso, la si
rappresenta in forma apologetica come la prima rivoluzione coloniale
dei tempi moderni, il primo paese extraeuropeo che nasce liberandosi
dal giogo coloniale di una potenza europea.
Tutto questo è
senz’altro vero. Ma nessuno che ripensi quella vicenda con un po’
d’immaginazione storiografica può fare a meno di riflettere su
quanto Washington e Jefferson somigliassero agli avversari inglesi.
Dopo tutto il termine «americano» era entrato nell’uso comune,
per definire i soggetti coloniali, non più di una trentina di anni
prima: fino alla vigilia dell’indipendenza, i padri fondatori
dell’America pensavano a se stessi più come inglesi che come
americani, o pensavano agli americani come a una suddivisione degli
inglesi. Nulla di più diverso dalle guerre coloniali successive:
persino le guerre di liberazione dell’America Latina, così spesso
assimilate ideologicamente o storicamente alla rivoluzione americana
(e da essa in larga misura ispirate), contengono un elemento di
diversità nella componente india che aveva finito col diventare,
aldilà dei rapporti di potere coloniali, parte inestricabile
dell’identità latino-americana. Ma l’indianità entra nella
guerra d’indipendenza solo come maschera (travestiti da indiani i
ribelli di Boston gettano in mae il té importato dall’Inghilterra,
per protestare contro le inique tasse). Altrimenti, rispetto al
sostrato indiano, americani e inglesi condividono lo stesso progetto:
farlo sparire. Non sarà un caso che la guerra d’indipendenza sia
una guerra «civile» anche fra indiani, schierati in parte con la
corona e in parte con il Congresso. Dal punto di vista dei veri
colonizzati, è una lite fra bianchi.
Il mascheramento indiano
però ci dice alcune cose in più sulla maschera che sugli indiani.
Nella misura in cui questa guerra d’indipendenza è anche conflitto
fra simili, essa genera lacerazioni, duplicazioni, zone d’ombra e
territori contesi, geografici e psicologici, che nella figura del
mascheramento trovano il correlativo ideale. Come spesso accade,
questo significato interiore dei fatti storici lo capiamo soprattutto
dalla letteratura.
Il più notevole romanzo
sulla rivoluzione americana, The Spy di James Fenimore Cooper
(quello dell’Ultimo dei Mohicani: in cui appunto gli indiani
si dividono fra buoni e cattivi a seconda se stanno con Washington o
con Re Giorgio), parla appunto di questo. Il suo sottotitolo è «una
storia del territorio intermedio», ed è una storia di mascheramenti
e travestimenti, in cui lo stesso George Washington si traveste
passando inosservato fra i suoi nemici, mentre il protagonista,
agente segreto della rivoluzione, viene scambiato per un traditore
dai ribelli stessi. L’argomento della storia è dunque la
similarità, l’intercambiabilità fra le due parti in campo: ve lo
immaginate, Amilcar Cabrai che si traveste per passare inosservato
alla corte di Salazar? Il territorio neutrale è la zona d’incertezza
in cui ciò che dovrebbe essere contrapposto si sovrappone (le guerre
civili non hanno confini, non hanno territori separati: New York è
alternativamente capitale dei ribelli e degli inglesi, a seconda di
chi ne prende il possesso). Ma fra le righe di Cooper la zona contesa
lo è anche perché costituisce quello che le due parti hanno in
comune e che prepara una futura riconciliazione, in nome di valori e
identità condivisi. Questo lo suggerisce la metafora familiare,
letteralmente onnipresente negli anni della rivoluzione: le tredici
colonie americane come «figlie» dell’Inghilterra. Nella prima
parte della sua autobiografia, Benjamin Franklin ne offre una
variante particolarmente significativa. Racconta di come, apprendista
presso suo fratello, si fosse ribellato alla sua autorità perché
questi la esercitava in maniera eccessiva e violenta: precisamente
l’argomentazione con cui la Dichiarazione d’indipendenza
legittimerà poi la rottura delle colonie con l’autorità della
corona. Ma, pur non pentendosene mai, Franklin non si vanta di questo
gesto; lo definisce anzi un «erratum» che sanerà poi
riconciliandosi col fratello. Le condizioni di questa
riconciliazione, beninteso, sono quelle date dalla liberazione:
l’America può fare pace con l’Inghilterra, riconoscere la comune
storia ed eredità, nel momento in cui non è più sotto il suo
potere, come Franklin fa pace col fratello quando questi non può più
esercitare autorità su di lui.
Tuttavia, la metafora
familiare e l’insistenza sulla riconciliazione danno indicazioni
importanti sulla natura di questa rivoluzione. In primo luogo, ci
rivela che liberandosi dagli inglesi, gli americani non hanno
cacciato un oppressore estraneo e straniero, ma hanno tagliato via
dolorosamente una parte di sé. I profughi legittimisti che fuggono
per tornare in Inghilterra, «boat people» della rivoluzione,
sono tanto americani quanto Franklin o Jefferson - e Franklin e
Jefferson sono tanto inglesi quanto il più inossidabile dei
legittimisti.
Per questo, in secondo
luogo, la metafora familiare e la riconciliazione dicono anche che la
rivoluzione è percepita, non come un atto liberatorio, ma come un
gesto carico di perplessità e di colpa, una situazione precaria, da
chiudere subito, difficile da sostenere psicologicamente se non
moralmente o legalmente.
Della difficoltà di
guardare in faccia la rivoluzione parla il classico racconto di
Washington Irving, Rip Van Winkte in cui il protagonista si
addormenta magicamente prima del 1776 e si risveglia vent’anni dopo
a cose fatte. La testa di Re Giorgio nel ritratto al muro della
taverna è sostituita da quella di George Washington: è cambiato
tutto politicamente (c’è una repubblica invece di una monarchia),
non è cambiato gran che antropologicamente (sempre Giorgio si chiama
il sovrano, e sempre la parrucca indossa, e sempre fa affiggere il
suo ritratto ai muri delle taverne). La prima cosa che Rip vede è un
altro se stesso, suo figlio, sosia identico, maschera, suo omonimo:
quello che è avvenuto ha spaccato irrimediabilmente in due la sua
identità.
Con tutto questo, non
intendo certo dire che le altre, più abituali categorie - fondazione
statuale, trasformazione sociale, indipendenza coloniale - siano da
buttare. Piuttosto il contrario: la categoria della guerra civile le
attraversa tutte, soprattutto quella della rivoluzione. Questa
infatti è sempre una guerra fra simili, in cui il confine è
economico o ideologico, come nelle colonie inglesi d’America del
1776, e passa non solo fra gli individui ma anche, più
drasticamente, dentro di loro.
Nel frattempo, vorrei
segnalare una variante sotterranea della metafora familiare, con
conseguenze forze impreviste. Sempre più, l’America tende nella
sua storia a legittimarsi non con le origini inglesi, ma con il
radicamento nel nuovo continente: è la «teoria della frontiera»,
proposta da Frederick Jackson Turner nel 1893. All’inizio, si dava
per scontato che prima degli americani non ci fosse nessuno:
gradualmente l’America riscopre gli Indiani, e li rivendica come i
veri antenati. La Storia della civiltà letteraria degli Stati
uniti (curata da Emory Elliott, Utet, 1991) fa cominciare la
letteratura americana dall’oralità indiana; e in Balla coi lupi
Kevin Costner adotta i Sioux oglala come i suoi veri antenati. Ma se
le cose stanno così, allora la seconda guerra civile americana non è
ancora quella fra Nord e Sud, ma è la guerra lunga un secolo che
l’America ha condotto contro gli indiani. Se adesso l’America
rivendica di essere anche indiana, allora, retrospettivamente, anche
Little Big Horn e Wounded Knee diventano sanguinosi episodi di una
secolare guerra dell’America contro se stessa.
In AA. VV., Delle
guerre civili, manifestolibri,
1993
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